preistoria della grafica computerizzata raccontata da uno che la usava – di Lorenzo Baldi
Daniele Marini fondò Pixel e io ne fui un appassionato lettore, ma per me volava troppo alto…Ero passato dalla comunicazione cartacea (il Quotidiano dei Lavoratori, il Manifesto e, più tardi, alcune riviste di arte, architettura e design) a quella audiovisiva, che stava diventando accessibile al di fuori delle sale cinematografiche e della televisione e si stava diffondendo anche nel mondo delle imprese e della cultura a partire dalla seconda metà degli anni ’70.
Sapevo maneggiare gli strumenti della fotografia già dall’età di 10 anni, grazie ad un padre fotoamatore, e l’idea aveva cominciato a frullarmi per la testa già qualche anno prima quando Augusto Ciuffini, produttore di Caroselli (ricordate quello del tonno Arrigoni "io non compro a scatola chiusa") e padre della valletta di Mike (Sabina), realizzò degli audiovisivi per la campagna di Avanguardia Operaia in occasione del referendum del 1974.
Si trattava di diapositive sincronizzate ad un’audiocassetta, proiettate manualmente, oppure in dissolvenza, attraverso una centralina elettronica, anche su più schermi (e, in questo caso, la si chiamava multivisione).
Fu così, che con la mia compagna di allora e di oggi, Liliana, realizzammo il nostro primo audiovisivo per il comune dove lei lavorava. Coordinava le attività parascolastiche delle scuole elementari (un doposcuola intelligente a base di drammatizzazioni teatrali e giganteschi murales sulla resistenza) e lo documentammo con una mole impressionante di fotografie ed un testo pensoso, come usava al tempo. Era, credo, il 1977.
Cinque anni dopo, incontrai un artista che mi propose di lavorare insieme sugli audioviosivi. Fu un inizio, ma lui viveva di rendita e io avevo un disperato bisogno di creare un lavoro economicamente credibile. Quando un amico illustratore mi propose di realizzare una trasmissione televisiva per la Televisione Svizzera, producendo audiovisivi da trasferire in video e ottenendo così una specie di cartone animato a basso costo, io e Liliana aprimmo la partita I.V.A. e ci gettammo a capofitto. Seguirono anni difficili, puntavamo a un mercato nella comunicazione sociale e nella cultura che non era maturo; non avevamo rapporti con le grandi imprese che cominciavano a investire in comunicazione interna ed esterna.
Riuscimmo comunque a realizzare progetti interessanti: un audiovisivo di promozione delle biblioteche lombarde (giravano più copie pirata che copie vendute), una campagna di informazione della Regione Lombardia sulla legge per l’imprenditoria giovanile (partimmo troppo presto per approfittarne); realizzammo il nostro primo documentario video sui “Monasteri Benedettini della provincia di Varese” che, ancor oggi, qualcuno guarda su You Tube o Vimeo.
Alla fine degli anni ’80, entrammo in contatto con i servizi di formazione e comunicazione interna di alcune aziende della Grande Distribuzione, delle quali diventammo consulenti e fornitori, partecipando all’inizio dei programmi di qualità totale, realizzando videocorsi di formazione – tra i più importanti quelli per la sicurezza del lavoro dopo l’approvazione della legge 626, quelli per il passaggio dalla lira all’euro e quelli che accompagnavano i progetti di azionariato dei collaboratori, più o meno fortunati, di aziende come i supermercati Auchan e Sma e i centri bricolage Leroy Merlin.
Ma torniamo alla computer grafica e ai primissimi ’80. A quel tempo, la realizzazione di diapositive con un semplice titolo richiedeva l’utilizzo dei caratteri trasferibili, seguito da più passaggi su pellicola fotomeccanica e fotografica. Per non parlare di elaborazioni più complesse, con sovraimpressioni o effetti grafici, che potevano richiedere molte ore di lavorazione, con fallimenti e tentativi ripetuti.
L’interesse per la nascente computer grafica era quindi alto, perché avrebbe ampliato le possibilità e facilitato molto il lavoro. Partecipai così alla sua nascita dal basso, come potenziale utente interessato a soluzioni non troppo costose e con l’approccio da autodidatta che mi ha sempre accompagnato.
Erano i primissimi anni ’80 e, per cominciare a razzolare con la grafica computerizzata, comprai un Atari 800, che costava, più o meno, un milione di lire. Aveva un processore 6502 (come l’Apple II), 8 Kb (!) di memoria, una risoluzione di 320 x 192 pixel con 4 colori contemporanei (a scelta tra 128), poteva animare sullo schermo degli ogetti di 32 x 32 pixel e salvava i dati su un registratore esterno a cassetta.
Atari era leader nei videogiochi, quindi le caratteristiche grafiche erano importanti per i suoi home computers, i cui concorrenti diretti erano gli inglesi Sinclair e i più noti Commodore. Come monitor, usava un normale televisore a colori.
Mi buttai ventre a terra nella programmazione in basic e, imparati i primi rudimenti, programmai un’applicazione per disegnare col joystick sullo schermo. Non c’erano, o non sapevo dove trovarle, librerie per il disegno grafico, e mi ingegnai così a costruire tutte le routine per disegnare segmenti, poligoni, circonferenze ecc. e per eseguirne il riempimento.
