Assemblea costituente 4 – i grandi leader e un po’ di storia
Quella che segue è, dovuta al lavoro di uno storico, è una ricostruzione storica abbastanza dettagliata e obiettiva: materiale dedicato a chi abbia voglia di approfondire, di capire sia che sia propenso a votare sì, sia che sia propenso a votare no. Come vedremo l'Assemblea Costituente è stata una cosa seria, molto seria, ma in cui non c'è stato nulla di sacrale: c'è stato l'assolvimento dei compiti assegnati, ci sono state la riflessione sulle tragedie del 900 e sui limiti delle costituzioni del periodo prefascista,
A proposito dei confronti mi ha fatto una certa impressione leggere nei resoconti i richiami alla costituzione sovietica staliniana del 1936. I costituenti ne parlano bene e la citano, ma mica solo Togliatti, anche gli esponenti dossettiani. Mi sono chiesto ma quella Costituzione è coeva alle grandi purghe, ai gulag, alle deportazioni di massa, alla inesistenza reale dei diritti individuali … Già le Costituzioni nascono nella storia, fanno i conti con la storia e, a volte, riescono persino a lavare i panni sporchi in famiglia.
Lavorando sui discorsi dei Costituenti, e in particolare su quello di Piero Calamandrei del marzo 47 (dedicato alle cose insoddisfacenti del testo predisposto dalla commissione dei 75 e che pubblicherò prossimamente), mi sono reso conto della utilità, per chi legge, di disporre di un inquadramento, seppur sintetico della storia e dei lavori della assemblea: su cosa si discuteva, che decisioni venivano di volta in volta prese, su cosa c'era disaccordo, quali erano i reali protagonisti della discussione?
Il documento di inquadramento consentirà poi, a chi fosse interessato e volesse approfondire, di collegarsi al sito della Camera dedicato alla costituente e, utilizzando il motore di ricerca che si trova nella colonna di sinistra dei menu, ritrovare (operando sulla data) il discorso di suo interesse (si cerca una data e il motore fornisce i link ai discorsi dei diversi deputati di quel giorno).
Il testo è del professor Paolo Pombeni, professore emerito di Storia Contemporanea all'Università d Bologna; è un capitolo del suo testo pubblicato nel 1995 presso il Mulino e intitolato La Costituente. Il capitolo, opportunamente rielaborato dall'autore, è stato utilizzato per un corso di formazione organizzato dai circoli giovanili del PD di Bologna e da quei documenti l'ho estratto.
Ho inserito direttamente nel testo le note più significative, quelle che aiutavano a comprendere la argomentazione, mentre ho eliminato quelle di interesse prevalentemente accademico. Per facilitare la lettura ho anche spezzato il documento in paragrafi con una titolazione interna.
Paolo Pombeni – la Costituente
L’elaborazione della carta costituzionale fu un processo lungo e complesso. Inizialmente la durata della assemblea era prevista, a norma dell'art. 4 della legge istitutiva del 16 marzo 1946 n. 98, in un massimo di otto mesi dalla data della sua prima riunione (ma che si trattasse di un tempo massimo lo si evinceva dal passaggio che contemplava comunque lo scioglimento dell'assemblea il giorno stesso di entrata in vigore della nuova costituzione). Quando ci si rese conto che quella scadenza non poteva essere rispettata, l'assemblea stessa provvide alla sua proroga: una prima volta con la legge costituzionale 21 febbraio 1947, n. 1, che portava il termine di scadenza al 24 giugno; una seconda volta con la legge costituzionale 17 giugno 1947, n. 2, che prorogava i lavori fino al 31 dicembre.
Tuttavia quando entrò in vigore la nuova costituzione (1 gennaio 1948) divenne operante la norma transitoria n. 17, che prevedeva che la costituente restasse in vita, sia pure con poteri limitatissimi, fino al varo delle nuove Camere. In realtà il lavoro dell’assemblea cessò praticamente al 31 gennaio 1948.
Come abbiamo già avuto occasione di accennare, era piuttosto difficile immaginare che una assemblea di 556 membri potesse realmente elaborare un testo complesso come una carta costituzionale. Esauriti così i primi adempimenti formali e politici, cioè la nomina del proprio presidente nella persona dell'allora socialista Giuseppe Saragat il 25 giugno 1946, e la nomina del capo provvisorio dello stato nella persona del vecchio liberale Enrico De Nicola il successivo 28 giugno, si presentò il problema della organizzazione dei propri lavori 1. Fu il 15 luglio che la Giunta per il regolamento propose di attivare una commissione di 75 deputati per la «elaborazione, redazione e presentazione» di un progetto di costituzione.
Nel dibattito che la proposta suscitò nell'aula si discusse più che altro dei poteri di controllo del governo, ma infine la proposta fu accettata con la limitazione suggerita dal democristiano Giovanni Gronchi, che essa si occupasse solo della «elaborazione e proposizione» (l'intento era di evitare una troppo trasparente delega alla commissione, esautorando così ancor più esplicitamente l'Aula). La nomina dei commissari fu delegata al presidente Saragat che avrebbe dovuto tenere conto dei rapporti di proporzionalità fra i gruppi: in pratica i partiti furono lasciati liberi di nominare ciascuno la propria quota di rappresentanti senza interferenze reciproche. Il 19 luglio Saragat comunicò di essere giunto alla composizione della commissione 2 ed il giorno successivo essa si riunì eleggendo a presidente Meuccio Ruini.
Si trattava di un personaggio di grossa levatura, un alto burocrate che aveva esordito ancora in piena età giolittiana nel sindacalismo burocratico dei giovani tecnocrati, era passato poi nelle file del radicalismo condividendo alcuni aspetti della politica di Nitti (nel cui governo era stato sottosegretario), era rimasto confinato in ruoli di alta tecnica durante il fascismo, ed ora si trovava nella prestigiosa posizione di essere il nuovo presidente del Consiglio di stato. Politicamente Ruini si era collocato all'inizio nel piccolo ed indefinito partito della Democrazia del lavoro, una formazione improvvisata per dare una veste politica consona ai nuovi tempi ad un personaggio come Ivanoe Bonomi, il rappresentante della destra socialista espulso al convegno di Reggio Emilia del 1912, che si pensava dovesse dare un grande contributo alla rinascita del socialismo democratico. Alla costituente Ruini era stato eletto nelle liste della Unione democratica nazionale, il raggruppamento in cui si erano candidati molti rappresentanti storici del prefascismo, da Orlando a Nitti, Einaudi, Bonomi.
