dal fronte di Bergamo 2 – lettera di un giornalista bergamasco – di Cristiano Gatti
Un poco ci hanno giocato le tetre sfilate dei camion militari con sopra le bare. Ma soprattutto ci stanno giocando i numeri. Resta il fatto che negli ultimi giorni ho ricevuto telefonate e messaggi affettuosi da tante persone care sparse in giro per l’Italia. Anche da semplici conoscenti. Tutti mi pongono con dolcezza la stessa domanda: come va lì a Bergamo?
Come va, come va. Io non sono Manzoni, che ha rappresentato in modo così sublime la peste del 1630. Lui però aveva due secoli di distanza, così da poterci studiare e ragionare sopra a mente fredda, con l’occhio del saggio e dello storico. Noi qui ci siamo dentro: dal vivo, in tempo reale. Con tutte le emozioni e le concitazioni del caso.
Questa storia, in fondo, è nata poco più di un mese fa. Una sera, guardando i reportage dalla Cina, mia moglie disse a tavola qualcosa del tipo ma santo Iddio, quella povera gente, pensa come devono vivere, pensa la paura. E pensa se capitasse a noi…
Il 20 febbraio, il primo caso di Codogno. A molti, qui, sembrava lontano. A me sembrò subito in casa: cosa sono 50 chilometri per un virus. Difatti, poco tempo dopo, Alzano e Nembro. A seguire, il resto della provincia.
Attorno, nei primi momenti, la cornice che ormai conosciamo bene: da una parte i preoccupati (come me) definiti più o meno paranoici, ansiosi compulsivi, profeti di sventura, e sopra invece il coro possente degli ottimisti, guidati dai nostri rappresentanti più autorevoli. Il sindaco di Alzano che non vuole chiudere come a Codogno perchè questa è una zona nevralgica per l’economia, come si fa a fermare le attività produttive, con lui autorità molto più in alto, il governatore Fontana per il quale via, questa in fondo è poco più di un’influenza, il sindaco Sala a Milano che suona la grancassa, non possiamo ridurre Milano a un mortorio, hashtag #Milanononsiferma, a Bergamo il nostro Gori che non vuole restare indietro e lancia con i commercianti il suo orgoglioso hashtag #Bergamononsiferma.
E’ inutile girarci attorno: ci ha fregati la nostra virtù più nota e riconosciuta, l’operosità imprenditoriale. Quel fuoco che abbiamo dentro da generazioni, che ci spinge a fare, a fare, a fare, in ultima analisi per produrre, produrre, produrre, per guadagnare, guadagnare, guadagnare. E’ un po’ forte dirlo, ma non bisogna temere la forza delle parole: la nostra cultura volgarmente detta palancaia, qualcosa che ha a che vedere con l’intraprendenza congenita, ma anche con l’avidità, ci ha impedito di fermarci. Di tirare il freno prima di andare a sbattere. E abbiamo sbattuto.
Come si fa a fermare la locomotiva d’Italia? Come si fa a fermare tutto? Come si fa: visto che non ce l’hanno mostrato i sindaci, ce l’ha mostrato uno stupido virus, come si fa. Per non chiudere qualche paese, adesso abbiamo chiuso il mondo.
Io abito appena sotto le Mura della Città Alta. Ora apro la finestra e dove vedevo tanta gente passeggiare con vista sulla pianura adesso vedo deserto e desolazione. Anche qui fuori, nella città bassa, risuonano più che altro sirene di ambulanze e rombi di camion che spruzzano disinfettanti. Qualche padrone di cane in giro col cane, qualcuno che va a fare la spesa, qualche runner esaltato che proprio non capisce. In generale, però, tanta disciplina. E tanto, tanto, tantissimo senso del dovere, che qualcuno sui media definisce eroismo, ma che qui è semplicemente fare ciò che si deve fare: i medici, gli infermieri, i volontari, tutta una favolosa combriccola che non crolla nemmeno sotto le mazzate del bisogno, della fatica, della disperazione.
Di certo, non si può dire che Bergamo sia la capitale dei flash mob. Qui c’è un solo, corale, assordante flash mob del silenzio. Partecipano tutti spontaneamente. E sta durando ormai da giorni e giorni. Soltanto qualche disegno di bambino ai terrazzi, “andrà tutto bene”, com’è giusto far scrivere ai bambini in questo tempo di buio e di angoscia.
