rileggendo Lettera ad una professoressa
Si avvicinano le scadenze del cinquantenario e mi sono messo a rileggere Lettera ad una professoressa; ve ne sarete accorti perché sto postando su Facebook i capitoletti che mi sembrano più significativi.
Nel farlo non bado tanto alla condivisibilità, quanto alla efficacia; frasi brevi, verità molto semplici, spesso tagliate alla grossa con il pennato (la roncola).
Sono passati più di 50 anni da quando fu scritto dagli allievi della scuola di Barbiana coordinati da don Lorenzo Milani. Si descrive una Italia che non c'è più, una Italia in cui le discriminazioni di classe e la povertà dura, non erano argomenti da tesi di laurea in sociologia, ma una cosa che apparteneva alla esperienza quotidiana, con una scuola a struttura piramidale con la base larga che si assottigliava man mano che aumentavano gli anni di studio: selezione, abbandono, discriminazione sociale. E gli alunni di Barbiana sottolinenano che se ci si limita a contare la numerosità della classe in prima e alla fine della terza media, senza mettere in conto i ripetenti e i pluriripetenti si truccano le carte e si sottostimano i dispersi, cioè quelli che sono andati a dare una mano in campagna.
Sullo sfondo c'è la storia della riforma della scuola media (1963) e i protagonisti sono gli ultimi, gli scarti della scuola pubblica, quelli che non ce la faranno mai.
Il titolo è una invettiva contro la professoressa, quella che pensa che non è colpa sua se i poveri sono un po' tonti e che è la moglie del giudice in una visione della società rigidamente divisa in classi, in cui lo stato è dalla parte del più forte e non c'è speranza perché anche il Partito Comunista, sulle questioni di classe, è come gli altri: "Siete tutti d’accordo. Ci volete schiacciare. Fatelo pure, ma almeno non fingete d’essere onesti. Bella forza essere onesti su un codice scritto da voi e su misura vostra. Un mio vecchio amico ha rubato 40 cipolle in un orto. Ha avuto 13 mesi di galera senza condizionale. Il giudice le cipolle non le ruba. Troppa fatica. Dice alla cameriera che gliele compri. I soldi per le cipolle e per la cameriera li guadagna la sua moglie con le ripetizioni."
(…)
Il Sindaco di Vicchio, prima di riaprire il doposcuola comunale chiese il parere degli insegnanti di Stato. Arrivarono 15 lettere. Tredici contro e due a favore. Il motivo ricorrente era che se il doposcuola non è fatto bene è meglio non lo fare. I ragazzi di paese erano per i bar e per le strade. Quelli di campagna nel campo. Di fronte a questa situazione il doposcuola non può mai sbagliare. È buono tutto. È buono perfino quell’aborto che voi chiamate scuola. Se siete contrari al doposcuola io vi consiglio di non lo far vedere. La gente è maliziosa. Potrebbe pensare che fate lezioni private ai signorini.
Questo brano mi ha fatto venire in mente una esperienza di pochi anni fa quando, come DS, tentai di attivare dei percorsi pomeridiani di assistenza allo studio in collaborazione con una associazione di volontariato. Mi trovai contro il muro dei docenti schierati sulla linea della difesa della professionalità e della non ingerenza. Così, poiché di soldi da dare ai docenti non ce n'erano e poiché la scuola non può chiedere un sostegno economico alle famiglie, anche se finalizzato ad attività aggiuntiva rivolta agli studenti, non se ne fece nulla secondo l'antica massima secondo cui l'ottimo è nemico del bene.
Noi leggevamo don MIlani nei gruppi di studio, lo leggevamo ad alta voce e poi ne discutevamo. In realtà i ragazzi di Barbiana avrebbero detto che eravamo i Pierini, anche se non era esattamente vero, perché avevamo preso sempre i bei voti a scuola, perché in casa avevamo i libri, perché noi non avevamo avuto bisogno del doposcuola, perché alcuni di noi erano addirittura avanti un anno.
Quelle parti del libro un po' ci ferivano ma rafforzavano in noi la voglia di cambiare il mondo e di cambiarlo partendo dalla scuola, assumendo il tema della lotta alla selezione come punto di partenza. Ne voglio trattare nelle iniziative che si faranno in occasione delle presentazioni di Che fine ha fatto il 68?
Ci stavamo ribellando alla ipocrisia, alla insensatezza, alle regole senza senso, alla finta oggettività, ad un mondo rigidamente classista ammantato di democrazia. E la lettura della Lettera ci faceva scoprire questa finta oggettività dentro l'Università in cui le insensatezze c'erano eccome.
