La scissione debole di D’Alema e Bersani – di Giovanni Cominelli
L’Assemblea nazionale del PD ha deciso di andare a congresso in tempi stretti, sotto l’incalzare degli appuntamenti della politica mondiale (il G7 di Taormina del 26/27 maggio, al quale l’Italia vuole riportare la Russia, ricostituendo il G8), della politica europea (elezioni in Olanda il 15 marzo, in Francia il 23 aprile/7maggio, in Germania in autunno), della politica interna (sconfitta secca del 4 dicembre, trattativa in Europa sui conti italiani, elezioni amministrative in primavera in 999 comuni, tra cui 25 capoluoghi, elezioni regionali in Sicilia, sviluppo lento del Paese).
Dopo un paio di mesi di oscillazioni del dibattito interno, alla fine il PD ha trovato la strada maestra di ogni partito democratico: quella del congresso. Lo svolgimento dell’Assemblea ha solo fatto accenno alle nubi cariche di odio che incombono sull’Europa: il trumpismo, il nazionalismo antieuropeista, il razzismo – basterà solo ricordare le minacciose recenti dichiarazioni di Geert Wilders contro “la feccia marocchina” e quelle di Salvini sull’immigrazione fondata su “una pulizia di massa via per via, quartiere per quartiere e con le maniere forti, se serve”.
In questa Assemblea il PD ha parlato poco dell’Italia e molto di sé. E la ragione c’é: si tratta di un PD sofferente, perchè un pezzo del gruppo dirigente è sul binario delle partenze.
Già annunciata sui mass-media, la scissione è alle porte. Non di tutti: Rossi e Emiliano forse no. E forse per ragioni non nobilissime, la prima delle quali è che la Giunta regionale toscana e quella pugliese cadrebbero all’istante. D’Alema e Bersani hanno già preso il treno. E’ quella parte che viene dal vecchio PCI, che pensa che Matteo Renzi sia un usurpatore e un corpo estraneo alla sinistra. Quella che ha festeggiato la sconfitta nel referendum. Quella che ha tentato di farlo prigioniero al calduccio di un caminetto, attorno al quale da sempre si riunivano le nomenklature dei partiti e del PCI-PDS-DS per decidere chi dovesse essere il segretario, chi il presidente del Consiglio, chi il ministro.
Quella dei caminetti era una regola aurea. Persino Veltroni, che pure al Lingotto il 27 giugno del 2007 aveva lanciato il PD, si era arreso a quella regola, quando si dimise, sotto le pressioni non resistibili (?) di D’Alema, evitando di andare a Congresso. Ho già scavato, in più di un articolo precedente, dentro le ragioni storico-politiche “nobili”, che spiegano la scissione di D’Alema, il regista dell’intera operazione. La ragione di fondo è che D’Alema è convinto che la sinistra in Italia siano solo il PCI e successivi derivati, purché sempre diretti da dirigenti del PCI, il resto – socialisti compresi – sono frattaglie.
Pertanto, a suo tempo, non fu entusiasta della fondazione del PD di Veltroni, che tentava una fusione a caldo di antiche tradizioni comuniste, socialiste e cattolico-popolari. Che fu costretto a dimettersi un anno dopo.
Ciò che né D’Alema né Bersani hanno compreso è che i militanti del PCI sono andati più avanti di loro nella trasformazione culturale. E’ per questo che a Cuperlo le ultime primarie hanno dato solo il 18%. Perchè vivono nel mondo reale, non quello immaginato ai caminetti. Ma le ragioni cogenti, che portano D’Alema fuori dal PD, sono ben
altre.
D’Alema non è mai stato “di sinistra”. Nella dialettica interna del vecchio PCI è sempre stato centrista, berlinguerianotogliattiano. Centrista non solo nel senso delle politiche – nel 1994 si candidò alla segreteria in nome della “rivoluzione liberale” (sic!) – ma soprattutto nella collocazione di potere interno al partito: mai amendoliano, mai ingraiano, solo e sempre dalemiano. Centrista, nel senso dello stare al centro geometricoeuclideo del potere. Da quella posizione ha fatto e disfatto l’Ulivo e il governo Prodi, ma, soprattutto, i segretari di partito, che gli sono succeduti.
Lui stesso, d’altronde, rivendicò la segreteria per tempo, in un incontro fuggitivo con Occhetto, non al caminetto, ma nel garage di Botteghe Oscure, dopo le dimissioni poco spontanee di Alessandro Natta nel 1989, “ultimo segretario del PCI”: “ora tocca a te, domani a me”. Alle spalle sta un’idea della politica come manovra, come tattica, come un infinito tessere la tela di Penelope, un disfare e ritessere alleanze. Soprattutto, sta un’idea oligarchica della politica e del partito.
Qui nasce e sta la rottura profonda con Renzi. Il quale ha praticato una geometria non euclidea: no ai caminetti! ha chiamato alle primarie e a congresso iscritti e militanti per chiedere loro di scegliere il nuovo segretario e il nuovo gruppo dirigente.
L’Assemblea di Roma qualche novità la offre. Intanto, è sostanzialmente fallito il tentativo di D’Alema/Bersani di portarsi dietro gli ex-comunisti per fondare un nuovo PCI, quale che ne sia il nome. Tutti i segretari del vecchio PCI-PDS-DS-PD – Veltroni-Fassino-Epifani- Franceschini – eccetto D’Alema e Bersani, sono intervenuti nel dibattito contro l’ipotesi di scissione. Insomma: il troppo lungo addio del PCI pare finalmente consumato.
Il seme piantato da Occhetto con la svolta annunciata il 12 novembre 1989 è germogliato dal permafrost siberiano. Ora, si attende che il PD dica che cosa vuole fare. Sbloccare il Paese da una lunga stagnazione, spezzare il groviglio di macro/micro corporazioni, costruire un meccanismo istituzionale che dia stabilità ai governi, tutto ciò sarà impresa difficile. Come hanno ricordato Walter Veltroni, origini PCI e Patrizia Toia, origini cattolico-popolari, quest’anno 2017 le poste in gioco riguardano la civiltà europea, dentro la quale si collocano le sfide dell’Italia.
Come si gridava ormai cinquantanni fa, in tempi non sospetti: Ce n’est qu’un début…