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La vecchia sinistra e l’irrefrenabile tendenza al suicidio – di Giovanni Cominelli — 4 commenti

  1. Non capisco se l'articolo ha o no una conclusione o se è solo una serie di considerazioni, le quali, distribuite in modo rettorico/logico non chiaro, non mi permettono di capire ciò che Cominelli dice come constatazione storica neutrale (dal suo punto di vista per me molto discutibile), come sua critica (magari ironica, ma non è chiaro), o come considerazione valida anche come proposta. In sostanza non dice nulla, o forse dice che non si può dire nulla, sul perché della frammentazione della sinistra, né dice nulla sulla validità o meno delle categorie di sinistra / destra.
    Se la cosiddetta sinistra non avrà il coraggio di essere un po' più radicale nella sua analisi, non arriverà mai a capire quello che succede  e continurà a consolarsi o disperarsi con bla bla bla inutili.
    Destra / sinistra non hanno significato logico (né in senso storico, né in senso sociologico, né in senso politico). Non sono categorie analitiche che possano servire un qualunque discorso scientifico; sono – e sono sempre state, dal loro sorgere nel corso della rivoluzione francese – categorie polemiche, di propaganda, di ideologia, di etichettatura, di narrazione autoreferenziale di sé e del nemico.
    In sostanza è di sinistra chi si considera di sinistra o è considerato di sinistra (come riconoscimento positivo o negativo che sia). Va da sé che, trattandosi di un'etichetta polemica/soggettiva, c'è molta diversità su chi e che cosa considerare di sinistra o di destra. Ad esempio: lo stalinismo è di sinistra o di destra? Se si risponde che è di sinistra, allora è auspicabile che la sinistra scompaia dalla faccia della terra, se si risponde che è di destra allora si rovescia tutta una tradizione e narrazione storica propria della sinistra. Se si risponde che si tratta di una sinistra che ha sbagliato, che è andata fuori dal binario proprio della sinistra, allora si afferma che può esistere una sinistra positiva e una negativa, una giusta e una sbagliata, con il che siamo da capo. Non ci serve ragionare in termini di sinistra e di destra, perché non si approda a nulla.
    I programmi dei partiti politici sono sempre, del resto, un miscuglio di posizioni considerate di sinistra e di altre considerate di destra. Non è difficile pescare brani di scritti di Mussolini e di Hitler che parrebbero scritti da Lenin o Stalin, e viceversa.
    Solo discutendo di programmi, e non in generale, ma punto per punto, si può davvero discriminare fra una politica e l'altra e dire "sì, sono d'accordo" oppure "no, non sono d'accordo".
    Ovviamente, dietro alle scelte che gli individui operano volta per volta, c'è anche una visione più complessiva della vita (della società, dell'economia, della politica ecc.), sia riferita a una filosofia, a una ideologia, a una forma mentale, a una inclinazione antropologica o ad altro. Ma la visione generale (chiara o confusa che sia secondo scienza e coscienza ed esperienza) non cancella mai lo specifico delle scelte operate di volta in volta, né queste cancellano l'influenza della visione generale che ci sta dietro, in posizione dialettica e non deterministica.
    L'uomo, nel suo comportamento politico inteso in senso lato, è sempre un uomo diviso, in perpetuo conflitto di interesse con se stesso, fra la sua parte che interpreta il cittadino preoccupato degli interessi generali e l'altra sua parte che rappresenta i propri interessi personali, particolari. Il peso delle due parti può variare da individuo a individuo, ma è sempre presente. L'analisi psicologica dei comportamenti politici è estremamente difficile e incerta.
    Gli unici appigli che danno materia di analisi più oggettiva sono: 1) i programmi; 2) la coerenza dei comportamenti / delle condotte politiche, rispetto ai programmi; 3) il risultato prevedibile delle azioni e dei provvedimenti messi in atto sulla base dei punti 1 e 2.
    Da questo punto di vista le divisioni nella sinistra (ma anche nel centro e nella destra, che non hanno mai dimostrato una maggore coesione e una minore tendenza alla conflittualità interna) si spiegano con le caratteristiche proprie – e da sempre – dell'attività politica. I fattori principali sono: 1) le circostanze storiche, che in alcuni casi spingono all'unità, in altri alla divisione; i periodi di crisi e di cambiamento, normalmente, favoriscono le divisioni, salvo che forti fattori di emergenza non si concentrino in pochissimi punti programmatici capaci di unire. 2) La qualità dei leader. I leader forti e capaci uniscono, i deboli e incapaci dividono. Tra parentesi va aggiunto che non sempre i forti e capaci hanno ragione, tuttavia la prassi politica funziona così, non sulla base delle ragioni possibili. 3) La qualità delle organizzazioni. Quelle strumentali dividono, quelle basate sullo spirito di comunità uniscono. 4) La qualità dei programmi. Quelli con più contraddizioni interne e più dispersione di obiettivi e di astrattezze in riferimento agli interessi dei cittadini (tutti, o dei soli elettori di riferimento), dividono; quelli più concentrati su punti fondamentali e di forte incontro con l'elettorato, uniscono. 5) Infine, ultimo di un elenco non certo esaustivo, vi è il fattore "psicologico", miscuglio di elementi di difficile identificazione e valutazione, che incide molto sulla "simpatia" che un leader, un partito o un programma incontrano fra gli elettori. Da almeno un decennio, ad esempio, la "novità" è stata apprezzata più della "fedeltà"; i cittadini (ed elettori) sono diventati molto più "mobili". La cosiddetta anti-politica (cioè la nuova politica contro la vecchia) ha premiato di più della politica tradizionale. Fra i fattori psicologici vi è anche, importante, la percezione che i cittadini hanno relativamente all'onestà dei leader e candidati politici. Onestà e capacità (competenza) sembrano oggi diventati, agli occhi dei cittadini, valori più importanti della "fedeltà alla linea", tipica dei partiti tradizionali.
    Le divisioni interne alla cosiddetta sinistra, oggi, più che distinzioni fondamentali di linee programmatiche diverse, appaiono come diverse sfumature dello stesso colore, grigio, che il pubblico non riesce a distinguere, né vuole, né gli interessa farlo. Inoltre se la sinistra renziana ha un leader indebolito, mezzo azzoppato, la sinistra anti-renziana non ha nessun leader credibile oltre la soglia del 5% di forza elettorale. Non sono tali Bersani né D'Alema, Emiliano o Speranza o Pisapia o altri, figure scialbe, alcune delle quali hanno avuto il loro momento e si sono comportati male, al di sotto dei compiti affrontati e delle aspettative; altre non hanno mai avuto e mai dimostrato le capacità per svolgere un ruolo nazionale, oltre gli steccati degli apparati di partito o dei giochi a livello locale (comunale, regionale). 
    La sacrosanta sconfitta del referendum costituzionale voluto da Renzi ha, paradossalmente ma non troppo, messo in crisi sia la sinistra del SI sia quella del NO. Infatti sia le ragioni del SI sia quelle del NO erano in gran parte strumentali; e continuavano una strumentalità della politica che dura da troppo tempo e che da troppo tempo evita di affrontare le domande di fondo, che non sono "cosa vuol dire essere di sinistra? cosa è la sinistra?", domande vuote e retoriche. Ma che sono, per riprendere (pur senza condividerle a pieno, ma solo per comodità) le categorie valoriali menzionate da Cominelli: "che cosa è la libertà, per noi? che cosa è la giustizia? che cosa è la solidarietà? che cosa è l'uguaglianza?". Non in termini di bla bla bla ideologico, ma in termini di programmi, progetti di legge, copertura dei costi, benefici, sacrifici, sudore e sangue che ne deriverebbero e per chi e come.
    E' su questo terreno che, a torto o a ragione, il M5S ha guadagnato consensi a danno della sinistra. Ed è qui che la cosiddetta sinistra ha avuto, ha ed avrà il suo vero campo di battaglia. Se non è credibile su questo terreno, non potrà che dividersi, litigare, perdere, e comunque continuare nel suo andazzo solito.  
       

