gli immigrati, i fatti, i problemi – di Giovanni Cominelli
Come nasce l’insicurezza? In un paese della Valle Seriana, cinquemila abitanti, nella provincia bergamasca, da un certo giorno, d’improvviso, non preannunciato, si incomincia a vedere per strada un gruppo di ragazzi tra i venti e i trent’anni. Per lo più di origine africana. Gestiti da una cooperativa, abitano in una struttura offerta da un Ente religioso. Al mattino, si recano disciplinatamente al campetto dell’oratorio, a giocare al pallone, fino a mezzogiorno. Poi tornano alla struttura per mangiare. Poi di nuovo all’oratorio.
Quanto alle ragazze, ospiti dalle suore, dopo qualche giorno incominciano a ricevere “strane” telefonate. E dopo qualche altro giorno, scompaiono, catturate rapidamente dalla rete della prostituzione. I ragazzi, si scopre, non sono dei rifugiati: sono immigrati per ragioni economiche, in attesa di essere “vagliati”. Non possono lavorare, neppure se lo volessero. Lo proibisce la legge Bossi-Fini.
I corsi gratuiti di lingua forniti da docenti volontari vengono frequentati nei primi giorni e poi a poco a poco disertati. Non danno neppure l’impressione di volersi integrare. Hanno visto in TV e sentito via tam tam che in Italia si può vivere così, assistiti, senza lavorare. E che nel Nord Europa, la meta di parecchi di loro, si può stare anche meglio. D’altronde, molti di loro arrivano da Paesi dove lavorano solo le donne e i bambini. I maschi adulti no! A volte nel pomeriggio, stanno in piazza, attaccati ai cellulari o si recano al supermercato a fare rifornimento di alcoolici, da consumare per strada.
Scene analoghe in alcune piazze di Milano, in molte piazze d’Italia. Con l’aggiunta dell’accattonaggio seriale, davanti ai bar o ai supermercati. Qualche volta usano le aiuole come toilette a cielo aperto.
Come vedono “gli indigeni” italiani questo fenomeno? No, questi ragazzi che bighellonano senza arte né parte per il paese o per la città non producono immediatamente paura o insicurezza rispetto ai propri beni o alla propria incolumità. Tuttavia, la presenza di questi ragazzi e ragazze sospesi al nulla, in un’attesa che può durare mesi e mesi, senza scopo e senza destino, senza radicamento e senza integrazione, genera in chi passa loro accanto “soltanto” un senso di estraneazione, di fastidio, di turbamento.
Perché i ragazzi sono di pelle nera? Non necessariamente. Anche se disponessero di pelle chiara, occhi azzurri e capelli biondi produrrebbe probabilmente la stessa reazione. Una sorta di alterazione del paesaggio sociale millenario, un corpo estraneo non integrabile nelle relazioni usuali, un quid minaccioso.
In una città come Milano qualcosa del genere era già sentito nei confronti dei “terroni” fino agli anni ‘60; nelle città europee, nei confronti degli “italiani”. Ci troviamo sulla soglia dell’ostilità. Si attivano qui meccanismi antropologici antichi quanto l’homo sapiens.
Portano via il lavoro ai nostri figli? No. Ci costano? In fondo, ciò che diamo loro, viene speso sul nostro territorio. La loro presenza dà persino lavoro ad alcuni nostri ragazzi. Al Sud esiste ormai un’industria dell’accoglienza. Oltrepassare la soglia del disagio ed entrare nell’ostilità piena non è tuttavia difficile, se qualcuno, per esempio, non spieghi esattamente le cause della presenza “aliena”, i meccanismi giuridici che la regolano, le prospettive di questo fenomeno, le responsabilità che il Paese si è assunto, suo malgrado.
Passare dall’insofferenza alla comprensione razionale è un’impresa complicata, tutt’altro che realizzabile spontaneamente. Anche perché contribuiscono a renderla problematica una serie di dati, che ha fornito la Fondazione ISMU, specializzata da anni nella ricerca sul fenomeno dell’immigrazione. Se gli immigrati regolarizzati sono circa sei milioni, ce ne sono circa seicentomila che sono clandestini.
Ma costoro si fanno notare di più, se coinvolti in storie di droga, di pushering, di prostituzione e pornografia minorile, di furti con destrezza, di furti in abitazioni, di ricettazione, di violenze carnali e in omicidi. Reati che sono commessi, più in grande, dall’1,07% degli Italiani, ma la percentuale dei reati stranieri è del 4,78% rispetto alla popolazione straniera.
Perciò il reato straniero fa rumore cinque volte di più. Nel settembre del 2017 a San Vittore, a Milano, il 63% dei carcerati è straniero. Non si può non notare la differenza di paesaggio umano rispetto alle città di altri Paesi europei, che hanno un numero maggiore di immigranti rispetto al nostro. Attorno ad una stazione ferroviaria europea non si vede il paesaggio disperato che circonda le stazioni delle grandi città italiane.
Così il disagio popolare si trasforma in richiesta di levarsi di torno gli immigrati. Berlusconi propone di mandarne a casa seicentomila. Salvini vorrebbe cacciare via anche coloro che, regolari, sono però credenti mussulmani, perché – ha dichiarato di fronte alla moschea di Umbertide in costruzione – la shari’a è contro la Costituzione italiana. Dimenticando che la Costituzione italiana prevede anche la libertà di culto e fingendo di credere che riunirsi a pregare Allah significhi importare la shari’a nel nostro ordinamento allo stesso modo che adorare Visnu implichi l’importazione delle caste in Italia.
Trovare la strada in questa giungla di contraddizioni è urgente, soprattutto perché due fatti sono incontestabili: che l’immigrazione non è un’emergenza, ma una costante degli anni a venire; che nessuno Paese rivuole indietro i propri cittadini emigrati in Italia.
Rimpatriarli? Ma dove? La Polizia è riuscita finora a rispedirne indietro non più di ventimila all’anno. Servirebbero trent’anni a Berlusconi per attuare tale vasto programma. Lunga vita! E nel frattempo? La politica con le proprie contorsioni ha generato la figura giuridica del “clandestino”, che non può cercare/trovare lavoro, anche quando il posto c’è, e che continua ad essere clandestino, anche quando lo ha trovato, raccogliendo pomodori a 1 euro all’ora, che marcirebbero nei campi senza il suo lavoro.
È necessario rovesciare il meccanismo: se c’è un posto di lavoro, lì si deve/si può collocare subito qualcuno, che deve essere regolarizzato in quanto lavora, almeno con un permesso. E che il mercato italiano del lavoro abbia bisogno di immigrati nell’assistenza, nell’agricoltura, nell’edilizia, nei servizi, nella sanità… è un fatto. La Legge Turco-Napolitano prevedeva la figura dello sponsor: un privato, un datore di lavoro, un’associazione imprenditoriale, sindacato, ente locale, potrebbero garantire per qualcuno che sta all’estero e permetterne l’arrivo per vie legali.
Sì, il disagio, il rifiuto a pelle, l’ostilità sorda sono un cattivo punto di partenza. Una parte della politica ci ha lucrato sopra. Ma è anche altrettanto chiaro che non esiste nessun affilato machete per farsi strada nella giungla di contraddizioni, di reazioni e di controreazioni, che la perversa complicità di società civile disinformata e spaventata, di inefficiente amministrazione statale, di politica furbesca ha creato.