una cena in Brianza, “i negri” e le acque – di Roberto Ceriani
Parenti di un amico. Villetta in Brianza. Tana del lupo leghista.
Cena in giardino. Senso di estraneità: cosa ci faccio io qui? Sensazione di essere un turista in mezzo a una popolazione sconosciuta. L’ho fatto mille volte: guardare, ascoltare, cercare di capire, osservare comportamenti, interpretare linguaggi, fare lo sforzo di ricordare che è una parte del mondo reale. Questa volta però mi sembra diverso: è possibile capire? A cosa servirà?
Casa perfetta in alcune stanze e ancora incompleta in altre. Lavori in corso da oltre 30 anni (trenta!!) con pavimenti ancora in cemento accanto ad altri ben rifiniti con piastrelle preziose. Intere pareti fatte a mano in decenni di lavoro massacrante per impilare mattoni, cementare, saldare tubi e collegare fili elettrici.
Giardino curato. Erba che sembra tagliata con le forbici. Piante di ogni tipo. Impianto di irrigazione autocostruito. Pannelli fotovoltaici sul tetto, installati con beneficio fiscale. Impianto di compostaggio in cantina per riciclare i rifiuti organici in loco. Mobili bellissimi recuperati in discarica e restaurati a mano con un paziente bricolage di alto livello (se fosse per loro IKEA potrebbe chiudere).
Televisori ultrasottili da 60 pollici; 4 o 5 bagni piastrellati a mano seguendo i consigli dell’amico muratore. Cantina e box non ancora intonacati, con lunghi scaffali di legno prezioso carichi di ottimi vini. Varie fra auto e moto in ogni angolo del sotterraneo.
Capisco che qui la casa non è un prodotto, ma un processo. Ogni generazione ne costruisce una, poco per volta, e la lascia agli eredi che la rifaranno ampliandola. La cura della casa è più di una necessità; è un rito d’amore maniacale, una passione che nasconde storia, cultura e appartenenza.
La Brianza leghista ha una storia ricca e profonda, incisa in ogni mattone e sepolta in ogni giardino. La difesa della casa la trasforma in una piccola fortezza domestica. Sofisticati impianti elettronici contendono il primato dell’avvertimento con armi nascoste sotto il cuscino, pronte ad affrontare quegli intrusi che osarono entrare nel giardino del vicino di casa.
E’ una famiglia normale. Una normale famiglia brianzola con fotografie ingiallite di nonni e bisnonni incorniciate e appese alle pareti. Una famiglia che ha ricostruito la sua storia nei secoli con ricerche negli archivi parrocchiali. Archivi che ci ricordano che nel ‘700 il paese aveva accolto una comunità di migranti greci che portarono qui l’anemia mediterranea, malattia ancora oggi diffusa intorno a questo campanile. Migranti greci di ieri accolti dal paese e migranti neri di oggi rifiutati come presunti delinquenti. “Quei negri di m…a! Noi li manteniamo e loro passano il tempo con il telefonino in mano! Qualcuno ne ha persino due” (suppongo che non intendesse due mani).
Forse 40 anni fa eravamo insieme nelle stesse piazze a gridare gli stessi slogan. Poi è successo qualche cosa. Qualche cosa che non capisco ma che è successo lo stesso. Ora si fanno compagnia fra leghisti, giocando a chi la spara più grossa. Non riesco a seguire ogni frase, ma il senso è quello già sentito altrove: un alternarsi fra la soluzione operativa (“Bisogna respingerli sul bagnasciuga” – questa l’ho già sentita da qualche parte) e quella logistica (“Qui non c’è posto. Aiutiamoli a casa loro”).
Li sento parlare e non riesco a formulare una sola frase di risposta. Ascolto silenzioso, come se stessi assistendo a un talk-show trasmesso da migliaia di chilometri di distanza.
Durante il ritorno, guidando nel buio in autostrada, ripenso alle parole ascoltate e alle parole non dette. Cosa avrei potuto rispondere a quei leghisti pieni di rabbia che inveivano contro i migranti? In colonna nel traffico notturno mi domando “Ma cosa penso veramente io dei migranti?” e mi trovo senza risposta. Scopro così di non averci mai pensato seriamente. Anzi, la prima cosa che penso è che se non ci fossero i migranti forse vivrei più tranquillo. Poi seguono altri pensieri.
Finito l’effetto dei vini bianchi e rossi, ma ancora un po’ addormentato, guido piano in autostrada mentre riordino le idee e cerco di capire cosa penso veramente dei migranti.Non ho le idee chiare, ma riesco a fissare un paio di concetti:
- sul piano UMANITARIO: non è ammissibile lasciare morire gente disperata. Mi rendo conto che non è un pensiero originale, ma se questo valeva negli anni ’40 per milioni di ebrei (ma non solo) deve valere anche oggi per milioni di neri (ma non solo)
- sul piano STORICO: miliardi di persone sono migrate nei secoli in tutto il pianeta. Anche qui non brillo per originalità, ma ricordarlo mi aiuta a capire un po’ cosa sta succedendo.