D’altra parte, non è così naturale andare sui balconi a cantare Azzurro quando il lutto è entrato in casa. O l’ha lambita. Non c’è famiglia, si può dire, che non sia toccata. Solo come esempio: io ho salutato tre persone care in una settimana. Non parenti stretti, ma persone care. Come tutte, sono morte nel modo peggiore, supposto ci sia un modo migliore: portate d’urgenza all’ospedale, la famiglia tenuta lontana, la solitudine come compagnia. E da lì la fine, senza una mano familiare per l’ultima carezza, senza una voce per l’ultima parola. I loro cari rivedranno soltanto un’urna, quando sarà possibile.
Ho salutato il pediatra che ha curato i miei figli, il grande dottor Zavaritt, medico e tante altre cose, tra le quali assessore repubblicano all’ambiente quando l’ambiente era ancora tutto da scoprire, ma soprattutto persona di intelligenza vera. E il dottor Lussana, che qui nel quartiere ha speso tutta la vita al servizio degli altri, con umiltà e discrezione, sacerdote di una sola religione, la medicina. E poi il signor Marino, amico di famiglia, banchiere con la passione della campagna, che ogni tanto ci regalava i suoi salami, altro che bio. Nomi che altrove non dicono niente, ma storie preziose, uniche, vere, di una Spoon River che si sta formando ora dopo ora. Sì, avevano ottant’anni, ma se qualcuno si avvicina a dirmelo col tono di questi tempi, dai, tutto sommato muoiono solo gli ottantenni, giuro che sparo. Sarà che per me l’importanza di una vita non si misura in anni.
La verità? La verità è che in questa terra è entrato di prepotenza, senza contratto e senza permesso di soggiorno, un immigrato odioso: la paura. Di fatto è il primo cittadino, più di qualunque sindaco. Nessuno l’ha eletto, ha preso il comando con metodi stalinisti, e non ammette obiezioni. Domina in tutte le case, s’è insinuato capillarmente ovunque, s’è infiltrato da tutte le fessure.
Faccio outing: uno dei miei figli soffre da sempre delle allergie primaverili, da un paio di giorni ha cominciato a starnutire, vogliamo credere che sia la solita seccatura. Ma l’idea remota che sta seduta là in fondo, all’ombra del dubbio, quanto meno riesce a smuovere qualche brivido.
Eppure. Eppure Bergamo non cede. E’ in ginocchio, ha le sirene nelle orecchie, ma non cede. Prima o poi il domani comincerà. Anche qui. Aspettando questo domani, da Bergamo non possiamo non spedire lettere come questa, che servano al resto d’Italia da esempio e da monito. Vorrei che la leggessero in tanti, in tantissimi, tutti: aiutatemi a divulgarla, anche se è lunga e fa a cazzotti con le regole d’oro per chi scrive online, regno della brevità e della superficialità. Ma non mi interessa. Non è tempo per queste sciocchezze.
Piuttosto, dico a tutti: guardateci. Pesate la nostra pena. E considerate che avete una piccolissima fortuna, eppure decisiva: proprio il caso Bergamo. Cioè qualche settimana di vantaggio. Noi avevamo Codogno, ma l’abbiamo ignorato, spavaldi e incoscienti. Voi usatelo, questo vantaggio. Per mettervi al riparo. Non commettete i nostri errori, non fate i faciloni, non pensate “come si fa a fermare tutto”. Meglio fermarci subito e metterci in salvo, che fermarci dopo, per forza, con tanti morti attorno. Purtroppo, abbiamo tutti dentro un richiamo ancestrale vagamente suicida: siamo convinti sempre che a noi non possa succedere. Andiamo anche ai funerali con questa inconscia certezza: succede agli altri, a me no.
Da Bergamo, posso solo lanciare a tutta Italia questo accorato messaggio: non è nuovo, è antico come il mondo, anche se puntualmente ignorato dagli uomini: non c’è niente, proprio niente, che valga la vita. E’ adesso il momento di ricordarlo.