HomeCulturale ragioni del flop – di Claudio Cereda

Commenti

le ragioni del flop – di Claudio Cereda — 4 commenti

  1. Leggendo questa riflessione (e avendo letto la tua autobiografia), la prima cosa che mi viene in mente è che abbiamo dei punti di partenza molto distanti ma siamo arrivati a conclusioni molto simili.
    Infatti sottoscrivo pienamente i 4 punti finali, nel merito e, soprattutto, nel metodo, come affermazioni non sistematiche ed empiricamente confermate, sullo sfondo del troppo dimenticato Churchill (di cui mi onoro di aver letto l’intera storia della II Guerra Mondiale in lingua originale e… sono stanco ancora adesso): “È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”.
     
    Sono arrivato al marxismo senza aver mai affrontato la politica in tutta la vita precedente ai 16 anni. Non si sapeva come avessero votato i miei genitori, tranne quando, più tardi hanno votato me per il Comune (anche se, come vedremo, qualche buona lettura girava per casa).
    I miei compagni di merende erano fanatici dei motori e passavamo i pomeriggi a fare motocross, o in giro con la motoleggera (si diceva così) attorno al lago di Como e su e giù per le montagne circostanti, riuscendo straordinariamente a non farci del male.
    Quando i giovani liberali saronnesi organizzarono una manifestazione – era già il ’69 – in onore di Ian Palach e contro l’invasione della Cecoslovacchia non capii bene e rimasi a guardare. Ma i giornali li leggevo ogni giorno e cominciavo a realizzare quel che mi accadeva attorno.
     
    Non ho mai avuto un’educazione cattolica. Ho fatto la prima comunione e mia mamma ha ripreso a frequentare la Messa per accompagnarmi e darmi il buon esempio ma, dopo il trasloco in un’altra città, nessuno in famiglia si è più preoccupato di frequentare la parrocchia.
    Un giorno estrassi dalla libreria di famiglia “L'existentialisme est un humanisme” di Jean Paul Sartre e fui folgorato dal nesso inscindibile tra ateismo e libertà umana.
    La tremenda responsabilità di darsi un senso fu temperata molto presto dalla lettura del “Manifesto del Partito Comunista”, anche questo presente nella libreria di casa in un’edizione presentata da tre saggi di Antonio Labriola.
    Dimostravo poca comprensione della posizione di Sartre, ma l’idea che la storia avesse una direzione di marcia indicava il cammino anche per ciascuno degli esseri umani, me compreso.
    Ora sapevo dove andare e, di lì a pochi mesi,  mi trovai, con il meglio del ’68 locale, a tenere i doposcuola nei quartieri popolari: per me, la politica e l’impegno sociale furono un dovere che discendeva da presupposti etico-filosofici.
    Studiai molto la teoria del marxismo e la storia del movimento operaio e, lungo questo percorso transitai attraverso Avanguardia Operaia per approdare al Pci.
     
    Il castello ideologico cominciai a smontarlo a cavallo tra i ’70 e gli ’80, sotto due influenze convergenti: un crescente interesse per l’arte contemporanea, la cui comprensione – da Duchamp in poi, soprattutto – ha una stretta relazione con il “pensiero negativo”; e la frequentazione di Paolo Sorbi (con un passato in Lotta Continua e un futuro nel cattolicesimo integrale) che, a Milano e con il patrocinio delle Acli (come il cattolicesimo di sinistra milanese abbia colto ogni occasione per sostenere la sinistra eterodossa in funzione anti-Pci è una storia da scrivere), teneva un circolo di giovani che guardavano a Massimo Cacciari, Mario Tronti e la sua “autonomia del politico”, Don Gianni Baget Bozzo e Gianfranco Miglio. Piervito Antoniazzi apriva fisicamente la porta per le nostre riunioni. Attraverso questo percorso e queste letture mi sono liberato dalla filosofia della storia e da un’idea del sapere come totalità unificante, a favore della molteplicità delle discipline e degli approcci, anche, creativi.
     
