Dal Vietnam a Cuba – (7) La permagricoltura di Roberto Ceriani
Il secondo progetto che visitiamo è una fattoria agricola condotta dalla famiglia Casimiro. Anche qui, come previsto fin dall’inizio, diamo volentieri 25 euro a testa per sostenere il progetto. Da quel poco che ho capito, non avendo alcuna competenza in campo agricolo, è un progetto di agricoltura biologica altamente innovativo, mirato all’autosufficienza alimentare ed energetica.
Ci accoglie il capofamiglia (un po’ padre-padrone) che ci spiega la storia della sua azienda famigliare, le scelte operate, l’impostazione culturale e il grande valore che attribuisce alla famiglia, intesa sia come risorsa fondamentale del progetto, sia come garanzia per il futuro. Il signor Casimiro ci racconta la sua storia personale, intrecciata con quella delle crisi economiche cubane degli anni ’90. Spiega le sue scelte progettuali come scelte obbligate ma, al contempo, rivolte al futuro. E’ piuttosto convincente, anche se nel linguaggio e nel modo di parlare traspare una leggera impostazione ideologica, quasi un cenno di “integralismo biologico”.
Al progetto lavorano le figlie che, a differenza del padre, hanno studiato scienze agricole e dell’alimentazione; le ragazze integrano il lavoro manuale con una notevole competenza scientifica. Altri figli sono invece avvocati ed esperti di economia. Tutti i figli, in modi diversi, contribuiscono alla riuscita e all’estensione di questo progetto di vita collettiva.
Grazie a queste risorse l’azienda famigliare ha contatti internazionali e i figli viaggiano in Europa per presentare l’iniziativa, che non si limita alla sola coltivazione ma si sviluppa anche su numerosi piani energetici ed economici.
In particolare Leidy, la figlia maggiore, è la prima donna cubana a conquistare il dottorato in Agroecologia presso l'Università di Matanza. L’integrazione fra le competenze tradizionali e l’innovazione tecnologica non invasiva è il segreto del successo di questo progetto, che sta diventando un modello anche per altre piccole attività agricole in più continenti. Qui è venuto Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. Qui vengono giovani da vari Paesi a fare stage di lavoro e il quotidiano La Repubblica ha dedicato un intero articolo a questa esperienza innovativa.
In questa azienda l’acqua viene estratta dal suolo con una pompa eolica, esiste un forno solare e si produce in autonomia il biogas necessario per la vita famigliare e per la produzione agricola. Inoltre, grazie alla progettazione intelligente di una figlia esperta in architettura, vengono autocostruite alcune case rotonde, a forma di trullo, adeguate al clima locale e in grado di sopportare gli uragani. Esiste persino una piccola piscina riscaldata a biogas, soprannominata la Jacuzzi dell’agricoltore.
QUALCHE DUBBIO
Nonostante la mia incompetenza in ambito agricolo, ho l’impressione che l’accento sull’autosufficienza del progetto Permagricoltura sia un po’ eccessivo e contraddittorio con alcune giuste scelte tecnologiche operate. Infatti la figlia ci mostra un bellissimo PowerPoint aziendale, usando un TV digitale integrato con un ottimo PC, quindi apprezzo la scelta di non isolarsi in un modello superato di vita contadina, ma mi domando come facciano a mangiare le migliaia di persone che hanno prodotto quel televisore digitale, visto che l’agricoltura “biologica” garantisce sì l’autosufficienza alla famiglia, ma esporta solo una quantità limitata di prodotti agricoli.
Non sono in grado di esprimere giudizi su questo progetto, tuttavia mi rimane qualche dubbio, per non dire sospetto, sull’eccessivo entusiasmo espresso dai supporter nostrani per tutto quanto viene considerato “biologico” (parola che mi sembra usata spesso fuori luogo). Queste esperienze avanzate di “agricoltura alternativa” (?) mi sembrano ottimi laboratori sperimentali, ma proprio in quanto laboratori non possono essere considerati a priori come alternative all’agricoltura intensiva.
Ho invece l’impressione che troppi europei tendano a demonizzare l’agricoltura intensiva, guardando a quella “biologica” come se potesse essere un’alternativa generalizzata. Se così fosse non capisco perché, quando la percentuale di agricoltori era molto maggiore di quella attuale, per vari millenni l’umanità abbia sofferto la fame. Le carestie erano il compagno quotidiano della vecchia agricoltura “biologica”, che oltretutto era possibile solo in terre assolate, fertili e ben irrigate, proprio come quella dell’azienda che stiamo visitando. Ma veramente qualcuno crede che si possano nutrire 7 miliardi di individui, dalla Siberia ai deserti, senza ricorrere ai fertilizzanti chimici?
Sarò un po’ rozzo, ma per me agricoltura intensiva significa dare da mangiare (male) a quasi tutti, mentre agricoltura biologica significa dare da mangiare (bene) solo ad alcuni. Pretendere di generalizzare l’agricoltura biologica mi sembra compatibile solo con l’eliminazione di qualche miliardo di individui, ma vedo alcune difficoltà nel realizzarla.
Mi domando se per 7 miliardi di individui sia meglio mangiare pane di plastica o non mangiare nulla mentre guardano qualche milione di privilegiati che mangiano kamut biologico. In fondo è per rispondere a questa domanda che il nostro Belpaese dalla terra fertile ha subìto nei secoli decine di invasioni straniere. Non credo che intere popolazioni abbiano invaso l’Italia per vedere il Colosseo; anzi, se la nostra terra non fosse stata così fertile nessuno avrebbe avuto neanche il tempo di costruire il Colosseo!
Ero nato su un pianeta con 2,5 miliardi di persone. I miei dubbi sulla possibilità di generalizzare le esperienze di agricoltura biologica derivano anche dal fare parte della prima generazione nella storia che ha visto triplicare la popolazione dell’umanità. Prima di noi un’esperienza simile era stata vissuta solo da Adamo, ma a quel tempo non c’era carenza alimentare, anzi le mele abbondavano fin troppo…