Una sconfinata giovinezza – Pupi Avati 2010 – recensione
Oggi un’amica ha pubblicato un cammeo sul tema della memoria (memoria di vita, di scuola e di futuro): memoria come ricordo, come rimpianto, come domanda e quando mi sono chiesto quale apparato iconografico utilizzare mi è subito venuto in mente un film di Pupi Avati del 2010: una sconfinata giovinezza, una tenera storia d’amore dentro la malattia di Halzeimer che ti riporta ai luoghi e agli ambienti dell’infanzia.
Secondo me, insieme a Comencini, Pupi Avati è il più grande regista del cinema italiano del dopoguerra ed è anche uno dei più prolifici. Ma come non citi Fellini? Secondo me viene dopo.
Ho scoperto che quando lo vidi, qualche anno fa, avevo anche fatto la recensione ma mi ero dmenticato di mettere l’articolo nella pagina delle recensioni insieme ai film di costume e così stamane non l’ho trovata subito. Nel 2012 mi sono guardato gran parte della filmografia di Pupi Avati e ho imparato a conoscere alcuni attori caratteristi come Gianni Cavina e Carlo delle Piane che Avati utilizza molto spesso, quasi mai come protagonisti. Sono andato a rivedermelo e così ho scoperto che alla mostra di Venezia del 2010 questo film non è stato ritenuto degno di rappresentare l’italia tra i film in concorso
Una sconfinata giovinezza (2010) è dedicato alla malattia di Alzheimer attraverso il racconto di una esperienza di vita di due coniugi di successo, che si vogliono bene e che, improvvisamente, si trovano a fare i conti con la malattia che isola progressivamente da sè, dai propri affetti e dalla propria vita.
Il film mi ha colpito. L’ho visto in agosto 2012 e me lo sono riguardato a novembre prestando attenzione alle cose che mi avevano colpito prescidendo dal richiamo alla malattia: il ritorno all’infanzia; i ricordi sugli amici, i giochi, gli ambienti. Su Youtube ne parlano il regista e i due protagonisti.
La sceneggiatura nasce da un romanzo-racconto dello stesso Pupi Avati e la storia si svolge su due piani: c’è l’Alzheimer, ma con la scusa della malattia, ci sono il ritorno all’infanzia e la trasformazione di un amore coniugale in amore filiale. Di fronte alla scena del ragazzino che ritaglia i tondi delle figurine di cartone e li ficca nelle “agrette” delle bibite per giocare al “giro d’Italia” mi sono commosso: l’ho fatto anche io da bambino e i nomi erano gli stessi; Kobler, Nencini, Gaul, Bartali. Anche noi giocavamo nei cortili del paese su piste in terra battuta in cui inserivamo vari livelli di difficoltà: le salite, le gallerie, le curve a gomito. Si tirava usando come una molla il dito indice caricato dal pollice e bisognava dosare con attenzione perché se tiravi troppo forte l’agretta usciva di strada e il tuo ciclista restava fermo un giro.
Lino Settembre (Fabrizio Bentivglio) fa il capocronista sportivo al Messaggero ed è uno dei volti delle trasmissioni TV di sport; la moglie Chicca (Francesca Neri) è una docente universitaria di filologia romanza con alle spalle una di quelle famiglie patriarcali emiliane con genitori, fratelli, cognate, nipoti che si ritrovano per il pranzo di Natale e per le occasioni canoniche.
Si affacciano i primi segni di perdita di memoria (inizialmente nella scelta dei vocaboli), poi pian piano nella costruzione dei concetti e del rapporto con il reale. Si passa attraverso le fasi classiche: l’ironia, la negazione, la scelta di nascondere fino alla diagnosi e alla esplosione dei sintomi.
Lino regredisce e Chicca vede nascere in lui, pian piano, il bambino che non hanno mai avuto. Sceglie di stargli vicino finché esplodono la rabbia e la violenza. Si allontana, ma poi ritorna per giocare con lui al giro d’Italia.
Lino si ritrova dapprima smarrito durante una trasmissione in diretta TV, poi inizia a mischiare nei suoi pezzi componenti professionali e ricordi di infanzia finché, nella cerimonia di commiato dal giornale si rompono i freni inibitori ed escono i ricordi, quelli più intimi su Chicca, che mettono in imbarazzo tutti con il racconto di quando l’ha vista nuda la prima volta. E dopo i ricordi scoppia la violenza verso Chicca che gli ha rovinato la festa.
In un momento di scoramento Chicca si rivolge ad un collega con la moglie malata da tempo. Lui ha scelto di tenerla con sè e la scena di Chicca che viene presentata come il tecnico che fa la punta alle matite colorate è drammatica e dura. Chicca decide di provarci a tener duro.
Tutto il film è inframmezzato dai ricordi di infanzia di Lino: la morte del padre in un incidente d’auto: il trasferimento dagli zii sull’Appennino bolognese, il cane Perché, i due amici e fratelli scombinati (quello con la palatoschisi, un po’ suonato, ma che sapeva le tabelline oltre il 10 e quello che fa risuscitare i morti), le prime sveltine con una coetanea, il ritrovamento del brillante dell’anello del padre tra i frammenti dei cristalli dell’auto la cui vendita da parte della zia (Serena Grandi) consentiranno a Lino di andare in collegio a studiare. In tutto il film i ricordi di infanzia fanno da pendant al procedere della malattia.
Un giorno Chicca ha un incidente d’auto fuori di casa e Lino lasciato da solo all’ospedale si perde; prende il treno e va a Bologna. Prende un taxi (Gianni Cavina) e si mette alla ricerca dei due fratelli; vuole ritrovare Perché e si perde definitivamente nelle brume dell’Appenino davanti ad un cimitero di montagna. En passant il taxista e la moglie che lo scorazzano per l’Appennino si prendono in cambio i 10 mila euro della liquidazione, anzi di più quando riportano Chicca e suo fratello a vedere il punto della scomparsa si prendono anche un surplus perché con uno così chi vuole che abbia pensato ai soldi.
Avati è molto bravo nell’alternare i diversi piani narrativi e nel ricostruire gli ambienti: la TV, la redazione, la famiglia patriarcale di Chicca con i pranzi tradizionali, il mondo contadino povero dell’Appennino bolognese verso Porretta (la lotta per palpare le ragazzine, la visione del culo delle donne occhieggiando tra le assi sconnesse delle latrine a secco annesse alla casa, …).
Il mio voto: 9; 10 alla interpretazione di Lino. Francesca Neri rimane bellissima anche quando, come in questo film, la fanno invecchiare.