Il Basic non è mai stato un linguaggio di programmazione elegante e temo di aver aggravato i suoi difetti, ma funzionava e l’interfaccia utente era facile, ci hanno disegnato anche dei bambini. Con l’Atari 800 si potevano fare anche rudimentali animazioni 2D, caricando tutti i fotogrammi in una zona della memoria e controllando un puntatore che li riproduceva a turno sullo schermo. Per utilizzare queste funzioni avanzate, imparai ad accedere direttamente all’hardware e scrissi qualche rudimentale routine in linguaggio macchina (l'Assembler).
Con la sezione del Pci organizzai anche una mostra, a Saronno, mobilitando i primi rivenditori di informatica, i bravi insegnanti che, all’ITIS, cominciavano ad usare i PC e, perfino, il tabaccaio che faceva i primi sistemi per il totocalcio con un Olivetti M20. Non si può dire che la nostra sezione del PCI, in quegli anni, guardasse al passato.
Il secondo step di pionierismo dal basso venne alla fine degli anni 80, con il Commodore Amiga 1000, poi 2000. Per me non si limitò ad essere un’occasione di crescita personale, ma ebbe un risvolto professionale e commerciale. Gli affari della piccola società di cui vivevo non andavano granché bene e quando mi imbattei in questo computer fui folgorato dalle sue prestazioni, mentre visitavo il negozio il tempio del computer (in Corso Vittorio Emanule, a Milano).
Amiga offriva la miglior grafica a colori a basso costo del momento, parecchio prima di Apple e un sistema operativo già basato su mouse e interfaccia grafica. Con lo stesso processore Motorola 68000 dei primi Apple Macintosh e 256 Kb di memoria, offriva una grafica a 16 colori con la stessa risoluzione delle trasmissioni televisive o, a mezza risoluzione, 4096 colori, sufficienti per digitalizzare decentemente una fotografia.
Non si trattava più di un giocattolo per nerd. In Italia, se anche volevi, non trovavi un programma legale per Amiga e c’era un gran commercio semiclandestino di dischetti con i programmi pirata, provenienti dagli US.A. e rigorosamente senza manuale.
Ci investii tre milioni, quasi tutte le poche riserve disponibili (anch’io ricordo con terrore gli interessi vicini al 20%, peraltro all’origine delle ossssioni anti-inflattive della politica economica europea), e fu un affare, anche se la leggendaria instabilità del sistema operativo mi costò molte notti insonni e il frequente terrore di non consegnare in tempo i lavori.
In quegli anni, ero passato dalle diapositive al video, con i sistemi U-matic. Le titolatrici video costavano molto e, se a colori, moltissimo. Con l’aiuto di uno scatolotto elettronico australiano (che andava a 240 volt ed era sensibilissimo alla tensione di rete per cui ci volle un trasformatore su misura per farlo funzionare), gli Amiga si interfacciavano perfettamente con i sistemi di montaggio video e producevano titoli a colori, a livello di macchine specializzate, 10 o 20 volte più costose (e anche meglio).
Si potevano anche acquisire e modificare immagini con una telecamera, realizzare animazioni 2D e 3D in tempo reale (ne ricordo una per il Congresso delle ACLI a Milano, con un flying logo che non si poteva vedere e una, invece, molto carina, con i rimbalzi di una pallina che facevano da filo conduttore ad un filmato sulla storia della Cgil). Vendevo anche contributi grafici ad altri colleghi.
Quanto alle diapositive, che si usavano soprattutto nelle convention aziendali, c’erano dei sistemi con software proprietari e costosissimi film-recorder, con i quali una slide costava anche più di centomila lire.
A quel tempo, Power Point era agli albori e in bianco e nero e la videoproiezione una tecnica ultracostosa. Con clienti, anche importanti, ma renitenti a spendere svariati milioni di lire per qualche diapositiva, mi creai un mercato, producendo le diapositive con l’Amiga e riproducendole fotograficamente dal monitor CRT più decente che potessi permettermi.
Non erano super-nitide e soffrivano delle deformazioni geometriche del monitor, ma andarono bene per una convention dei supermercati GS (ora Carrefour), alla presenza di Romano Prodi che era maggiore azionista in qualità di Presidente dell’I.R.I.
Poi, nel 1991, passai al Macintosh, che uso tuttora, e finì la fase pionieristica. Photoshop 2 (oggi siamo alla versione n. 21) per elaborare le immagini, scheda Vista per digitalizzarle e trasferirle nel montaggio video, le diapositive le stampava un service (ma quasi mai bene al primo tentativo). L’attenzione si era, ormai, spostata dal “poterlo fare” (a costi sostenbili) al “saperlo fare”, utilizzando tecnologie stabili e in continua crescita prestazionale.
Lo sviluppo e la crescente professionalizzazione dell’attività di comunicazione audiovisiva per le aziende non mi ha poi lasciato il tempo e la voglia di continuare a maneggiare gli strumenti di programmazione (magari “strutturandomi”) e, di questo, provo un certo rimpianto. Ma, nei limiti delle possibilità economiche, non ho mai smesso di mantenermi sul fronte avanzato delle tecnologie. E, grazie a quelle esperienze, ho sempre cercato di capire cosa succedesse sotto il cofano, senza mai dover chiedere assistenza per uno dei numerosi Mac e Pc che hanno lavorato sulle mie scrivanie.