In omaggio agli equilibri politici vennero eletti tre vicepresidenti della commissione, che rappresentavano i partiti di massa: Umberto Tupini della Dc, Umberto Terracini del Pci e Gustavo Ghidini del Psiup. Segretari vennero nominati tre personaggi dei partiti minori, Tommaso Perassi repubblicano, Giuseppe Grassi della Unione democratica nazionale e Francesco Marinaro del Blocco nazionale delle libertà (un'altra formazione liberale). In verità nessuno di questi personaggi, con l'eccezione parziale di Perassi, giocò un ruolo di qualche rilievo nell'elaborazione delle linee portanti della costituzione, anche se alcuni di essi ebbero un certo peso sul piano politico: Terracini divenne il successore di Saragat alla presidenza dell'assemblea (8 febbraio 1947) e Tupini ebbe un certo ruolo negoziale dietro le quinte su questioni delicate per il suo partito, come ad esempio nel caso della questione sui Patti Lateranensi.
Vedremo tra breve la dinamica che si instaurerà per l'organizzazione del lavoro, e constateremo che altri protagonisti avrebbero giocato il ruolochiave. Quel che ci interessa esaminare in questo capitolo sono due momenti, a mio giudizio fondamentali, per capire l'idea di costituzione che le forze politiche si erano formate, gli obiettivi che si ponevano ed anche le radici di certe interpretazioni della costituzione che hanno pesato non poco sulla successiva storia del paese (soprattutto la leggenda del compromesso politico).
la prima sottocommissione e il tipo di Costituzione da proporre
Il primo momento riguarda la formazione all’interno della commissione della decisione sul tipo di costituzione da predisporre. Il secondo momento prende in esame l'ampio dibattito che l'Aula dedicò, dal 4 all'11 marzo 1947, al progetto generale di costituzione. Nella prima sede vedremo all’opera i costruttori dell'identità costituzionale, in un dibattito reso assai franco anche dalla mancanza di pubblicità; nella seconda vedremo questi stessi uomini ed una parte degli «esclusi» dal lavoro costituente (esclusi volontari come i leader politici, o involontari come gli intellettuali dell’Italia prefascista) motivare il loro atteggiamento verso il progetto di costituzione che si era andato costruendo (che, nella sostanza, diventerà effettivamente la nostra carta costituzionale).
La Commissione per la costituzione iniziò i suoi lavori effettivi il 23 luglio 1946: Giuseppe Dossetti presentò quasi subito, anche a nome di altri, una “mozione d'ordine” che riguardava un progetto di regolamento dei lavori. Interveniva così fin dall'inizio con una funzione di leadership un personaggio che certo nessuno si aspettava assurgesse a quel ruolo: un giovane professore di diritto canonico all'università di Modena (Dossetti aveva allora 33 anni, essendo nato nel 1913), già presidente del Cln di Reggio Emilia (realtà abbastanza periferica, peraltro), cattolico impegnato ed eletto alla costituente per la Dc (di cui era stato vicesegretario nazionale per un breve periodo), ma che non aveva mai rivestito cariche nelle grandi strutture del movimento cattolico organizzato.
Dossetti mirava ad evitare che la discussione si perdesse senza un filo conduttore su problemi generalissimi. Ci volle così ancora un giorno perché, sempre su iniziativa del costituente reggiano, si arrivasse alla formulazione del definitivo sistema di lavoro.
IL PRESIDENTE comunica che l'on. Dossetti gli ha rimesso un nuovo schema sul quale crede si potrebbe realizzare l'accordo. La ripartizione da lui proposta, che e stata accolta dall”on. Terracini, è la seguente. Prima sottocommissione: diritti e doveri dei cittadini tranne gli economici. Seconda sottocommissione: organizzazione costituzionale dello Stato; terza sottocommissione: diritti e doveri nel campo economico e sociale. Altri due principi sarebbero questi: 1) ogni sottocommissione, d'accordo con la presidenza, preciserà più analiticamente l'ambito della propria competenza e ne proporrà il piano alla commissione plenaria; 2) la ripartizione non vieta che certi problemi, su iniziativa della sottocommissione o della presidenza, vengano poi portati in commissione.
Mette ai voti questa proposta. (E’ APPROVATA).
La discussione del regolamento durò fino al 25 luglio e non senza difficoltà, perché non tutti i membri erano disposti a sottoporsi al tour de force che si prospettava (l'on. Ghidini, vicepresidente socialista, se ne lamentò, sostenendo il diritto degli avvocati a non dover perdere per la costituente la possibilità di seguire la propria attività professionale). Divenne subito evidente che il fulcro per l'elaborazione di quella che nei termini di Mortati definiremmo come «la costituzione materiale» (cioè il nucleo di “indirizzo” dell'attività costituzionale) sarebbe stato la prima sottocommissione, in cui si inserirono tutti i leader politici più rilevanti (non solo il gruppo dossettiano quasi al completo, Dossetti, Giorgio La Pira, Aldo Moro, ma lo stesso Tupini per la Dc, Lelio Basso per i socialisti, Palmiro Togliatti e Concetto Marchesi un famoso latinista, professore universitario molto noto e stimato per i comunisti, il marchese Lucifero per i liberali).
Anche qui i pareri sui lavori non erano unanimi. Nelle sedute dal 26 al 30 luglio cominciò ad emergere un certo accordo. LA PIRA ritiene necessario fissare il compito della sottocommissione nei seguenti termini:
definire un sistema integrale organico dei diritti della persona e dei diritti degli enti sociali compresi quelli economici in cui essa si espande... A suo avviso gioverà molto allo scopo riferirsi al tipo della Costituzione Sovietica, la quale va dal piano economico a quello culturale, fissando un sistema integrale di attività che comincia dalla base, dalla vita fisica, per giungere alla vita familiare, economica, amministrativa, politica, culturale, religiosa. Anche la costituzione di Weimar potrà in un certo senso essere ripresa, mentre occorrerà differenziarsi dal progetto francese che riecheggia il tipo di Costituzione dell’89 che ritiene debba essere da tutti respinto.
Per formare un indice dei lavori venne creata un'apposita sottocommissione (Basso, Cevolotto, Moro) che produsse un ampio schema. Illustrandolo, Moro difese il principio che la costituzione dovesse avere anche dei contenuti programmatici, perché «una costituzione deve avere anche valore di insegnamento per il popolo. Queste dichiarazioni di principio dovrebbero corrispondere all’orientamento antifascista che è comune a tutti i membri della commissione». La discussione fu ampia e vivace, mettendo in luce le contrapposizioni intuibili: i dossettiani che si battevano per una costituzione “organica”, Lucifero che voleva escludere qualsiasi materia fosse contenibile in leggi ordinarie, Togliatti che voleva una costituzione “documento storico e politico”, che recasse la condanna del regime fascista e un elenco di diritti di libertà concretamente tutelabili per via legale.
