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la Costituzione non è il Corano — 5 commenti

  1. Si, le considerazioni di Enzo Balboni sono meno schierate di quelle di Onida. La confluenza tra Balboni e Onida/Di Siervo nel comune filone del costituzionalismo cattolico non li porta affatto sulle stesse posizioni referendarie. D’altronde, il costituzionalismo cattolico si è articolato in SI’, NO e NI’, non certo per ragioni di fede, ma per cause di cultura politica diversa.  Umberto Allegretti e Enzo Balboni già nel loro documento del 27 maggio 2016 rifiutano di schierarsi per il SI’/NO, perchè, affermano, “come studiosi della Costituzione e delle istituzioni, riteniamo che non spetti a noi un giudizio “conducente” verso i nostri concittadini”. Rimproverano, in quanto tecnici, alla riforma Renzi-Boschi di mancare di quella “solemnité”, che sarebbe il “sentiment” necessario ad un approccio riformatore della Costituzione. E, sempre come tecnici, avanzano osservazioni critiche su tre punti, che la lettera di Balboni riprende qui. Su questi tre punti (il Senato, il Titolo V, l’Italicum) sarebbe riscontrabile uno scostamento tra la Parte prima della Costituzione e le modifiche proposte della Seconda parte.  Insomma: d’accordo con le modifiche di quelle parti, ma esse sono o confusamente pasticciate o pesantemente riduttive dell’ispirazione regionalista o troppo decisioniste.
    Pertanto, rifiutando in quanto tecnici di dire e raccomandare pubblicamente un SI o un NO, rimandano al segreto dell’urna, dove prenderanno posizione in quanto cittadini. Occorre ammettere che un tale atteggiamento “non militante”, che nel clangore della battaglia in corso non ha potuto arrivare alle orecchie dei più, è del tutto nobile e meritevole di grande attenzione.
    Né, a venti giorni dalla data fatidica, si può chiedere a Balboni di rivelare finalmente come voterà. Il voto è segreto, si sa.
    Sul contenuto di quelle obiezioni, mi limito ad osservare, qui,  in sede storica che neppure all’epoca della Costituente ci fu quel “sentiment”, la cui mancanza Enzo Balboni imputa ai riformatori di oggi. Giacchè, allora come oggi, sono le classi politiche dirigenti che fanno le Costituzioni – come ricordava Dossetti già nel 1946 – non sono i seminari di costituzionalisti, assisi al riparo delle loro campane di vetro. Cioé, sono i partiti così come si configurano oggi. Compromessi o, come preferisce dire Balboni, pasticci sono la regola in ogni tempo, non l’eccezione. Alla fine conta la politica, immersa nella storia del mondo, dentro i vincoli di un quadro internazionale, al quale nessuna scelta di politica nazionale può sottrarsi. Si può avere nostalgia di un altro tempo, di altri partiti e di altre classi dirigenti. Ma i partiti di oggi e i leader di oggi sono il prodotto di settant’anni di esercizio di quell’arte del non governo (per citare un bel libro di Piero Craveri), che ci ha portato fin qui. Hic Rhodus, hic salta!
    Ripeto qui quanto detto sopra a Onida. Se vogliamo rafforzare la democrazia, battere il populismo, avere governi stabili non c’è altro modo che dare ai cittadini la responsabilità delle scelte decisive: quella della rappresentanza e quella del governo per derivarne, sui rami alti dei rapporti tra rappresentanza e governo, una configurazione più stringente del destino dei due, sia pur rimanendo nell’ambito del governo parlamentare.
     
     

  2. Giovanni  Cominelli mi chiama in causa su Movimenti Metropolitani nel suo commento “Valerio Onida: la Costituzione non è il Corano!” per annoverarmi tra i costituzionalisti del NO, con la precisazione che sarei, con Onida appunto, De Siervo e altri innominati, la punta di lancia del costituzionalismo cattolico, ovviamente ultraconservatore dello status quo istituzionale e nostalgico dei bei tempi andati che, in sequela dell’insegnamento di Mortati e Dossetti, elevavano sugli altari la costituzione materiale e il sistema dei partiti della prima, e unica, Repubblica.
    Non è così.
    Quanto all’affiliazione nel campo dei costituzionalisti del NO, questa non corrisponde al vero perché – come è facilmente riscontrabile – il mio nome non compare tra i 56 che hanno firmato il documento originale. Ciò è avvenuto, da parte mia, non per distrazione o dimenticanza. Insieme ad Umberto Allegretti abbiamo reso pubblico, fin dal maggio scorso, un documento facilmente riscontrabile sul web, pubblicato dall’Associazione costituzionalisti italiani, da Astrid e da altri, che era chiaro fin dal titolo: “Perché non ci schieriamo aprioristicamente per il SI’ o per il NO”.
