Pensieri dall’Italia nel Limbo
Chiunque avesse vinto – si diceva nel corso della lunga campagna elettorale – l’Italia non sarebbe né ascesa al Paradiso né precipitata all’Inferno.
Dopo il voto, il Paese si trova, in effetti, nella posizione peggiore: nel Limbo, quello dei bambini. Ma, prima che i fatti vengano travolti dalla pur inevitabile esondazione delle analisi sociologiche, politologiche e politicanti, è necessario prendere atto dei fatti così come sono. Che sono due: la maggioranza dei votanti ha detto NO al cambiamento della Costituzione; la maggioranza dei votanti ha detto NO al governo Renzi, che aveva proposto e difeso quel cambiamento.
Decenni di dibattito – la prima Commissione istituzionale è del 1983 – centinaia di sedute parlamentari, decine di migliaia di emendamenti, un testo limpido di quesiti, tutto ciò è stato azzerato in un giorno.
Le motivazioni del NO sono state diverse, opposte e autocontraddittorie, ma, in ogni caso, il verdetto è chiaro: il sistema politico deve restare così com’è! Come a dire: la maggioranza del Paese non vuole cambiare. La maggioranza non crede nel Paradiso, non vuole l’Inferno, vuole solo stare tranquilla nel Limbo, che ospita i Paesi immobili e senza futuro.
Voto di protesta? Sì, voto di protesta contro chi pretende di cambiare il Paese. La protesta è la forma, ma la sostanza è la conservazione. Il filone della protesta populista è solo una componente del NO, perchè una parte della sinistra e quasi tutto il centro-destra hanno votato NO.
Quali le cause, quali le conseguenze dei fatti? Delle cause, le prime sono culturali e profonde. Esse riguardano tanto l’idea di politica quanto l’idea di democrazia quanto la collocazione internazionale dell’Italia. Se la difesa “appassionata” della seconda parte della Costituzione ha coinciso con la difesa del sistema politico così com’è, è qui che bisogna scavare.
Già fin dalla proposta del “governo degli onesti” di Enrico Berlinguer, adombrata nel novembre del 1980 a Salerno e poi ripresa in una famosa intervista da lui concessa a Scalfari, fino al proto-leghismo, a Mani Pulite, alla Rete, ai Girotondi ecc…, se la politica è inefficiente e corrotta, ciò non è dovuto al malfunzionamento delle istituzioni politiche, che piegano i partiti e il personale politico alla propria misura.
No. I politici sono cattivi! Pertanto, non è necessario cambiare le istituzioni, occorre cambiare gli uomini. Servono uomini nuovi. Le cattive performances della politica sono dovute al degrado morale, non a istituzioni inadeguate. Su tali basi culturali ogni ipotesi di cambiamento istituzionale e di legge elettorale che vi fosse coerente è stata coerentemente combattuta, in primo luogo dalla sinistra.
Tutta la campagna ideologica contro il berlusconismo condotta dal 1994 in avanti è stata ispirata dall’idea che cambiare le istituzioni fosse un atto antidemocratico e autoritario. Di questa cultura egemone oggi si coglie il risultato. Che Berlusconi abbia partecipato al sagra del moralismo e della denuncia del rischio autoritario è solo un effetto comico delle sue capriole tattiche per stare a galla con il 15%.
Il sistema politico funziona, secondo Berlusconi, solo se la sua presenza è determinante. Diverso era il Berlusconi del 2005, quando propose un’audace riforma della seconda parte della Costituzione, che una sinistra suicida combatté e liquidò. Si chiama pena del contrappasso.
Oggi è il M5S il portatore più ostinato e coerente di questa cultura. Ed è il vincitore reale di questo round. Con ciò il Paese ha deciso di restare strangolato dal circolo vizioso, per il quale alimenta quotidianamente la critica alla casta politica, ma, al contempo, si oppone a istituzioni politiche nuove, che ne impediscano la proliferazione tumorale.
L’esito paradossale della vicenda referendaria è che, in nome della lotta alla casta, la maggioranza dei voti ha difeso la casta che c’è, tutto il vecchio personale politico. L’altra causa culturale è l’ideologia italiana della democrazia.
Viene dal lontano ’48. Le ragioni internazionali che la sorressero sono tramontate nel 1989, ma è rimasta sul fondo del Paese: la democrazia non è un regime dove si prendono decisioni a maggioranza – questa è la democrazia liberale di Montesquieu – ma un posto dove tutti parlano, tutti partecipano, nessuno decide – e questa è la democrazia assembleare di Rousseau, oggi fortunatamente decapitata da quella Volonté générale dei Giacobini, che ha spinto più di uno sotto la lame della ghigliottina.
Non ci sono più ghigliottine – salvo quelle giudiziario-mediatiche – tutti convivono con tutti, micro-interessi e macro-interessi, privilegi ed evasione fiscale, status quo versus avventure del cambiamento. Zagrebelski ha assai lucidamente teorizzato questo regime che corrisponde perfettamente alla giungla degli interessi esistenti.
In questo assetto, il governo è solo un esecutivo tecnico momentaneo, non dispone di legittimazione popolare diretta. La terza causa culturale è la percezione della nostra collocazione internazionale. La guerra fredda e il bipolarismo ci hanno garantito anni di pigra sicurezza. L’orizzonte politico del Paese finiva sulle Alpi. Non avevamo responsabilità rispetto al mondo “là fuori”. Solo che, in questi anni, il mondo è venuto a cercarci, è entrato nel sistema-Paese, senza bussare. Fino a quando la coscienza di maggioranza del Paese potrà restare chiusa in questo bozzolo? E’ incominciato l’Italexit?