Ancora una volta Dossetti fece una proposta regolamentare che appianò il lavoro: «uno schema molto sintetico, che non pregiudichi le definitive soluzioni, nel quale distinguerebbe una prima parte, l'uomo e il cittadino, come titolo generale, comprendente tre capitoli: i rapporti civili, i rapporti sociali ed economici, ed i rapporti culturali; una seconda parte sulla famiglia, ed una terza parte sullo stato e sull’ordinamento giuridico››. Venne così stabilito che si preparassero delle relazioni (con due relatori ciascuna su ogni singolo argomento), da consegnare per il 27 agosto 1946 e che la sottocommissione si sarebbe riunita per discuterle a partire dal successivo 9 settembre. Questa la ripartizione delle relazioni: i principi dei rapporti civili (Basso, La Pira); i principi dei rapporti sociali (economici) (Lucifero, Togliatti); i principi dei rapporti sociali (culturali) (Marchesi, Moro); i principi dei rapporti politici (Mancini, Merlin U.); la famiglia (Corsanego, Iotti); lo stato come ordinamento giuridico (rapporti con gli altri ordinamenti: internazionale ed ecclesiastico) (Cevolotto, Dossetti).
I lavori si aprirono con le relazioni di La Pira e Basso sui diritti civili: in realtà La Pira presentò un'ampia relazione che fissava quella che, nelle sue stesse parole, veniva definita come l' “architettura costituzionale”. In essa veniva esposta
una compiuta teoria delle libertà, ma a partire dal presupposto che queste fossero precedenti e superiori a qualsiasi loro riconoscimento da parte dell’ordinamento giuridico. Diverso è il caso per la nuova costituzione italiana: essa è necessariamente legata alla dura esperienza dello stato totalitario, il quale non si limitò a violare questo o quel diritto fondamentale dell'uomo: negò in radice l'esistenza di diritti originari dell’uomo anteriori allo stato: esso anzi, accogliendo la teoria dei «diritti riflessi», fu propugnatore ed esecutore di questa tesi: non vi sono per l'uomo diritti naturali ed originari; vi sono soltanto concessioni, diritti riflessi; queste «concessioni» e questi «diritti riflessi» possono essere in qualunque momento il beneplacito di colui dal quale soltanto questi diritti derivano, lo Stato.
Nell'illustrare la sua relazione La Pira aveva approfondito ulteriormente il suo pensiero: proprio in presenza del precedente del regime fascista
era necessario chiarire nell’articolato costituzionale che non solo si andava oltre i diritti individuali dell'89, ma addirittura oltre i diritti sociali previsti nelle costituzioni del Novecento: «è necessario tenere conto delle comunità fondamentali, nelle quali l'uomo si integra e si espande, cioè dei diritti delle comunità». Solo così si sarebbe arrivati «alla teoria del cosiddetto pluralismo giuridico, che riconosce i diritti del singolo ed i diritti delle comunità e con questo ad una “Vera integrale visione dei diritti imprescrittibili dell'uomo››.
La Pira si spingeva molto in là su questo terreno: «L'ideale da proporsi in una società pluralista è appunto questo ideale organico, per cui ogni uomo abbia una funzione ed un posto nel corpo sociale, funzione e posto che dovrebbero essere definiti dal cosiddetto stato professionale, che fissa le posizioni di tutti nel corpo sociale››. Come si vede, non si trattava certo di posizioni da “compromesso” e difatti si ebbe una discussione vivacissima (Marchesi chiese conto apertamente a La Pira di vari rinvii al Vangelo ed alla dottrina cristiana). Lo stesso Togliatti, in un brillantissimo intervento, notò in La Pira un eccesso di ideologia e propose l’eliminazione dei richiami religiosi. Assai critici furono Giovanni Lombardo, Cevolotto, Lucifero, Caristia; con toni più moderati, anche Mancini.
A questo punto del dibattito interveniva Dossetti, notando che tutte le costituzioni avevano in un modo o nell'altro un presupposto ideologico (un punto sul quale l’altro relatore, Lelio Basso, era inizialmente perplesso). La proposta di La Pira, che pure Dossetti riconosceva potesse essere in vari punti «difettosa nella formulazione», «più o meno felice», ruotava attorno a dei punti precisi: «questo concetto fondamentale della anteriorità della persona, della sua visione integrale e dell'integrazione che essa subisce in un pluralismo sociale, che dovrebbe essere gradito alle correnti progressive qui rappresentate, può essere affermato con il consenso di tutti». Si noti che qui Dossetti rivendicava l'attrazione degli altri sulla propria posizione, che tuttavia era fondata su ciò che, a suo parere, poteva considerarsi un consenso unanime nella cultura contemporanea: “Dichiara che nessuno vuole affermare qui una ideologia e tanto meno una ideologia cattolica; se ci sono degli spiriti preoccupati di fare affermazioni fondate soltanto sulla ragione, crede siano proprio i rappresentanti del proprio partito, anche se talvolta nella forma questo può non apparire».
le precisazioni di Togliatti e di Dossetti
Nel prosieguo della discussione Togliatti, pur mostrandosi sensibile alle tesi dei dossettiani, propose di fare una costituzione che prescindesse dal richiamo diretto alle ideologie, fondandosi su ciò che unisce: «Poiché si parte da un'esperienza politica comune, anche se non da una comune esperienza ideologica, questo a suo avviso dovrebbe offrire un terreno d'intesa››. Tuttavia Dossetti non accettava questa riduzione della fondazione costituzionale all’antifascismo ed alla comune lotta di resistenza. Vale la pena di riportare l’ordine del giorno che egli stila per riassumere la discussione.
La sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell'uomo; esclusa quella che si ispira ad una visione soltanto individualistica; esclusa quella che si ispiri ad una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l'attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche, cui il nuovo statuto dell'ltalia democratica deve soddisfare, è quella che: a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali, ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo al servizio di quella; b) riconosca ad un tempo la necessaria socialità di tutte le persone, le quali sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà economica e spirituale; anzitutto in varie comunità intermedie disposte secondo una naturale gradualità (comunità familiari, territoriali, professionali, religiose, ecc.) e quindi, per tutto ciò in cui quelle comunità non bastino, nello Stato; c) che per ciò affermi l’esistenza sia dei diritti fondamentali delle persone, sia dei diritti delle comunità anteriormente ad ogni concessione da parte dello Stato.
All'apertura della seduta seguente, il 10 settembre, a cui era stata rinviata la discussione dell”ordine del giorno, Basso parlò per primo e contro il testo di Dossetti. Si dichiarò contrario all'idea di una anteriorità dei diritti della persona rispetto allo stato, ma chiarì di essere pervenuto a conclusioni non dissimili: un fatto non più di tanto strano, visto che era successo anche nel dibattito fra gli illuministi (Basso era un appassionato cultore di questa storia). “Del pari – aggiunse fra i presupposti ideologici dei socialcomunisti e dei colleghi che si sono trovati d'accordo con La Pira e Dossetti, vi è indubbiamente una notevole differenza, la quale può essere tuttavia superata facendo ricorso a quel patrimonio culturale comune, dal quale ciascuno ha tratto le fonti della propria convinzione».
Anche per l'intellettuale socialista la base d'intesa era dunque nel dibattito culturale del primo Novecento che, soprattutto nella crisi fra le due guerre aveva avvicinato molte posizioni. Così per Basso non era difficile superare l'individualismo in quanto “tutta la filosofia moderna ha superato nel concetto di personalità il concetto di individualità».
