Il dopo Covid della scuola: tra didattica a distanza e precariato – di Giovanni Cominelli
All’irrompere del Covid-19, la Ministra Lucia Azzolina ha provveduto immediatamente non solo a chiudere le scuole, ma anche l’anno scolastico, rinviandone la riapertura ad una data imprecisata dell’autunno, che solo ora è stata fissata al 1° settembre.
Pur avendo a disposizione 800 mila insegnanti in servizio e regolarmente retribuiti fino al 31 luglio, con ferie ad Agosto, e grandi edifici scolastici, il sistema è stato sbarrato. L’accoglienza, l’educazione, la ricreazione dei ragazzi viene scaricata sui Comuni, sugli Oratori, sulle Associazioni di volontariato.
La politica del personale ha prevalso sull’educazione e sulla didattica
Fin dall’inizio, la preoccupazione principale della Ministra non è stata quella dell’emergenza educativa degli alunni, ma quella dei trasferimenti del personale che li aveva chiesti e quella dei concorsi per la regolarizzazione dei precari. Sarebbe bastato che la Ministra facesse valere il principio della continuità didattica, confermando automaticamente in cattedra tutti coloro che vi si trovavano a fine febbraio.
E gli aventi diritto al trasferimento? Il vincolo della continuità educativa, relazionale e didattica doveva essere cogente, in base alla legge e al buon senso. Ma poiché da molto tempo la politica scolastica è ridotta a politica del personale e poiché i ruoli del Ministero e dei Sindacati sono ormai divenuti intercambiabili, questa primavera la questione centrale non è stata quella delle problematiche complesse della Didattica a distanza, che le scuole hanno affrontato da sole, alla garibaldina, ma quella della gestione del personale quale variabile indipendente del sistema di istruzione nazionale.
Nell’ultimo mese si é accesa nel Governo una ridicola batracomiomachia tra chi sosteneva che bisognava fare i concorsi regolari per l’assunzione dei precari, nel nome dei criteri di merito, e chi proponeva l’assunzione subito per viam breviorem, persistendo rischi di contagio per le procedure concorsuali normali. Alla fine, si è trovato un compromesso: assunzioni dei precari subito, concorsi per regolarizzarne 32 mila da ottobre, con questionari a risposta aperta, non quiz a risposta-crocetta, naturalmente se e quando la nebbia del Covid-19 si sarà diradata.
L’esercito di riserva del precariato…
E’ lecito prevedere che non per ciò la piaga storica dei precari sarà sanata. I precari sono ormai un corpo insegnante, giuridicamente parallelo. Sul loro numero la discussione ferve: circa 140 mila? La loro età può arrivare fin oltre i 60 anni. Sono i precari storici, che attendono da decenni di essere assunti a tempo indeterminato. Poi ci sono i precari più giovani. Risultato: l’eta media dei precari sfiora i 42 anni. Quella di tutti gli insegnanti è di 52 anni, i più anziani d’Europa.
L’esistenza dell’esercito di riserva del Lumpen-proletariat intellettuale è una vergogna civile, è un monumento aere perennius alla potente inefficienza dell’Amministrazione ministeriale e lo specchio di una politica incapace di qualsiasi riforma.
Donde nasce il precariato? Storicamente è sorto dalla faglia che incominciò a spalancarsi, sul finire degli anni ’60, tra la domanda di massa di istruzione e la capacità limitata di risposta del sistema di istruzione, che era stato costruito per pochi. Solo che, invece di chiudersi, la faglia si è cronicizzata, nonostante l’equilibrio ormai raggiunto nella seconda metà degli anni ’70 tra il volume della domanda di istruzione e la disponibilità di forza-lavoro intellettuale.
Finché si trattava di piccoli numeri, le lentezze del centralismo amministrativo riuscivano a riempire i vuoti che occasionalmente per malattia e per pensionamenti si aprivano nell’offerta di personale. Tutto è cambiato, eccetto la lentezza del meccanismo. Per rimediare alla quale, senza però cambiarlo, già dall’inizio degli anni ’70, sono state introdotte sanatorie a gettito continuo.