    • L’articolo fa una schematica analisi storica (a proposito: la sinistra nasce nel corso della Rivoluzione francese, allorchè i rivoluzionari radicali si trovarono a sedere a sinistra del Presidente dell’Assemblea, mentre i conservatori si erano raggruppati alla destra del Presidente, pare per sfuggire al rumore e alle urla e indecenze che i rivoluzionari urlavano dai loro banchi, dove tutti, all’inizio, erano seduti con tutti) e propone che la sinistra di oggi e del prevedibile futuro sia la sinistra socialista/cattolico liberale di cittadinanza. I valori che la guidano: la triade della Rivoluzione francese.
      Da quando Cromwell riunì nella chiesetta di Putney, nei sobborghi di Londra, i suoi quadri politico-militari in una "quattro giorni” del 1647, che elaborò il concetto moderno di democrazia liberal-borghese, sono venute al mondo tre sinistre:
      a) la sinistra liberal-borghese (gli Whigs, i Girondini, i Giacobini…): quella del Terzo Stato; dura fino al 1848.
      b) la sinistra di classe (comunisti, socialisti…): quella del Quarto Stato (dal 1848 al 1989)
      c) la sinistra di cittadinanza (Blair, Schroeder, Renzi, Macron…): quella del dopo-‘89
      L’articolo opta, ovviamente, per quest’ultima.