    Mi hanno poi convinto ad abbanonare la politica (dove avevo ricostruito un ruolo nella federazione varesina del Pci) e dedicarmi con più convinzione al lavoro di piccolo imprenditore un paio di episodi, nel corso degli anni ’80. La “Marcia degli onesti” dell’autunno 1988, che contrapponeva frontalmente i lavoratori dipendenti (gli onesti, appunto) ai lavoratori autonomi (i disonesti, dunque). Ora, io, da bravo “giovane disoccupato”, mi ero iscritto alle apposite liste di collocamento, mi ero visto offrire, e insieme, sconsigliare, un posto di venditore di pentole alla Upim (curiosamente diventata, poi, mia cliente per oltre un decennio). Mi ero quindi risolto, nel 1982, ad aprire una partita I.V.A. Avendo lavorato per enti pubblici e, in seguito, per grandi aziende, un centesimo mai era scappato al fisco (tranne qualche collaborazione con le Feste de l’Unità, dove il tesoriere di turno ti diceva: “questa è la cifra; vedi tu se vuoi fare la fattura”). A prendermi del disonesto dalla Cgil non ci stavo.
    Il secondo episodio fu l’elezione di Achille Occhetto alla segreteria del Pci, che mi parve il prevalere di un sinistrismo velleitario e generico (senza nemmeno le qualche grandezze ingraiane). Il giudizio mi sembrò confermato dalla svolta della Bolognina, dove si aprì un dibattito sul nome del partito, invece di parlare di tutto il resto.
     
    Per il resto, mi ritrovo molto nell’articolo di Daniele Marini: l’uscita dall’indigenza di buona parte del terzo mondo (altro che Piketty), con qualche conseguenza per il welfare di noi, terzomondisti d’altri tempi; l’irreversibilità della globalizzazione che non piace a molti internazionalisti; il rifiuto della decrescita felice, malgrado mi stia accingendo a sperimentare la vita in campagna; il ritenere un’occasione perduta il rifiuto “a prori” del nucleare. Aggiungerei, una certa capacità di contenere le crisi locali, in modo da evitare che si convertano in conflitti globali. E il fatto che il grande progresso, sì, progresso economico e sociale su scala mondiale, cui abbiamo assistito negli anni ’80 e ’90 sono stati a trazione liberale e liberista. Non si può che prenderne atto.
    Ci sono storture da correggere? Sono sotto gli occhi di tutti e siamo qui per questo.
    Ma non è un caso che il grande conflitto, oggi, sia tra apertura e chiusura, tra europeismo e nazionalismo, tra sviluppo e declino. E che attraversi abbondantemente tutti gli schieramenti.
     
     

  2. Hai ragione, il problema è anche se non soprattutto questo.
    Sto leggendo con molto interesse tutti gli interventi in merito.
    Da giovane pur essendo sempre stato a sinistra non ritenni mai valido quel progetto; ancora oggi ho interesse a conoscere le ragioni per le quali miei coetanei invece vi aderirono con passione

  3. Devo dire che il saggio di Fortini postato a commento dell'articolo di Alvaro Ricotti, come esempio di mossa convenzionalistica mi sembra un caso di scuola.

  4. Abbiamo vissuto un grande periodo di cambiamento.
    Ad un certo punto (circa 1973) abbiamo pensato he servisse una forma partito per dare corpo alla nostra idea di cambiamento.
    L'ideologia ha cementato le nostre culture e diversità impedendo un moto unitario. Abbiamo scimmiottato l'esperienza di altre forme Partito ignorandone la Storia del loro radicamento, ampliandone i miti (la resistenza tradita) ed ignorando le complessità.
    I soldi per esempio, che avrebbero permesso maggiore radicamento. Ma soprattutto i modelli. Per esempio i movimenti dell"est ignorati mentre Urss e Maoismo offrivano. già modelli usurati.
    Potevamo pensare al crollo del Comunismo? Forse si. Ad un ecologismo non militante? Alla crescita dell'Europa?
    Il discorso di Claudio ci porta ad una profonda riflessione sui miti che ancora ci portiamo dentro, irrisolti al momento della scissione che portò MLS ad unirsi col Pdup.
    Milano la grande capitale d’Italia produsse il grande movimento culturale degli anni 70, al quale non sapemmmo dare un carattere generale unitario. Ed in realtà si sarebbe potuto superare le ideologie di Gruppo.
    Un parziale tentativo venne fatto con gli 8 referendum, appoggiando i radicali su temi che riguardavano la modernizzazione del Paese. Per compiere passi significativi avremmo dovuto abbattere le ideologie di gruppo e i luoghi comuni che ci portavano dentro.
    Claudio cita, tra molte cose, gli Stati uniti d’Europa. Questo accompagnato da una riflessione sui movimenti dell’est sarebbe stato un grande pensiero potenzialmente unificante

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

HTML tags allowed in your comment: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>