    Anche Umberto è, come me, un cattolico democratico, di sinistra (se si può ancora dire per coloro che perseguono l’uguaglianza in senso sostanziale), innamorato dei valori e dei princìpi scritti nella Parte Prima della Costituzione (artt. 1-54), ma, come un nostro ideale maestro, Dossetti, non rifiutiamo affatto di aggiornare e modernizzare la Parte Seconda, quella relativa all’ordinamento della Repubblica, che, ovviamente, deve stare al passo dei tempi ed accogliere in modo pro-attivo quanto di meglio il dibattito costituzionale europeo ed occidentale e la prassi mettono in campo.
    Così, per essere concreti, nessuno di noi (e penso di poter aggiungere ai nomi prima citati: Zagrebelsky, Casavola, Flick, Cheli, Zaccaria… ed altri ancora) si oppone a:
    1.  Eliminazione del bicameralismo perfetto e paritario.
    2.  Fiducia data e revocata dalla sola Camera dei deputati.
    3.  Diminuzione del numero dei parlamentari (ma, sul punto, non è un dogma il mantenimento degli attuali 630 deputati).
    4.  “Data certa” a favore di iniziative legislative qualificate del Governo, a fronte di una sperabile diminuzione del numero e della eterogeneità dei decreti-legge.
    5.  Rilancio della partecipazione popolare attraverso l’abbassamento del quorum di validità per i referendum abrogativi (ma perché limitarlo alla raccolta di più di 800.000 firme?) ed introduzione dei referendum propositivi e di indirizzo, nonché l’iniziativa legislativa popolare rinforzata.
    6.  Introduzione del principio di efficienza ed efficacia, nonché dei costi standard e dei fabbisogni nel controllo dell’attività amministrativa, specialmente di Regioni e Comuni.
    7.  Controllo preventivo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali.
    Non mi sembrano cose ovvie e potrei proseguire con ulteriori elementi positivi, dei quali non faccio fatica a dare atto al procedimento Renzi-Boschi, il quale raccoglie su tali punti molte proposte consolidate in giurisprudenza, dottrina e prassi.
    Ma – mi si obietterà – se le cose stanno così e quelli indicati non sono solo dettagli, dove sono gli errori che impediscono di entrare toto corde sul terreno del Sì?
    Per rispondere a questa domanda, mi rifarò ad un sentiment che i miei interlocutori potranno agevolmente annoverare tra i retaggi cattolico-ultramontani, anche se si appoggia su testimoni rigorosamente laici.
    Afferma Rousseau, nelle Considerazioni sul Governo della Polonia (1782) che “è contro la natura del corpo politico di imporsi delle leggi che non possa revocare, ma non è né contro la natura né contro la ragione che non possa revocare quelle leggi se non con la stessa solemnité che ha impiegato per stabilirle”.
    Riprende Ruini, nel momento solenne nel quale presenta in Assemblea costituente la sua Relazione generale (febbraio 1947), citando Stendhal, che nell’“avvicinarsi ad una costituzione si prova quasi un senso religioso”.
    In estrema sintesi, l’allontanamento dal sentiment costituzionale è rinvenibile non solo nel procedimento legislativo adottato, che, pur legittimo, non ha saputo elevarsi al tono che sarebbe stato necessario, ma specificamente per almeno tre tra le principali proposte:
    1.  Quelle relative alla struttura e alle funzioni del nuovo Senato, che non brillano certamente per organicità, chiarezza e coerenza interna, compreso il pasticciato sistema elettorale connesso;
    2.  Quelle che si traducono in un livellamento verso il basso delle Regioni (solo quelle ordinarie, perché?), degradandole a grossi coacervi di Comuni e di ex Province, facendo di loro degli enti di amministrazione locale sottoposti a ferree regole di direzione centralista e a controlli attivabili tutte le volte che un prefetto o un ministero ritengano di rinvenire un “interesse nazionale”, essendo la residua potestà legislativa delle Regioni sottoposta all’attivazione di tale clausola da parte del Parlamento, ma su proposta del Governo.
    3.  Quelle che, in forza del famigerato e pluricitato “combinato disposto” con l’attuale legge elettorale, assegnano al vincitore di un’elezione dotata di un largo premio maggioritario una posizione di dominus del sistema politico, anche se non viene modificato l’attuale art. 95 (come invece faceva la proposta Berlusconi-Bossi): di ciò posso dare volentieri atto a Matteo Renzi.