"Agli esami di ginnastica il professore ci buttò un pallone e ci disse: «Giocate a pallacanestro». Noi non si sapeva. Il professore ci guardò con disprezzo: «Ragazzi infelici». Anche lui come voi. L’abilità in un rito convenzionale gli pareva importante. Disse al preside che non avevamo «educazione fisica» e voleva rimandarci a settembre. Ognuno di noi era capace di arrampicarsi su una quercia. Lassù lasciare andare le mani e a colpi d’accetta buttar giù un ramo d’un quintale. Poi trascinarlo sulla neve fin sulla soglia di casa ai piedi della mamma. M’hanno raccontato d’un signore a Firenze che sale in casa sua con l’ascensore. Poi s’è comprato un altro aggeggio costoso e fa finta di remare. Voi in educazione fisica gli dareste dieci."
C'era un problema di servizi allo studio da fornire: miglioramento degli orari, duplicazione dei corsi, apertura serale della Università, verifica degli apprendimenti in itinere, minore rigidità nei piani di studio; cose sensate che, in effetti, abbiamo ottenuto. Alcune di quelle cose, come i semestri, che poi erano trimestri, andavano in realtà incontro agli interessi del corpo docente, interessato ad essere liberato dal peso della didattica per l'intero anno in modo di poter viaggiare (stiamo parlando del mondo della ricerca scientifica che, per sua natura, ama l'interscambio).
L'ho già scritto nel libro e lo ripeto qui: siamo saltati dal mondo del concreto in cui ci sarebbe stato molto da fare a quello della rivoluzione senza troppe mediazioni e con dei salti logici che ci hanno fatto sbattere il muso. Avremmo dovuto occuparci di più della scienza e della riflessione critica su di essa, del destino degli studi, del funzionamento dell'ascensore sociale. Non lo abbiamo fatto, ben ci sta.
PS: io sono contento quello che ho fatto. Si diventa grandi; la cosa importante è riflettere, possibilmente senza rimuovere e, purtroppo, nel nostro caso, per colpa del maledetto vizio della vigilanza rivoluzionaria, che si impadronì molto presto di noi, la documentazione (gli appunti, i diari, i documenti) sono molto scarsi. Negli anni 70, anno dopo anno, ho distrutto agende e quaderni di appunti, originali di volantini e di documenti; non ho più nulla ad eccezione di quanto è stato pubblicato.
Vent'anni fa è uscito un libro sul 68, che ho letto in questi giorni e che mi ha indotto a un po' di riflessioni oltre a farmi fare un bel ripasso su quegli anni. Si tratta di "Diego Giachetti; oltre il 68 (prima, durante e dopo il movimento); Biblioteca Franco Serantini Pisa".
Scrive Giachetti nella Introduzione dedicata a censure e rimozioni:
Vi sono tutti i vantaggi e il fascino della storia soggettiva, ma anche le parzialità, le esagerazioni di chi ricostruisce senza potersi liberare del tutto dei propri stati d'animo, soprattutto quelli presenti che sono la espressione di ciò che si è diventati.
È ammirevole e utile provare a riscrivere il ’68 sulla base di come lo avevano percepito allora i protagonisti, ma non si può prescindere da un dato evidentissimo: troppi combinano volutamente i ricordi e le percezioni di allora con il loro status attuale. Ecco perché fra le forme di conservazione della memoria soggettiva, le pagine di diario sono molto più attendibili che non la ricostruzione volontaria a posteriori del ricordo.
La memoria volontaria, oltre a essere sottoposta al logorio del tempo, trae in inganno, cancella, rimuove, ricostruisce, riseleziona, mettendo in atto un meccanismo psichico teso alla difesa della propria identità. Come è stato fatto notare il bisogno di ricordare si accompagna, simmetricamente, al bisogno di dimenticare, memoria e oblio sono processi ed eventi concomitanti, sicché, se è utile e necessario riflettere sull’utilità e l’utilizzo della testimonianza e della memoria dei protagonisti, altrettanto si dovrebbe fare per quanto riguarda l’oblio, la dimenticanza, la rimozione.
Il bisogno di riposizionare il peso e la portata degli eventi che si sono vissuti nasce in questo caso da un istintivo bisogno di difendere il proprio vissuto, la propria individualità: per salvare l’identità, molti attribuiscono il bene a un movimento iniziale e incorrotto, e la degenerazione a un periodo successivo.
Insomma, non fidiamoci troppo della memoria e magari esercitiamola in maniera collettiva in modo che da tanti frammenti del puzzle possa emergere la verità. Proprio ieri ho visto su Rai Storia uno spezzone della occupazione di Palazzo Campana (Torino 1967) in cui un giovanissimo Luigi Bobbio (figlio di tanto padre) e futuro dirigente di Lotta Continua diceva delle cose da far rabbrividire contro gli esami, contro i libri e contro i professori. Noi di Scienze non abbiamo i filmati, perché siamo stati sempre i parenti poveri e lo si è visto anche nelle rievocazioni di questi giorni in cui Città Studi non esiste. Amen; vediamo se ce la facciamo a ricostruire un po' di memoria collettiva e anche a riflettere su quello che non ha funzionato.