Ancora una volta il dibattito fu accalorato. Marchesi non rinunciò al riferimento erudito del “timeo Danaos et dona ferentes” dichiarandosi d’accordo con Basso sulla priorità dello stato. Si tratta di una citazione dall'Eneide di Virgilio: nel narrare della caduta di Troia, Enea ricorda la battuta di chi, dinanzi al grande cavallo di legno che doveva rappresentare un dono dei greci che se ne andavano, notava: «ho paura dei greci, anche quando portano doni››. Lucifero si oppose complessivamente all'impostazione che stava emergendo; Giovanni Lombardi aveva gia osservato che i diritti non si affermano, ma si conquistano nelle lotte; Cevolotto e Mastrojanni esprimevano anch’essi dissenso. Alla fine si decise per uno sforzo d'intesa fra i relatori, anche se Basso continuava a dire di non capire «perché si vogliano fare affermazioni di principio che non hanno in concreto alcun significato e che potrebbero rappresentare difficoltà d’interpretazione».
Come si vede, la scena non è affatto quella di un compromesso nel significato deteriore che si è voluto dare al termine. Il prosieguo della discussione mantenne sempre questi caratteri di vivacità, con forti spaccature (per esempio sulla questione dei diritti economici, dove ovviamente le tesi di Lucifero e Togliatti erano assai distanti, e dove si arrivò ad una spaccatura fra dossettiani e sinistre da una parte, e gli altri sul versante opposto). Si ebbero anche diverse posizioni fra i commissari di uno stesso partito (ad esempio Giovanni Lombardi e Lelio Basso si trovarono spesso su fronti opposti; Umberto Tupini si alleò con Lucifero contro Dossetti; Marchesi fece una certa fatica a seguire la strategia di Togliatti).
La linea vincente e i temi cari a Calamandrei
Non è qui possibile seguire in dettaglio questa discussione, ma quel che preme sottolineare e come alla fine si rivelò vincente l’impostazione che aveva voluto fare della prima parte della costituzione una nuova «carta dei diritti dell'uomo››. Questa idea si impose ad un gruppo di lavoro piuttosto riluttante, perché non si pensava possibile una simile impresa: ma molti alla fine si lasciarono prendere dal fascino della costruzione “architettonica” (per riprendere il concetto caro a La Pira). Non tutti si convinsero (basterà vedere più avanti l”intervento di Lucifero nel dibattito generale; ma si potrebbe richiamare anche la posizione di Cevolotto), però lo furono i membri più nutriti di dibattito storico-ideologico (i dossettiani, Basso, Togliatti) che imposero la loro superiorità intellettuale sugli altri, cui mancavano strumenti adeguati per elaborare una reale alternativa.
La questione si ripresentò ovviamente in sede di commissione plenaria: nella riunione del 25 ottobre 1946, in cui si discuteva “sulle direttive di massima per la redazione del progetto di costituzione›› vi fu subito la presentazione di un ordine del giorno stilato da Aldo Bozzi, ma sottoscritto anche da Lombardo, Cevolotto, Fanfani, Perassi, Calamandrei e Dominedò.
1) La costituzione dovrà essere il più possibile semplice, chiara e tale che tutto il popolo la possa comprendere; 2) Il testo della costituzione dovrà contenere nei suoi articoli disposizioni concrete, di carattere normativo e costituzionale; 3) La costituzione dovrà limitarsi a norme essenziali di rilievo costituzionale di supremazia su tutte le altre norme, lasciando lo sviluppo delle disposizioni conseguenti a leggi che non richiedano, per la loro eventuale modificazione, procedimenti speciali.
Su questo ordine del giorno si accese un dibattito infuocato: Dossetti lo giudicò «suscettibile di equivoci», mentre Mortati spiegò che «la materia costituzionale non può essere predeterminata, ma è qualche cosa che si pecisa di volta in volta, secondo gli interessi politici della classe dirigente, che provvede alla compilazione della costituzione».
Di segno del tutto opposto l'intervento di Calamandrei, che negò il carattere di norme giuridiche a molte di quelle elaborate: «Il punto controverso riguarda i diritti individuali: ritiene che si facciano più “desideri” e “programmi politici” che norme››. Il giurista fiorentino, che ribadiva la tesi secondo cui ci si illudeva di trovare nella costituzione «uno strumento adatto per facilitare, regolare ed indirizzare una rivoluzione da compiere», aggiungeva poi: “si tratta anche di vedere, al momento di formulare il programma di questa rivoluzione giuridica, se i vari gruppi politici rappresentati nell'assemblea siano tutti d'accordo su un determinato programma. Evidentemente questo accordo non sussiste».
Ovviamente in questo caso molte disposizioni costituzionali non sarebbero state «norme››: si faceva l`esempio del disoccupato che si rivolgesse al giudice per ottenere quel lavoro che la costituzione affermava diritto di tutti. Il timore di Calamandrei non era peregrino, ma non teneva in conto la forza dell'accelerazione storica, per cui chi ha un progetto intellettualmente forte e determinato riesce a prevalere su chi non ha alternative altrettanto convincenti.
Togliatti, che di questo si rendeva conto, insisteva sul fatto che l`Italia, per la sua «profonda trasformazione sociale», potesse seguire un «cammino differente» rispetto a quello classico della dinamica rivoluzionaria. Per questo difendeva l'idea del “carattere programmatico” della costituzione, mentre respingeva quella di confinare le dichiarazioni in un preambolo che i cittadini sentirebbero «fatto tanto per dare a una parte dell'opinione pubblica una soddisfazione di forma e nella sostanza lavarsene le mani››.
Forse però il puntochiave fu ancora una volta toccato da Dossetti, che nel suo secondo intervento mise in discussione proprio la tesi giuridica di Calamandrei:
la norma non era misurabile nella sua giuridicità col solo principio della sua «azionabilità» (cioè dal fatto che si potesse andare davanti ad un giudice per chiedere il rispetto o la restaurazione di quanto in essa previsto), ma a partire dal suo “contenuto di volontà”, cioè dal fatto che ponesse un'obbligazione a carico di qualcuno (e in questo senso le norme cosiddette programmatiche ponevano l'obbligazione sul legislatore e sull'amministrazione pubblica di operare per rendere effettivi quei diritti).
E interessante notare che in questo caso si ebbe alla fine un «compromesso›› nel senso deteriore del termine: l’ordine del giorno Bozzi fu approvato, sia pure con una dichiarazione di voto di Tupini che rendeva vaga la sua interpretazione, ma in realtà la volontà del nucleo motore dei costituenti della prima sottocommissione era più che mai determinata a procedere sulla strada indicata da Dossetti.
Non si può fare a meno qui di rimarcare la interessante posizione di Basso: per cultura giuridica (Basso era un avvocato) egli si trovava assai vicino alla posizione di Calamandrei ed infatti in quella seduta sostenne l'ordine del giorno Bozzi; ma per la sua cultura filosoficopolitica non riusciva poi a sfuggire all’attrazione per l’impostazione dossettiana, cooperando con passione al dibattito sulle parti programmatiche.