      • Caro Cominelli,
        1) La tua è una interpretazione della storia della sinistra nota e che dimostra, come affermo, che fin dal suo sorgere è solo un’etichetta. Ti sembra che i Giacobini, che hanno teorizzato e prodotto il terrorismo e poi il bonapartismo, appartengano a una sinistra «liberal-borghese»? Non ti sembra invece che abbiano usato i valori «libertà, uguaglianza, fraternità» solo come slogan propagandistico? E quando mai, in pratica, avrebbero tentato di realizzarli? I giacobini sono gli antenati di una concezione dello stato forte, etico e quindi discriminante fra i valori, autoritariamente “didattico” e quindi contrario alla libertà dei singoli, in ciò precursori del totalitarismo, sia quello nero fascista e nazista sia quello rosso leninista e stalinista.
        2) Quella che tu chiami “sinistra di classe” si è storicamente articolata in molte correnti anche in aspra guerra fra loro, con massacri reciproci in diversi tornanti delle vicende politiche. Serve a qualcosa, dunque, definirla in blocco “sinistra”? Quando poi le articolazioni programmatiche sono le più diverse e in contrasto fra loro? Che hanno a che fare i socialisti rivoluzionari con i leninisti che li hanno massacrati o gli anarchici di Spagna e i socialisti riformisti con i comunisti loro massacratori; o i socialdemocratici considerati dai comunisti “rivoluzionari” alla stregua dei fascisti e comunque sempre servi del capitalismo e dell’imperialismo?
        3) Quella che tu chiami “sinistra di cittadinanza” ci mostra di nuovo un coacervo di posizioni aspramente diverse, e soprattutto, per molti aspetti, ostili e addirittura il contrario delle precedenti definizioni di sinistra. Dunque, di nuovo, a che serve parlare di sinistra?

        Inoltre, nel tuo schema è assente un’altra sinistra: quella libertaria, quella che non vuole conquistare lo stato per realizzare i propri programmi, ma abolire lo stato perché cessi di impedire che gli uomini liberi si organizzino in modo autonomo e realizzino da soli, senza lo stato, il proprio programma.
        È la sinistra che, da diverse posizioni (comunitariste, individualiste), ha come nemico principale lo Stato in cui vede la massima organizzazione criminale di tutti i tempi. Le altre tre sinistre della tua scaletta sono invece tutte e tre stataliste e si rassomigliano come bande di ladri, pur essendo fra loro in lotta per la conquista e la spartizione del bottino.
        Storicamente, la “sinistra”, intesa in senso stretto come movimento socialista/comunista, è morta quando anziché rafforzare gli elementi di alternativa allo stato, al di fuori dello stato, ha fatto la scelta di lottare per conquistare lo stato. Ma questo tipo di lotta e l’organizzazione dello stato hanno una logica interna, una “ragion di Stato”, più forte delle ideologie della sinistra e della destra, e tutti quelli che entrano nello stato per cambiarlo, finiscono per cambiare se stessi, incidendo poco sulla realtà dello stato (e anche semplicemente della burocrazia come potere organizzato e corporativo).