    Nelle tre proposizioni che adesso ho dovuto sbrigativamente sunteggiare, e che richiederebbero certamente un approfondimento specifico che non posso fare in questa sede, è ravvisabile, a mio avviso, un netto scostamento tra i valori e i principi riconosciuti e garantiti nella Parte Prima – personalismo comunitario, eguaglianza sostanziale, pluralismo istituzionale e sociale – e le realizzazioni che adesso si preparano per la nuova Parte Seconda. Insomma: più decisionismo e meno mediazioni. Detto così suona rozzo e volgare, e sarà necessario articolare meglio questa riflessione critica.
    Circa vent’anni fa, su impulso di due stimati comunisti non dogmatici e veri riformisti, Riccardo Terzi e Roberto Vitali, formammo, con Valerio Onida, Franco Monaco e altri, un gruppo di lavoro che produsse un documento riformatore volto al miglioramento dell’assetto costituzionale, nella sua Seconda Parte, senza dimenticare però la correlazione necessaria con la Parte Prima.  Noi cattolici eravamo consapevoli e fieri di proseguire l’insegnamento di Mortati e di Dossetti. Quest’ultimo, nello straordinario discorso rivolto agli universitari di Parma (26 aprile 1995), quello in cui evoca l’habermassiano “patriottismo costituzionale”, conclude così:
    “Non lasciatevi influenzare da seduttori fin troppo palesemente interessati, non a cambiare la Costituzione, ma a rifiutare ogni regola. (…) Perché se mai, è proprio nei momenti di confusione o di transizione indistinta che le costituzioni adempiono la più vera loro funzione: cioè quella di essere per tutti punto di riferimento e di chiarimento.
    Cercate quindi di conoscerla, di comprendere in profondità i suoi principi fondanti, e quindi di farvela amica e compagna di strada.
    Essa, con le revisioni possibili ed opportune, può garantirvi effettivamente tutti i diritti e tutte le libertà a cui potete ragionevolmente aspirare; vi sarà presidio sicuro, nel vostro futuro, contro ogni inganno e contro ogni asservimento, per qualunque cammino vogliate procedere e per qualunque meta vi prefissiate”.
    Dossetti affermava allora, e ripeto io oggi, che possono esserci davanti a noi “revisioni possibili ed opportune”. Nessuna imbalsamazione coranica, dunque, nessuna nostalgia per un passato partitocratico che con i suoi errori, anche sul piano istituzionale, è ormai alle nostre spalle.
    Fiducia invece in un modo nuovo di svolgere ragionamenti, elaborare testi, cercare accordi e trovare intese, senza dogmatismi e fanatismi, ma sforzandosi di fare le cose per bene: come va fatta quella cosa, un po’ speciale, che si chiama Costituzione.
     

  3. 1. In realtà la frase “ la Costituzione non è il Corano” che Paolo Pombeni attribuisce a Mario Scelba, pare sia stata scritta/pronunciata da Guido Gonella. Il quale si preoccupava profeticamente, già sul finire dell’ottavo governo De Gasperi, dell’instabilità permanente dei governi futuri. E pertanto suggeriva – ma non era il solo, anche Giuseppe Dossetti – di rivedere la seconda parte della Costituzione, quella relativa al governo, scritta alla vigilia del 18 aprile, a guerra fredda già incominciata. Frase tutt’altro che infelice, almeno quanto al contenuto, considerato che, dopo, i governi sono stati debolissimi e quindi troppi! Ci proverà De Gasperi con una nuova legge elettorale, che fu abolita nel 1954, perchè le elezioni del 1953 non crearono le condizioni materiali per la sua applicazione, cioé il 50%+1 dei voti popolari.