Del resto in una posizione simile si trovava lo stesso Calamandrei. Infatti nella famosa discussione sulla «azionabilità» delle norme, egli specificò, a proposito delle norme programmatiche (seguiamo sempre il verbale sommario): «Non ha quindi parlato per il desiderio di mettere queste proposte in soffitta; ha parlato soprattutto come componente della Seconda Sottocommissione. Se avesse appartenuto alla primo alla terza, probabilmente si sarebbe lasciato andare anche lui a quella voluptas legiferandi a cui si sono lasciati andare i colleghi di quelle sottocommissioni; ma nella seconda, alla quale spetta il compito di trovare i mezzi pratici, attraverso cui i diritti enunciati dalla prima e dalla terza debbono essere tutelati, bisogna non trascurare gli aspetti più strettamente giuridici delle questioni».
Lo si vide in maniera definitiva nella seduta della commissione del 28 novembre 1946, quando Calamandrei riprese la battaglia contro le norme “eticopolitiche” (presentando anche un ordine del giorno in materia), controbattuto da un magistrale discorso di Mortati sulla teoria della costituzione, nonché dalle consuete obiezioni di La Pira, Dossetti e Togliatti. Alla fine Calamandrei ritirava l'ordine del giorno, fatto però immediatamente proprio da Lussu che lo ripresentava: ma questa volta esso era respinto.
La questione del carattere programmatico da dare alla nuova carta era di fatto risolta, se pur nell’ambiguità: Calamandrei in fondo non aveva fatto altro che rilevare le contraddizioni persistenti rispetto a quanto aveva messo in luce l'ordine del giorno Bozzi, votato davvero come un compromesso deteriore; i dossettiani non avevano fatto altro che farsi interpreti di quella teoria «moderna›› della costituzione (di cui Mortati era il massimo esponente in Italia) che di fatto rispondeva al fondamentale quesito di legittimazione del nuovo ordine. Purtroppo l’ambiguità con cui si era raggiunto questo risultato e la sede interlocutoria in cui si era dibattuto lasciavano un’eredità che non avrebbe mancato di pesare sul futuro. Un ordine nuovo si legittima per i fini che promette di essere in grado di perseguire, non per il perfezionamento dei meccanismi di gestione dell'ordine precedente. Quando basta perfezionare l`esistente, non esiste domanda di nuova costituzione. Una banale verità storica, la cui conoscenza aiuterebbe gli uomini politici.
Il coordinamento tra le tre sottocommissioni – ela stesura del testo per l'Assemblea
I lavori della commissione, al di la di questa vicenda che abbiamo appena esaminato, furono assai intensi anche se svolti quasi integralmente in sede di sottocommissioni, con problemi di coordinamento anche complessi: soprattutto la terza sottocommissione fece fatica a decollare, intrappolata in una materia scarsamente gestibile e con un livello di personale politico di qualità inferiore a quello delle altre due. Amintore Fanfani svettava come il membro intellettualmente più preparato, ma il vero campo d'azione finiva per essere quello “teorico”, con inevitabili sovrapposizioni con la prima sottocommissione, sicché ad un certo punto fu persino creato tra le due un comitato di coordinamento.
Il problema finale che nasceva da questo metodo di lavoro fu, com’era prevedibile, quello del coordinamento e dell’omogeneizzazione dei lavori: per assolvere ad esso fu creato il 29 novembre 1946 un «comitato di redazione» che riuniva i membri dell'Ufficio di presidenza (Ruini, Terracini, Tupini, Ghidini, Grassi, Marinaro e Perassi) con un ristretto gruppo di rappresentanti dei partiti, scelti tra i più attivi e più originali membri della commissione (Ambrosini, Dossetti, Fanfani, Fuschini e Moro, per la Dc; Canevari e Paolo Rossi per il Psi; Grieco e Togliatti per il Pci; Calamandrei per il Pda; Cevolotto per i demolaburísti). Dal numero dei membri questo comitato venne definito come «Comitato dei Diciotto».
Non esistono fonti dirette sul lavoro di questo organismo, se non una scarsa memorialistica di protagonisti (soprattutto Calamandrei) che tendono ad esaltare il ruolo finale del comitato, nel cui seno si sarebbero trovati molti accordi e soluzioni. In realtà, a quel che risulta oggi dalle carte ritrovate e studiate da Sergio Bova non solo ai lavori parteciparono persone non comprese nei Diciotto, sia assiduamente (come Mortati sempre presente) che occasionalmente (come Basso), ma personaggi autorevoli coinvolti, come Dossetti o Fanfani, furono solo occasionalmente presenti.
Dal 4 febbraio 1947 la commissione non si riunì più in nessuna forma e tutte le attività ulteriori furono svolte dal comitato che integrò informalmente vari membri di essa. La discussione sul testo del progetto di costituzione iniziò solennemente il 4 marzo 1947, in un'Aula che peraltro non mostrava di apprezzare l’avvenimento, se il presidente Terracini, aprendo la seduta, si dichiarava «spiacevolmente sorpreso dei tanti vuoti che constato in ogni settore›› e si rammaricava «vivamente che la nostra discussione non si inizi alla presenza di tutti, o almeno della maggior parte dei membri della Costituente».
Per accordo fra i gruppi si era convenuto di limitarsi a 22 oratori (in media 2 deputati per gruppo) e di considerare comunque non valida per analogia quella parte del regolamento della Camera (fatto proprio dall’Assemblea costituente) che prevedeva che un esame generale di una legge impedisse l'analisi puntuale dell'articolato. Nonostante si fosse convenuto che la discussione sugli articoli avrebbe avuto ad oggetto principalmente degli emendamenti, di fatto essa fu vasta e in alcuni casi di natura assai generale (per esempio sulla questione dei rapporti tra stato e Chiesa).
Terracini finì il suo discorso con un richiamo alle difficoltà del presente:
È certo difficile, dopo tanta immensità di umiliazione nazionale, ritrovare d’un tratto quell'incrollabile equilibrio interiore senza il quale non può darsi alcuna consapevole e conseguente attività politica, e cioè attività in servizio del bene pubblico. Ma ciò che per tanti più prostrati dalla miseria e meno ferrati nel sapere, può essere ancora una meta da raggiungere, per noi che abbiamo osato accogliere l'offerta di farci guida del popolo per noi ciò deve essere, o dovrebbe essere, una meta già conquistata.
L'equilibrio auspicato dal presidente fu in una misura apprezzabile presente nel dibattito. Nonostante una certa passionalità, inevitabile, e nonostante il forte radicamento di identità di parte, nel complesso gli interventi mantennero un tono assai elevato e nella maggior parte degli oratori l'impegno verso l”argomento fu notevole.
Ovviamente, come vedremo nell'esame dei principali oratori, la grande divisione passò fra una ristretta minoranza (interpartitíca), che difese le ragioni profonde di quel momento costituente, ed una maggioranza (anch’essa trasversale agli schieramenti politici), che scelse di ribadire le diffidenze verso la presunta natura compromissoria del testo e di denunciarne altrettanto presunte debolezze declamatorie.