        La sinistra, nello stato e con lo stato, non realizzerà mai i valori della libertà, della giustizia, della solidarietà ecc., ma, nel caso migliore, si limiterà a rendere più sopportabile il peso dello stato, con una minore rapina, ingiustizia e autoritarismo fra le forme che si dicono democratiche (liberal-democratiche ed etico-democratiche) e le forme autoritarie (democrazia autoritaria, autoritarismo di tipo tradizionale, fino al totalitarismo). Insomma, il ladro democratico, qualche volta, ruba di meno. Se la differenza è solo questa – e certamente nella vita quotidiana degli individui è una differenza che incide molto -, il luogo ideale in cui si incrociano e realizzano i valori non sta qui, e questa “sinistra” fa parte della stessa famiglia politica della “destra”.

        Io mi chiedo, come se lo chiedevano molti socialisti e comunisti cosiddetti utopisti prima che il marxismo, ancora vivo Marx, optasse per diventare una macchina non mirata a realizzare il comunismo, ma a conquistare il potere, rimandando la costruzione del comunismo a un ipotetico e sempre più lontano e impreciso momento futuro; e come ad ogni svolta “rivoluzionaria” se lo chiedono i socialisti e comunisti più autonomi, prima di venire schiacciati da quelli istituzionalizzati, mi chiedo, come si chiedono anche i teorici dell’organizzazione in qualunque campo, perché chi si definisce comunista non comincia subito a costruire il comunismo? Perché non ne dimostra la superiorità rispetto all’organizzazione capitalistica promuovendo così l’estensione del modello migliore? La risposta maliziosa è che i comunisti non sono convinti del comunismo che predicano e della sua superiorità rispetto al deprecato capitalismo, è che non sono coerenti, è che in realtà non gli interessa il comunismo ma i vantaggi che, in seno ad una società non comunista, possono ottenere lottando per il comunismo (fossero anche solo vantaggi psicologici, di gratificazione). La risposta non maliziosa è che, quando non sono opportunisti, sono degli ingenui e sprovveduti sognatori.
        In una società relativamente libera come quelle a costituzione democratica costruire il comunismo è possibile, ed è possibile dirigere la lotta per la rimozione di quegli ostacoli legislativi che complicano le cose. Nomaldelfia, ad esempio, è una società comunista di circa mille persone, famiglie intere. Certo, si ispira ad un comunismo evangelico cristiano cattolico, ma è comunista. Perché mille o più comunisti che si ispirano a una diversa filosofia comunista non si organizzano per vivere da comunisti? Se lo fanno, e se la loro comunità dimostrerà, in concreto, di poter dare di più, soprattutto in termini di felicità, di quel che danno le società borghesi, sono convinto che verrebbero imitate e che il comunismo comunitario – che in sé non è affatto un’utopia come quello marxista non è affatto una scienza, potrebbe diventare il modello vincente.
        Un comunismo pacifico, costruito su base volontaria e non imposto con la violenza dello stato: ecco il solo comunismo accettabile e auspicabile. Quello imposto con la violenza dello stato non è comunismo, ma violenza, e il tratto della violenza, della ferocia e dell’abuso di potere, caratterizzano tutte le pretese società comuniste nate da una rivoluzione violenta, da quella Russa a quella Cubana. Ma in queste società non c’è un briciolo di comunismo e le parole della rivoluzione francese continuano a essere agitate solo come slogan di propaganda, nell’ambito di una lingua di legno dove libertà significa oppressione, giustizia significa abuso di potere e annientamento dell’uomo, e fraternità significa che lo stato si arroga il diritto di gestire a suo comodo tutte le risorse del Paese, dando e togliendo arbitrariamente.
        La “sinistra” per la quale tu opti è certamente meno dannosa del totalitarismo leninista stalinista castrista. Ma perché chiamarla sinistra e non semplicemente democrazia sociale come si potrebbe più correttamente e chiaramente definire? Si tratta, infatti, di una forma di democrazia etica, il cui giacobinismo è stemperato dal liberalismo e si incrocia, per sensibilità e programmi (in teoria!), con alcune istanze storiche del socialismo limitatamente ai temi del soccorso e della difesa dei ceti più deboli.

        • Sono d’accordo con le tue considerazioni finali (ma anche con l’analisi della prima parte tesa a dimostrare che al di là delle distinzioni ideologiche, le pratiche concrete hanno determinato molte sovrapposizioni). E’ questa la ragione per cui, quando scrivo di politica mi riferisco più genericamente a modernità, progressismo, …

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