Beppe Fenoglio, in pillole – di Rino Riva
Il mio rapporto con Fenoglio incominciò per caso nel 1978, avevo 31 anni. In casa di amici vidi la prima edizione Einaudi del 1969 di questo libro, curato da Lorenzo Mondo. Mi incuriosì il titolo: “Il partigiano Johnny”. Non conoscevo nulla di Fenoglio, non sapevo niente. Me lo feci prestare e mi accinsi alla lettura.
Non fu una lettura facile, per una serie di motivi. Il libro, ho saputo poi, era postumo, essendo l’autore già dall’altra parte della vita da 6 anni. Un libro magmatico, pieno di metafore e di nuovi vocaboli. L’avrei apprezzato a fondo qualche anno dopo. Inoltre, nel testo ci sono brani lunghissimi oppure dei lapidari sintagmi in inglese. Sì. Pensavo che fosse un vezzo dell’autore. Più tardi avrei scoperto che non era così.
Ho proseguito a leggerlo, nonostante le indubbie difficoltà, poiché mi aveva in qualche modo catturato. Da quel momento in poi Beppe è diventato un autore di riferimento. Mi sono portato a casa tutto quello che veniva pubblicato di lui e su di lui. Dai racconti di “I ventitré giorni della città di Alba”, al racconto lungo “La malora” che scatenò in lui il desiderio di cambiare casacca per le parole non tenere sulla sua scrittura da parte di Elio Vittorini. Vittorini fu anche il responsabile dello smembramento di un suo romanzo sulle difficoltà di reinserimento dei partigiani, il titolo del romanzo di Beppe Fenoglio era “La paga del sabato”.
Uscirono quindi dei libri con Garzanti ma anche con questo editore i rapporti non furono dei migliori. Diciamo che se si guarda bene, ognuno, da Vittorini, a Calvino e a Garzanti, ha messo del suo per condizionare l’opera di Beppe Fenoglio a tagli e riscritture sovrumane, perdendo di vista il lavoro di insieme che era semplicemente straordinario.
La critica mal riposta di Vittorini a “La malora”, libro per me bellissimo, costrinse Fenoglio a un ripensamento che lo portò a decidere di scrivere le sue opere prima in inglese per poi tradurle in italiano. In questo modo, si sarebbe allontanato dalla lingua aulica e retorica di quei tempi e avrebbe trovato una sua cifra. Un’impresa colossale. Fenoglio si mise a scrivere il libro grosso, the book of the book, un’opera complessa, straripante, ricca di un linguaggio nuovo che aveva come tempificazione tutto il periodo della guerra (1940 ÷ 1945 e poco oltre).
Fecero a gara a voler smembrare questo libro tutti quanti, lo stesso Calvino, editore Einaudi, quando lo ebbe tra le mani dopo la scomparsa di Beppe, lo giudicò privo di interesse. Vale questo discorso a maggior ragione per Garzanti che bocciò senza tentennamenti “The book of the book” e invitò Fenoglio a tirarne fuori delle storie da pubblicare in libro.
Dobbiamo ringraziare Walter Fenoglio, come Max Brod per gli scritti di Kafka, se tutto questo materiale che continua ad essere pubblicato esiste ed è stato conservato. Fenoglio avrebbe desiderato che tutte queste sue carte venissero distrutte.
Ne sortirono quindi: Primavera di bellezza, Un giorno di fuoco e Una questione privata. Gli ultimi due usciti subito dopo la morte di Fenoglio. In quel lasso di tempo Fenoglio scrisse e riscrisse in modo matto e disperatissimo storie su storie estraendole dal libro grosso per riadattarle alla pubblicazione. Teniamo in mente questo particolare e fra un attimo capiremo il perché.
Su quelle carte a un certo critici letterari, filologi, semiologi e studiosi vari salirono ad Alba e si buttarono a pesce tutti e vennero pubblicati libri su libri incompiuti, l’elenco è lunghissimo. Si avviò anche un ricco e variegato saggifenoglificio.
Fenoglio fu un autore prolifico, si cimentò in una pletora di testi teatrali, racconti per ragazzi, racconti fantastici e una serie di epigrammi in cui mette alla berlina una serie di personaggi dell’Alba dell’epoca.
Due considerazioni per concludere e un giudizio.
Il fenglese. Personalmente lo chiamo inglese maccheronico. Quando vuoi scrivere degli appunti in quella lingua e ti mancano gli strumenti sei portato ad inventare parole inesistenti nella lingua in cui ti vuoi esprimere. Fenoglio possedeva la materia a tal punto che si cimentò con traduzioni assai importanti dell’epoca elisabettiana ma non conosceva tutto per cui inventava delle parole per comporre testi che poi vennero analizzati, sezionati, radiografati dagli studiosi. Da questa studio minuzioso l’appellativo di “fenglese”.
Il fenglese veniva tradotto nella lingua madre ma questo lavoro non è stato completato. Pensate che un libro di quel cofanetto Einaudi sui mesi successivi alla fine della guerra è ancora tutto in inglese. Ecco perché ci sono ancora nelle sue pagine tanti brani ancora da tradurre.
Nel 1978 salì o discese, dipende dal luogo di partenza, una pletora di studiosi coordinati da Maria Corti da cui scaturì un modello di studi con l'edizione critica dell'opera di Beppe Fenoglio, pubblicata in un cofanetto in 5 volumi da Einaudi (1978).
Ne nacque perfino una querelle che divise in due gli studiosi su posizioni contrapposte. Da un lato Maria Corti con altri che era convinto che “the book of the book” nasce nell’immediato dopoguerra e sostanzialmente è da considerarsi un brogliaccio da cui ricavare storie compiute. Altri come Giovanni Falaschi invece sostenevano che Fenoglio aveva scritto le sue storie a cominciare nell’immediato dopoguerra ma non avevano nulla a che vedere con il progetto del “libro grosso” che invece viene steso a partire dal 1957, 58. Lo dice la forza eccezionale del linguaggio.
La querelle si concluse nel 1994 a favore dei secondi quando a Lorenzo Mondo vennero portati dei quaderni da parte di un operaio albese che li aveva ritrovati in riva al Tanaro. Il contenuto di quei quadernini la dice lunga sul modo di scrivere di Beppe Fenoglio nell’immediato dopoguerra. Quel libro verrà intitolato non a caso “Appunti partigiani”.
Il giudizio è presto detto: secondo me Beppe Fenoglio per quanto incompiuto è il maggiore autore italiano del secondo novecento.