Le posizioni della destra: Lucifero
Toccò aprire il dibattito ad un rappresentante delle destre, il liberale Roberto Lucifero marchese d'Aprigliano, che era stato uno dei sostenitori della monarchia. In un intervento assai abile e ben costruito, egli esordì chiedendo una costituzione unitaria (“è ora che monarchici e repubblicani si ritrovino sulla strada comune della patria”›), con «leggi tali da poter rimarginare le nostre piaghe e sopire tutti i risentimenti››. A fondamento di questa riconciliazione Lucifero vedeva una costituzione fortemente garantista delle libertà, opponendosi ad ogni qualificazione del regime che si costruiva, poiché in ciò vedeva un vantaggio per i suoi avversari politici.
Nascevano così le efficaci battute contro l`antifascismo che si ergeva a sistema divenendo «un fascismo alla rovescia», mentre si proclamava: «oggi la costituzione deve condurci all’afascismo, verso quella concezione che resta liberale, perché è la concezione di uno stato di uomini liberi, la cui libertà è negazione del fascismo». Lucifero riconosceva l'esigenza di coniugare la libertà con ciò che egli chiamava “il problema della sicurezza, intesa come sicurezza economica e come sicurezza di vita dei cittadini”, ma ricordava che i totalitarismi avevano inteso già risolvere il secondo problema nella negazione del primo.
Così, di fronte ad una costituzione che definiva “interlocutoria” perché «non po[teva] rappresentare un momento storico, politico e morale chiaramente definito», l'esponente della destra liberale suggeriva di confinare in un preambolo tutte le dichiarazioni di principio (oltre tutto il preambolo era anche un’occasione di riproporre un luogo per una invocazione a Dio, che poteva far guadagnare voti nell'elettorato tradizionalista). Che il preambolo venisse ad avere una rilevanza minore, Lucifero lo ammetteva implicitamente quando, poco dopo, affermava chiaramente; «non vogliamo una costituzione programmatica››, cioè, a suo dire, una costituzione che dirigesse lo Stato verso un certo assetto socioeconomico.
A questo punto egli rilanciava il tema del compromesso, tanto circolato nell'opinione pubblica. “Questa costituzione è sorta da una serie di compromessi, fra tendenze e opinioni diverse, nelle quali si è perdonate il termine commerciato un po'.›› Ciò aveva creato «in tutta la costituzione un andamento “a montagne russe” perché si sente perfettamente quando ha ceduto l'uno e quando ha ceduto l'altro; e fra le varie cessioni esistono delle sproporzioni». Si era così andati ad «una serie di affermazioni ideologiche e, mi si perdoni, certe volte anche di affermazioni demagogiche››.
La demagogia si annidava ovviamente nei riferimenti ai lavoratori, nella promessa di promuovere condizioni di eguaglianza sociale. Con intuito politico Lucifero denunciava un limite assai reale: molte di quelle affermazioni «venivano da questa fissazione che qualcuno ci vuol mettere qualche cosa delle sue ideologie, forse per andare a dir fuori: questo l’ho messo io››. Pur riconoscendo l'inevitabile tributo alla passionalità dei tempi, ciò avrebbe portato a gravi equivoci per il futuro. Nella sua disamina Lucifero si lanciava poi in un'altra curiosa affermazione: “La costituzione è fatta per le minoranze e non per le maggioranze, per tutelare i pochi e non i molti. I molti non hanno bisogno di costituzione: hanno la forza». La formula aveva un'indubbia efficacia retorica, ma uno scarso fondamento storico, nonostante la fortuna che l'argomentazione ebbe anche presso altri
L'argomento era anche contraddittorio con l’altra grande assunzione che andava per la maggiore all’epoca, e che lo stesso Lucifero riprese, delle costituzioni come frutto di una rivoluzione compiuta. In questo senso, storicamente più vero, le costituzioni sono sempre state
un prodotto dei vincitori ed hanno tranquillamente ignorato i vinti. Le garanzie per le minoranze sono sempre garanzie per le minoranze interne ai vincitori, poiché le rivoluzioni sono sempre opera di una coalizione di forze. E’ una caratteristica delle costituzioni del Novecento
nascere quasi sempre da situazioni meno definite su questo piano e da coalizioni che includono, più o meno di buon grado, rappresentanti dell'antico regime: da qui una maggiore attenzione ai diritti di garanzia..
Si arrivava così a chiudere il cerchio del ragionamento: la costituzione «non è una buona costituzione», ma poiché le alternative non esistevano (nel corso dell'intervento Lucifero rivelava di aver lasciato cadere l’idea di scrivere un controprogetto), e poiché si doveva procedere alla «riconciliazione nazionale», il mezzo per restituire legittimità all'operazione era sottoporre il testo ad un referendum.
Calamandrei tra Lucifero e la maggioranza
Ci si sarebbe potuti aspettare una certa risposta a tesi come queste da parte di un personaggio come Calamandrei, che interveniva quello stesso 4 marzo. Invece il giurista fiorentino finì per esprimere ragionamenti in parte tangenziali con quelli del suo collega di destra.
Aprì dicendo che il testo «non è un esempio di bello scrivere: manca di stile omogeneo, direi quasi che manca di qualsiasi stile». La ragione era nel suo modo di nascita, per gruppi di lavoro collegiali, che avevano portato ad una collazione di pezzi (“ci sono in questi ingranaggi ruote di legno e ruote di ferro, pezzi di veicoli ottocenteschi e congegni di motore di aeroplano››). Ma era soprattutto in «cause storiche››:
La prima è questa: che questo progetto di costituzione non è l'epilogo di una rivoluzione già fatta; ma è il preludio, l'introduzione, l'annuncio di una rivoluzione, nel senso giuridico e legalitario ancora da fare. E la seconda ragione è un`altra: che sugli scopi, sulle mete, sul ritmo di questa rivoluzione ancora da fare, i componenti di questa assemblea, i componenti della commissione dei 75, i componenti delle singole sottocommissioni, non erano e non sono d'accordo.
Si aveva la riproposizione della tesi sostenuta nell'articolo su «ll Ponte» del 1946, che andava a rafforzare l’immagine di un lavoro costituente dove l’idem sentire de re publica era piuttosto limitato (“ognuno ha cercato insomma nella discussione degli articoli di togliere la paroletta altrui che gli dava noia”). Ma a questa si aggiungeva ora l’argomentazione giuridica che abbiamo visto sostenuta da Calamandrei in commissione.
Voi sapete che nella nostra costituzione, ad articoli che consacrano veri e propri diritti azionabili, coercibili, accompagnati da sanzioni, articoli che disciplinano e distribuiscono poteri e fondano organi per esercitare questi poteri, si trova commista una quantità di altre disposizioni vaghe... le quali non sono vere e proprie norme giuridiche nel senso preciso e pratico della parola, ma sono precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi, magari manifesti elettorali, che sono tutti camuffati da norme giuridiche, ma che norme giuridiche non sono.