    2. Il governo parlamentare è quello cui il Parlamento dà/toglie la fiducia. Questo legame tra rappresentanza e governo può essere più o meno stringente, ma è essenziale ed è quello che prevede anche l’Italicum (peraltro già in via di modifiche!). Le varianti di quel legame sono almeno tre: a) il Parlamento fa cadere il governo e ne fa un altro; b) lo fa cadere, ma solo a condizione che sia pronta un’alternativa (la sfiducia costruttiva); c) fa cadere il governo, ma cade con esso. Sì, ma obbietta Valerio Onida, il carattere parlamentare del governo verrebbe in realtà gravemente indebolito dalla legge elettorale, che prevede il meccanismo di candidature legate al premier da eleggere. Il che, tuttavia, avvenne già con il Mattarellum sia nel 1996, sia nel 1996, sia nel 2001. I partiti presentavano nei collegi i candidati favorevoli al candidato premier, scelto anch’esso dai partiti. Onida lo trova pericoloso per la democrazia. La ragione è che lui separa a monte rappresentanza e governo. Come se i cittadini eleggessero i propri rappresentanti senza allungare lo sguardo al governo che hanno in mente e al quale chiedono la soluzione dei problemi. Nella testa dei cittadini il rappresentante è scelto per risolvere i problemi, cioé per governare, non solo per porre le domande in Parlamento, ma per avere delle soluzioni.  Per Onida, la rappresentanza raccoglie le domande. Per le risposte di governo si vedrà. Anzi: vedranno i partiti in Parlamento! Sulla porta del quale i cittadini si fermano. Secondo questo presupposto, che ha guidato le elezioni dal 1948 al 1994, i cittadini eleggono i deputati e questi in Parlamento vedono un pò cosa si può fare. I risultati di questa subordinazione della funzione-governo alla funzione-rappresentanza sono lì da vedere: sono l’Italia nella plaude del declino. Se questa è l’idea, tanto vale tornare alla proporzionale e poi procedere a governi assembleari. E’ quanto sostenuto con tutta nettezza da Zagrebelski in un dibattito televisivo con Renzi.
    3. A quanto pare il modello Westminster continua a funzionare anche se i partiti che si presentano alle elezioni inglesi sono più di due. Nel 2015 si sono presentati i Conservatori, i Laburisti, il Partito nazionale scozzese, i Liberaldemocratici, il Partito per l’Indipendenza dal regno unito, il Partito unionista democratico,  il Partito nazionale britannico, il Partito dei verdi… Ma anche nelle elezioni precedenti i partiti erano più di due. Tal quale in Italia. Far funzionare la democrazia, quando c’è il bipolarismo – che non è un dato naturale, ma una costruzione legislativa – è facilissimo: va in automatico. Ma l’importanza del sistema elettorale ai fini della costruzione di una maggioranza di governo stabile emerge proprio laddove si debba fare i conti, come in tutte le società moderne, di un ampio spettro pluralistico. E qui torniamo al punto: scopo del sistema elettorale è solo quello di garantire una rappresentanza perfetta o anche quello di garantire un governo stabile nel tempo?
    4. Sì, i governi sono ormai espressi  da “minoranze forti”, dappertutto. Da parecchi anni, questa è la situazione delle democrazie occidentali. Le ultime elezioni tedesche hanno visto la partecipazione di poco più della metà degli elettori. In Francia nel 2012 hanno votato circa 26 milioni di elettori, quasi il doppio alle amministrative del 2015. Certo, nei regimi totalitari funziona in maniera diversa…
    Negli USA, su una popolazione di 325 milioni, gli aventi diritto al voto sono 231.556.000, i votanti sono stati, in quest’ultima elezione presidenziale, 128.843.000 (55.6%).Nel 2012 i votanti furono 122’800’000 (49%) e nel 2008 votò il 57.5%. Hilary Clinton ha ottenuto (232) 59.680.035 (47.7%) voti popolari e 232 grandi elettori; Donald Trump ha ottenuto 59.479.278 voti (47,5 %9) e 306 grandi elettori. Insomma: Trump governa con il 47,5% dei votanti, che sono solo ¼ degli aventi diritto. Antidemocratico?!
    5. Sembra sfuggire a Onida che un governo che nasce in Parlamento, è un governo fatto da partiti, cioé dai segretari di partito e perciò dipende dai rapporti e accordi tra i partiti e perciò è debole. La debolezza istituzionale nasce dal fatto che l’istituzione-rappresentanza è più forte dell’istituzione-governo. Per dare a queste due gambe della democrazia la stessa lunghezza (sennò zoppica!) si devono fare due operazioni: a) in basso: riconoscere ai cittadini-elettori il diritto di scegliere direttamente sia il deputato sia il capo del governo (quindi il governo nasce dalle urne, non in parlamento); in alto: legare rappresentanza e governo, con l’applicazione del principio “simul stant, simul cadunt”. Oppure, a chi piace, adottando un sistema presidenziale o vice-presidenziale. Anche questo è un sistema assolutamente democratico! La coerenza tra rappresentanza e governo è condizione essenziale della governabilità, non è una dittatura della maggioranza. Un governo che ricorre di continuo ai voti di fiducia e alla decretazione di urgenza non è affatto forte, è debole. E lo è non a causa delle opposizioni, ma a causa della propria instabile e infedele maggioranza.