Per decine di popolazioni l’Italia è sempre stata luogo di destinazione per l’ottimo clima (avete mai visto qualcuno migrare in Siberia o verso il Sahara?), ma anche luogo di partenza (8 milioni di emigrati a inizio ‘900, su una popolazione italiana di 22 milioni). E’ un fenomeno planetario che dura da millenni. E’ così che ci piaccia o no.
Possiamo urlare quanto vogliamo, alzare muri e bloccare porti, ma un fenomeno di queste dimensioni non lo fermerà mai nessuno.
O forse qualcuno si illude che per fermarlo sia sufficiente lasciare annegare qualche decina di migliaia di negri? Ho qualche dubbio sulla coerenza di chi opera in questa direzione tenendo in mano il Vangelo, ma non ho dubbi sull’inutilità di questa strategia. Migliaia di morti non sono nulla in confronto alle decine di milioni di disperati che aspettano nelle retrovie.
E domani? Cosa dire delle centinaia di milioni che non sono ancora nati? Saranno pure neri, brutti e antipatici, ma illudersi di fermarli è come pensare di fare smettere la pioggia. Già, la pioggia. Mentre il tergicristallo pulisce un po’ di sporco sul parabrezza, mi scopro a immaginare i migranti come se fossero tante gocce di pioggia, continue e inarrestabili (forse è complice il vino non interamente assorbito).
Penso allora alla pioggia: di solito mi dà fastidio, raramente mi piace. Una volta la odiavo perché mi spettinava, ma oggi la “pettinatura” è a prova di uragano tropicale. Non mi piace armarmi di impermeabile e ombrello, però ammetto che la pioggia è sempre utile, in molti casi indispensabile. Se non ci si organizza un po’ la pioggia può provocare danni. Vedo alcuni pro e alcuni contro. Il vino ormai è dimenticato, ma sembra che il paragone fra pioggia e migranti regga abbastanza bene. Vale la pena approfondirlo; forse così capirò cosa penso veramente dei migranti.
Ormai il casello autostradale di Milano è vicino e, a parte qualche palpebra addormentata, le idee cominciano a chiarirsi. Non so ancora come dobbiamo comportarci con i migranti, ma almeno so che con la pioggia abbiamo trovato una discreta convivenza. Noi padani, almeno con l’acqua, abbiamo fatto una scelta intelligente. Anche se la pioggia non ci piace, la soluzione è stata dotarci di ingegno e buona volontà per trasformare una scocciatura in risorsa. Così hanno fatto i Benedettini per centinaia di anni.
Nella zona in cui abito, SudOvest di Milano, i frati hanno canalizzato le marcite acquitrinose provocate dai fontanili e sono riusciti a trasformare migliaia di pozzanghere malariche in terreni coltivabili. Non male! La stessa cosa hanno fatto decine di generazioni anche a nord di Milano, nella profonda e leghista Brianza. Il nome di questa zona deriva dal celtico brig, collina, e indica i villaggi costruiti in collina perché a valle c’erano paludi malariche inabitabili (ancora oggi in vari dialetti lombardi le alture si chiamano ‘bric’).
L’intelligenza e la volontà di milioni di lumbard (popolo misto di vari popoli immigrati) ha permesso di bonificare gli stagni malarici e trasformare in risorsa il pericolo di inondazioni. La costruzione di centinaia di chiilometri di canali artificiali nella sedicente Padania e il lavoro paziente dei suoi abitanti sono stati nei secoli l’hardware e il software che hanno dato origine alla nostra Silicon Valley in Lombardia, una delle quattro regioni europee che tengono in piedi l’economia gestita a Francoforte.
Non era una scelta obbligata; i miei avi potevano anche fare scelte differenti. Per esempio potevano sprecare generazioni a inveire contro la pioggia, potevano costruire fragili dighe in legno per fermare l’acqua, potevano vivere in gallerie per non contaminarsi con questo liquido pericoloso… invece hanno fatto una scelta diversa, aperta, intelligente e rivolta al futuro. Risultato: oggi in Lombardia l’acqua è un piccolissimo pericolo e un’immensa risorsa.
Pensavo queste cose guidando in autostrada (per fortuna non c’era molto traffico!), mentre riascoltavo con la mente quelle frasi sui “negri di m…a che passano il tempo con il telefonino in mano”.
Ho così capito che, sia per le gocce di pioggia sia per gli immigrati, non si tratta di scegliere fra accoglienza o respingimento. Possiamo illuderci in un senso o nell’altro, ma nessuno di noi è in grado di portare avanti fino in fondo una delle due scelte. Si tratta invece di capire che gli immigrati sono un po’ come la pioggia; un fenomeno naturale (o quasi) e inarrestabile. Invece di combattere contro le gocce è più sensato cercare di capire come possiamo governare le acque, come possiamo renderle utili, come monitorare i nostri errori e come correggerli.
Non è una cosa difficile. Lo facciamo già in tanti settori. Ha anche un nome: si chiama “progettare il futuro”. In fondo aveva ragione quel leghista che affermava “Io ho il diritto di difendere i miei interessi”. Questo in fondo lo penso anch’io. L’unica differenza fra me e lui è che io cerco di capire quali sono veramente i miei interessi e cosa significa veramente difenderli.
La vera differenza sta solo qui. Su questo punto un giorno magari riusciremo ad aprire un dialogo, anche se io non ne sono capace. Forse ci riuscirà la prossima generazione.