Calamandrei proponeva così anch'egli un preambolo programmatico perché non si potesse gettare discredito sulla costituzione con il rilievo della inapplicazione di quelle norme. Per rafforzare il suo argomentare proponeva un tema indubbiamente indovinato: «guardate, una delle più gravi malattie, una delle più gravi eredità patologiche lasciate dal fascismo all'Italia è stata quella del discredito delle leggi; gli italiani hanno sempre avuto assai scarso, ma lo hanno quasi perduto dopo il fascismo, il senso della legalità» e ciò per il fatto della «slealtà del legislatore fascista, che faceva leggi fittizie, truccate, meramente figurative».
Nel suo appassionato ed ampio discorso Calamandrei spiegava le sue tesi con brillanti esempi, toccava punti controversi (come la questione sui Patti Lateranensi e quella sulla magistratura) e tornava a battere sullo “spirito di compromesso” che aveva animato i lavori. Si badi che nel giurista fiorentino questo problema si spostava su un'ottica diversa. Calamandrei infatti notava non solo (e forse non tanto) il compromesso ideologico, ma la debolezza di egemonia politica presente nel sistema. Egli denunciava, sia pure basandosi sul presupposto, che sarebbe stato di lì a due mesi smentito, di una lunga durata del “tripartitismo”, l'ottica di “coalizione” che reggeva la la distribuzione del potere.
Il Governo parlamentare come è stato accolto nel progetto, è un vecchio sistema che ha avuto sempre, come presupposto, l’esistenza di una maggioranza omogenea o la possibilità di formarla, la quale possa costituire il fondamento di un gabinetto, che possa governare stabilmente. Ma se invece si suppone che per molti anni, forse per decenni, non vi potrà essere un partito che riesca a conquistare la maggioranza da sé solo e che per un pezzo si dovrà andare avanti con governi di coalizione, allora bisognerà cercare strumenti costituzionali i quali corrispondano a questo diverso presupposto, che è, in luogo della maggioranza, la coalizione.
Lo strumento veniva indicato in una «repubblica presidenziale» e fu indicazione la cui mancata fortuna è nota.
Ma lo sguardo del giurista sulla trasformazione politica non si fermava qui: non era tanto il rilievo dato alla questione del partito politico (un tema che, come si riconosceva in questo discorso, Orlando stesso aveva evidenziato già alla Consulta), quanto la concreta proposta che si inserisse in costituzione non solo una regolamentazione sulla vita democratica di questi partiti (tema, questo, condiviso, come vedremo, da altri), ma addirittura un organo specifico (una sezione della Corte Costituzionale) a vigilare sul rispetto di questa funzione.
E’ curioso oggi rilevare che, in un piccolo battibecco che seguì queste affermazioni, Calamandrei finì per dire, ispirandosi ad un fatto di cronaca dell'epoca, che se questo compito non fosse stato svolto dall'Alta Corte, esso avrebbe potuto finire nelle mani di una magistratura ordinaria politicizzata.
L'autorevole esponente del partito d'Azione non parlava certo contro il lavoro che si stava svolgendo: in una chiusa ricca di pathos, che si richiamava alle sofferenze della lotta antifascista ed alla fede nella democrazia, affermava davanti ai morti il dovere «di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno››. Tuttavia le sue critiche e la sua impostazione del problema trovavano orecchi attenti anche in settori che la pensavano in maniera piuttosto diversa, ed infatti in molti interventi successivi al suo egli fu citato a conferma delle critiche che si rivolgevano alla costituzione.
Lelio Basso
A difendere il nuovo testo si levò il 6 marzo la voce di Lelio Basso, che mostrava qui di avere mutato impostazione rispetto a quanto aveva sostenuto agli esordi del lavoro costituente. Alle accuse che il progetto fosse frutto di un compromesso, il brillante leader politico ribatteva: «Se con questo si vuol dire che il progetto di Costituzione è il frutto di uno sforzo di diversi partiti per trovare un'espressione concorde che rappresenti l’espressione della volontà della grande maggioranza degli Italiani, questo non è un difetto».
Rivendicando la sua cultura storicista, Basso affermaa che «la costituzione non può rispondere ad un modello, non è mai una cosa perfetta, ma è una traduzione di realtà sociali che sono in atto in un determinato momento». Per questo si affermava che da socialisti non si riteneva una concessione sottoscrivere articoli come quelli sulla proprietà privata, essendo coscienti che ciò corrispondeva alle esigenze storiche del momento. Nessuno voleva una costituzione di parte, ma si voleva certo una carta che consentisse sviluppi futuri, lungo «due principi»,
- da un lato la difesa della persona umana che regimi tirannici hanno avvilito e sacrificato;
- dall'altro la coscienza, specie dopo il fallimento delle vecchie democrazie prefasciste, ché questa dignità umana, questa persona umana, questi diritti di libertà, non si difendono soltanto con gli articoli di una legge scritta sulla carta, ma traducendo in realtà effettiva gli articoli della legge, cioè sostituendo ad una democrazia puramente formale una democrazia sostanziale.
Basso considerava la parte del progetto che prendeva in considerazione i diritti «una giustapposizione del principio illuministico [individualista] del Settecento e del mazzinianesimo dell'Ottocento›› e, voce isolata, si spendeva ad illustrare il nuovo concetto di cittadinanza che sottendeva la costituzione. Seguendo la cultura, non solo marxista, della prima parte del XX secolo, egli tendeva a leggere nella classe operaia l'archetipo della nuova partecipazione sociale, quella che nasceva dalla dimensione del “lavoro collettivo”: “L’operaio sa che il suo lavoro, la sua opera, la sua stessa vita, assumono valore nell’armonia dello sforzo collettivo”.
Cessava la contrapposizione individuo-stato: “non concepiamo più l'uomo come individuo contrapposto allo Stato, ma, al contrario, concepiamo l'individuo solo come membro della società, in quanto centro di rapporti sociali, in quanto partecipe della vita associata”. Di qui una chiara conseguenza: la democrazia non si difende “limitando i diritti dello stato” od ostacolandone l’attività, «ma al contrario facendo partecipare tutti i cittadini alla vita dello Stato».
Lo stato era pensato come così importante e benefico che anche Basso si lanciava in una polemica contro la proposta di un ordinamento regionale: questo raccoglieva una avversione amplissima, assolutamente trasversale, tanto da far pensare che politicamente il solo nucleo veramente interessato ad esso fosse un settore della Dc e qualche repubblicano.
Quel che però qui più interessa è il proseguimento del discorso dell'uomo politico socialista, cioè la fondazione della nuova democrazia sui partiti, ossia sugli organismi che consentono «un esercizio direi quotidiano di sovranità popolare».
