La stangata (discutiamone) – di Giovanni Cominelli
I risultati delle elezioni amministrative dicono che la coalizione di centro-destra ha vinto e che la coalizione di centro-sinistra o, che è lo stesso, dell’unità della sinistra o, che è lo stesso, della sinistra-sinistra ha perso.
All’interno della prima ha vinto la Lega. All’interno della seconda ha vinto/perso il PD.
Questi risultati non autorizzano minimamente a fare previsioni circa gli esiti di quelle nazionali, ormai alle porte. Il “gioco” delle elezioni nazionali ha poste più alte e regole diverse: si tratta di un’altra partita. Intanto resta un fatto: che il PD ha subito una pesante sconfitta. Con ciò ha pressoché consumato quel 10% di consenso elettorale, che aggiunto al 30% degli attuali sondaggi, costituì il risultato delle elezioni europee del 25 maggio 2014.
Da allora il PD ha marciato di sconfitta in sconfitta, dalle elezioni amministrative del 2016 al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016.
Renzi, il Jobs Act, la riforma elettorale
L’estrema labilità dell’elettorato, in Italia e in Europa, non è la causa, ma l’effetto. Di che cosa? Della labilità e instabilità del profilo culturale e programmatico del PD. Quando Renzi si presentò sulla scena, annunciò un programma di governo, al quale sottostava una piattaforma culturale tipica della sinistra liberale, riformista, europeista, di governo. Certamente il Jobs Act appartiene a quella cultura. E propose anche una riforma elettorale, che metteva nelle mani dell’elettore, di fatto, la scelta del governo.
Con il Jobs Act venivano abbandonati i lidi della sinistra classista, che affida ai lavoratori una missione storica di salvezza socio-economica e ai loro sindacati il diritto di veto sulla politica. E con la riforma elettorale si spezzava ogni assetto consociativo della politica. Anche se le riforme costituzionali proposte erano ben lungi dall’essere coerenti conl’Italicum, perché, comunque, il governo rimaneva parlamentare.
La guerra interna al PD
Intanto il PD aderiva al PSE, raggiungendo un traguardo già intravisto da Occhetto, pronubo Craxi. E così incominciò la logorante guerriglia interna al PD, condotta da tutti i nostalgici del vecchio PCI e della vecchia DC: l’art. 18 non si tocca, il sindacato ha sempre ragione; la riforma elettorale è peggio di quella del fascismo; Renzi non è di sinistra, è una versione adulterata di Berlusconi; il partito non può essere abbandonato alla logica delle primarie; occorre tornare al controllo oligarchico dei caminetti. La parola d’ordine rimaneva sempre: “Pas d’ennemi à gauche”, l’unità della sinistra era la precondizione per ogni operazione politica, anche la più spregiudicata: alleanze possibili con chiunque, ma a partire dall’unità della sinistra. Nulla di nuovo.
Niente di nuovo sotto il sole
È sempre stata la politica dei comunisti, dal Patto Molotov-von Ribbentrop in avanti. In forme diverse, questa guerriglia si era sviluppata in tutta la sinistra europea, dal PSOE, al PSF, alla SPD, al Labour. La sinistra classica europea è stata attraversata dalle tensioni geopolitiche del post-89 e del nuovo millennio global. In questi anni, tuttavia, la guerriglia si è trasformata in guerra civile, parola d’ordine: “niente prigionieri!”! In Spagna e Francia ha prodotto lo spappolamento dei partiti socialisti, in Inghilterra il ritorno del Labour ai programmi già sconfitti negli anni ‘70/’80 del ‘900, in Germania al distacco della sinistra socialdemocratica.
In Italia, pare che Renzi non stia riuscendo a cambiare l’ormai vecchio PD – sigla giovane, ma basata sulle vecchie componenti PCI-DC – in parte per la potenza delle antiche tradizioni, tenuteinsieme dal 1994 dall’antiberlusconismo, malattia senile della sinistra comunista e democristiana; ma in parte anche per la debolezza dell’impianto culturale del nuovo gruppo dirigente e per la fragilità dei legami con forze intellettuali e ceti riflessivi.
La cultura politica che non c’è
Macron ha avuto indubbiamente più coraggio, più cultura politica e più… fortuna, oltre che, si intende, un sistema elettorale/istituzionale consolidato. La “rottamazione” si è riempita solo molto casualmente dei contenuti programmatici della sinistra liberale, riformista, europeista. Peggio: a livello dei territori non ha preso corpo, il renzismo è stato usato come una foglia di fico per coprire la continuità.
Generosità e giovinezza dei nuovi militanti e nuovi linguaggi della comunicazione non bastano, se non si opera una rottura epistemologica, che presuppone una profonda conoscenza/esperienza della storia dell’Italia e della sinistra, con cui si rompe, e nuove categorie di pensiero, con cui si ricomincia. Insomma: pare che il renzismo manchi parecchio della prima e sia fragile nelle seconde.
Il caso della “Buona scuola” e del suo fallimento è paradigmatico: un condensato di culture politiche sindacalistiche e statalistiche. Sì, Renzi ha in mano il partito, ma così com’é non serve a molto. La vittoria schiacciante delle primarie appare sempre di più come una vittoria di Pirro. Sempre meglio di una sconfitta di Pirro, si intende!
Serve una sinistra liberale. E una destra liberale
Con ciò si apre obbiettivamente un’altra strada: quella della necessità di una nuova aggregazione politica delle forze sociali di riforma politica, istituzionale, amministrativa, di modernizzazione e di europeizzazione dell’Italia. Lasciando che i morti seppelliscano i morti, quelli già fuori o quelli ancora dentro il PD. Se Renzi si perde nel labirinto del correntificio PD, di cui una parte continua a pensare e a muoversi esattamente come quella già uscita, sottoproduce una penosa agonia agli occhi degli iscritti e degli elettori.
Al Paese serve un polo di sinistra liberale. Scelta che sarebbe molto facilitata, se anche a destra si costituisse un polo di destra liberale, riformista e europeista. Ma qualcuno deve pur incominciare!