    Considerazione finale: se vogliamo rafforzare la democrazia, battere il populismo, avere governi stabili non c’è altro modo che dare ai cittadini la responsabilità delle scelte decisive: rappresentanza e governo per derivarne, sui rami alti dei rapporti tra rappresentanza e governo una configurazione più stringente del destino dei due, sia pur rimanendo nell’ambito del governo parlamentare.

  4. Brutto titolo, che a prima vista sembra attribuire a me la infelice frase di Scelba, che invece mi pare sia fatta invece propria dall’autore e usata come critica a me.
    In ogni modo, lo scritto conferma alcune cose.
    1)      Questi fautori della riforma Renzi-Boschi mirano proprio a superare il sistema del governo parlamentare (che invece Renzi dice di non toccare), arrivando a un sistema che preveda in sostanza l’elezione diretta del Premier, accompagnata da una formazione del Parlamento che assicuri la fedeltà della maggioranza di esso allo stesso Premier. E’ esattamente ciò che voleva la riforma Berlusconi del 2005, bocciata dal referendum. Oggi lo si prospetta “indirettamente”, attraverso l’Italicum. Infatti i partiti che presentano liste debbono indicare il nome e il cognome del “capo della forza politica” (art. 14-bis del testo unico Camera, come sostituito dall’art. 2, comma 8, della legge n. 52 del 2015: appunto l’Italicum). Il partito che, da solo, “vince” le elezioni (o col 40%, o prevalendo nel ballottaggio fra le sole prime due liste), conquista la maggioranza assoluta della Camera, e ovviamente non potrà non indicare il suo “capo” per l’incarico di Presidente del Consiglio, che il Presidente della Repubblica (nonostante l’ipocrita precisazione secondo cui egli mantiene le sue prerogative) non potrà non attribuirgli. Trattandosi del suo “capo”;  la rappresentanza parlamentare del partito non potrà che seguirlo: per di più, trattandosi del capo (segretario) del partito, egli avrà avuto molta influenza (per usare un eufemismo) nella formazione delle liste elettorali e quindi nella composizione della rappresentanza parlamentare del partito stesso.
    2)      Questo non è il “modello Westminster”, che presuppone due soli partiti, di cui uno prevalga necessariamente sull’altro alle elezioni, e in cui il Premier è quasi automaticamente il leader pro tempore del partito che ha la maggioranza alla Camera. In un sistema a più poli, non ha senso trasformare in maggioranza in Parlamento una sola minoranza (la più forte) nel paese, il cui capo diventa Premier, condannando tutti gli altri (anche se sono maggioranza nel paese) all’opposizione.
    3)      Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la “razionalizzazione” del governo parlamentare, di cui parlava l’ordine del giorno Perassi, che presuppone la formazione della maggioranza in Parlamento, e meccanismi per impedire che questa sia troppo “labile” e incoerente. Tali meccanismi sono quelli attuali (dimissioni del Governo solo a seguito di una esplicita mozione motivata di sfiducia, votata non prima di tre giorni e approvata con voto palese) e potrebbero essere altri ulteriori se li si volessero introdurre (obbligo di indicare il nuovo Premier nella mozione di sfiducia: cosiddetta sfiducia costruttiva).
    Quella secondo cui la Costituzione oggi configurerebbe un ”Governo debole” è una tesi inesatta. Il nostro Governo parlamentare è istituzionalmente forte, ha tutti i poteri per governare, compreso quello di decretazione d’urgenza (di cui fa uso ed abuso), e ha anche la possibilità di compattare la propria maggioranza attraverso la posizione della questione di fiducia in Parlamento. Se certi Governi (non certo l’attuale) sembrano deboli, non è per ragioni istituzionali, ma per ragioni politiche, legate alla “labilità” o alla non coesione della maggioranza che li esprime e li sostiene.

  5. L'ho ascoltato ieri sera a 8 e mezzo nel confronto con Maria Elena Boschi; tra numerosi elementi di dissenso mi è piaciuto il richiamo che ha fatto alla necessità che la politica affronti i macroproblemi (la messa in sicurezza del territorio) non limitandosi a chiedere deroghe ai vincoli europei. Diceva in sostanza: è chiaro che ci saranno costi enormi e poichè bisognerà trovare il modo di finanziarli vogliamo parlarne in maniera esplicita con i cittadini?

    Vedo commenti in cui lo si imputa di ingenuità e di aver fatto un autogoal, ma secondo me, su questo punto ha perfettamente ragione.

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