La legge N. 107del 2015 – la Buona Scuola di Renzi – aveva deciso assunzioni massicce di precari, prima 100 mila, poi la metà, anche perché obbligata da una sentenza della Corte europea, che proibiva il ricorso dello Stato al lavoro precario per più di 3 anni. Sullo sfondo della legge una promessa impossibile: che il precariato sarebbe stato finalmente sradicato. Invece no.
Il fatto è che il precariato è il sottoprodotto inevitabile dell’Amministrazione stessa, in quanto ultracentralistica e in quanto inaffidabile per la mancata indizione periodica dei concorsi. Le sedi scolastiche statali sono circa 41.000. I loro tempi sono quelli del quotidiano. I tempi dell’Amministrazione sono quelli dell’anno, anzi no, degli anni. Se in un Istituto si apre un vuoto nel personale docente, per le cause più diverse, il Dirigente è costretto, dopo qualche giorno di supplenze affidate al personale in servizio, a chiamare un docente dall’esterno, attingendolo all’esercito di riserva nazionale. Nel corso degli anni quell’esercito si rigonfia di continuo, viene parzialmente prosciugato, secondo il ritmo politico-sindacale delle sanatorie, poi si riallarga!
… e due mosse per scioglierlo
Come fermare la macchina della riproduzione del precariato? Con due mosse intrecciate.
- La prima: lasciare alle singole scuole autonome la risposta quotidiana ai loro bisogni di personale.
- La seconda: flessibilizzare radicalmente l’assetto organizzativo della didattica. Se ogni insegnante deve riempire 18 ore nelle medie/superiori e 24 nella scuola di base, necessariamente distribuite su 5 giorni alla settimana, è evidente che nessuno può riempire la casella improvvisamente mancante, perché ciascuno è prigioniero della propria.
Ma, se il monte ore complessivo annuale del docente fosse a disposizione della scuola, se l’interdisciplinarietà fosse la regola, se le classi non fossero partizioni rigide, se esistesse una distribuzione degli alunni per livelli mobili di apprendimento, a seconda delle discipline, se la scuola potesse fare contratti part-time o di scopo, allora verrebbero a mancare le condizioni per la riproduzione del precariato. I rapporti di lavoro sarebbero limpidi e regolari.
L’uovo di Colombo è un’autonomia delle Istituti scolastici presa sul serio, cioè abilitata a formare i docenti sul posto, ad assumerli provvisoriamente, dopo un apprendistato nella scuola-bottega, a vagliare e a valutare le vocazioni professionali, a differenziare le carriere del personale per funzioni, per merito, per stipendio.
Il reclutamento per concorsi scritti e orali non seleziona affatto il buon docente né garantisce il riconoscimento del merito. E’ il servizio educativo sul campo che fa la differenza. Si tratta solo di riconoscerlo e di valutarlo, attraverso l’osservazione e il colloquio. Un’unica prova è necessaria: quella scritta, di un paio d’ore, che deve dimostrare il pieno possesso della lingua italiana, che la laurea non garantisce affatto. E’ noto infatti che molte tesi di laurea sono piene di gravi errori di sintassi e sono straordinariamente povere sul piano lessicale.
Questa incivile e umiliante vicenda del precariato docente è solo un capitolo dell’autobiografia del compound politico-sindacale-amministrativo, di cui gli altri sono il debito pubblico, la questione meridionale, l’Alitalia – a favore della quale, il Governo stanzia 3 miliardi, mentre alla Scuola ne destina la metà! – fino al rifiuto di riforme istituzionali, che portino ad un governo istituzionalmente forte del Paese.
In questi mesi di drammatico gap tra le decisioni prese e la loro implementazione effettiva nel tempo, è venuta di moda tra i partiti la lamentela contro la burocrazia, imputata di ogni colpa, di ogni ritardo, di ogni sabotaggio. Nemico impersonale, invisibile, non identificabile. Molto comodo! Si deve solo ricordare, in questa sagra dell’ipocrisia, che lo Stato burocratico centralistico è stato costruito sulla base delle leggi approvate dai partiti politici nel Parlamento, che sono incapaci di cancellare.