«Oggi il cittadino che deve occuparsi di politica, che vuole veramente partecipare all'esercizio della sovranità popolare, lo può fare ogni giorno, perché attraverso la vita del suo partito, la sua partecipazione all'organismo politico cui aderisce, egli è in grado di controllare giorno per giorno, d’influire giorno per giorno sull'orientamento politico del suo partito e, attraverso questo, sull’orientamento politico del parlamento e del governo.››
Era questo che Basso considerava, nel suo conciso discorso, come l'elemento dinamico che consentiva l'aprirsi di una nuova stagione.
Se noi riusciremo a tradurre nella carta costituzionale quei principi in cui si incontrano i più antichi motivi della civiltà cristiana, le più vive esigenze della democrazia e le più profonde aspirazioni del movimento socialista, noi avremo realizzato una grande opera... avremo veramente fatto qualcosa di un'importanza storica, avremo inserito nella vita dello stato le grandi masse lavoratrici, avremo cioè dato una garanzia di sviluppo democratico al movimento sociale.
Saragat e i partiti
Non erano però impostazioni di pensiero che avevano grande spazio. Se prendiamo ad esempio l”intervento di un altro leader che politicamente si apprestava a divenire un pilastro del sistema politico della nuova repubblica, Giuseppe Saragat, troveremo un'impostazione molto più banale, che si rifaceva semplicemente alla discrasia esistente fra cambiamento di regime politico e cambiamento di equilibri sociali, sicché si stimava inevitabile «un compromesso fra le forme tradizionali dell'economia privata e la forma nuova dell’economia collettiva››.
Saragat plaudeva (come faranno del resto tutti) alla democrazia sociale, ma sui partiti aveva un'idea piuttosto diversa da quella di Basso. In materia di sovranità popolare egli infatti osservava: “La volontà popolare deve essere prima di tutto estratta, devono crearsi gli organi per filtrare e tradurre questa volontà popolare. Tutto il meccanismo politico, tutto il meccanismo democratico è fondato su questo››.
A realizzare questo obiettivo (dunque: obiettivo di filtro) era il partito politico, «la vera forma di rappresentanza organica della democrazia». L'unico pericolo poteva venire dall’ “esclusivismo”, anticamera del totalitarismo, ma «la garanzia contro questo pericolo è rappresentata oggi, nella democrazia moderna, dalla pluralità dei partiti. Dove ci sono molti partiti c'è una specie di neutralizzazione di forze antagonistiche e di queste tendenze esclusivistiche››.
Emilio Lussu e la rivoluzione mancata
Ovviamente impostazioni di questo tipo finivano per essere riduttive, mentre suscitavano preoccupazione le osservazioni su «punti puramente politici» di un costituente come Emilio Lussu. Egli polemizzava tanto con la tendenza marxistaleninista, quanto con quella liberale, accusata di avere costruito uno stato a cui erano estranee le masse.
La nascita di una nuova forma di stato prevedeva certo un compromesso: «un compromesso fra le classi››, inevitabile in una “rivoluzione nazionale pacifica” che si imponeva nella situazione attuale: «Noi siamo usciti da una rivoluzione mancata; la rivoluzione del grande movimento partigiano, la rivoluzione del comitato di liberazione nazionale», ma questo imponeva di accettare ormai la «legalità democratica››. Doveva essere un imperativo per tutti, anche per quelle formazioni di sinistra che non potevano «adottare insieme le due vie››, la lotta dentro e quella fuori le strutture dello stato.
Affermato, in polemica con il democristiano Tupini, che “la democrazia moderna è socialista o non è democrazia”, si dichiarava peraltro d'accordo a confinare i principi generali in un preambolo, convinto com'era anch'egli che la questione fondamentale fosse quella delle egemonie politiche: fedele a questa linea, affermava che «a tutti i costi, a costo anche di non essere totalità, ma solo maggioranza, la nostra democrazia non dovrà mai rinunziare ad essere democrazia antifascista».
I liberali prefascisti: Nitti, Orlando, Croce
Sino a questo momento i personaggi più rilevanti intervenuti erano stati, se si eccettua Lucifero, uomini della nuova epoca. Eccetto Basso non si erano viste grandi difese del lavoro costituente: Tupini, vicepresidente della commissione, aveva svolto un intervento certamente consonante con l’impostazione del progetto, ma aveva indebolito le sue argomentazioni con un’aperta difesa delle posizioni confessionali della Dc, dai Patti Lateranensi alla questione del divorzio.
Questo clima aveva oggettivamente favorito non tanto gli attacchi dei personaggi minori, quanto le prese di posizione, pur tra loro assai differenziate, di tre “grandi” del precedente regime liberale, ossia Nitti, Orlando e Croce.
Il primo ad intervenire fu Francesco Saverio Nitti l'8 marzo. Il vecchio rappresentante di quello che, a suo tempo, era passato per un liberalismo radicale, fece un discorso aspro, pieno di risentimenti, volendosi ergere, senza successo, a censore dei tempi nuovi. Sin dall'inizio usò toni sgradevoli. «Dopo le grandi guerre, cambiare le costituzioni è nei tempi nostri destino dei popoli vinti››: questo il suo esordio. Insistette sul tema dell'Italia come paese vinto, sconvolto dalla guerra, che doveva preparare la costituzione in tempi difficili. Si lamentò di non essere stato incluso fra i redattori della costituzione. «Devo dire che sono dolente di non essere tra loro. Io credevo che l’onorevole Orlando ed io, se non altro per l'età e per l'esperienza, avremmo dovuto esserci, ma ci relegarono in quella commissione per i trattati internazionali, in cui veramente non si sapeva che fare››.
Poi iniziò con le valutazioni negative. I membri della commissione erano impari al compito, ma, nonostante questo, dei loro lavori si tenevano e pubblicizzavano verbali: «questa cosa che si è creduta importante non ha grande interesse né per il presente né per l’avvenire. Ogni discussione, su ogni argomento, veniva fatta forse senza preparazione sufficiente. Perciò questa enorme valanga di carte non sarà certo la curiosità dell'avvenire››. Negò che si fosse fatta opera storica (“di noi la storia non dirà niente», «le Costituzioni fatte in questo modo… non hanno possibilità di eternarsi”) e cavalcò, naturalmente, il solito argomento del compromesso: “la commissione, dunque, ha divagato spesso fra le cose più opposte; tra un lontano avvicinamento con una dialettica materialista ed un continuo e reale avvicinamento a una politica cattolica›”.
Più avanti parlò di un testo che voleva «contemperare le tendenze più opposte… il catechismo e la dialettica marxista». Poi passò agli attacchi per così dire più puntuali. Denunciò un testo che legittimava lo strapotere dell'assemblea (parlamentare) e di qui del governo e, attraverso questo, dei capi dei grandi partiti. Attaccò l'idea della Corte Costituzionale, “che io in verità non ho capito cosa voglia essere e prego qualcuno di spiegarmelo, e di dirmi a che cosa serva, e chi e perché l'ha inventata››. Venne infine ad un furibondo attacco contro l'istituto regionale che denunciò per la «strana e dannosa natura», lasciandosi andare ad un complicato discorso sui presunti costi economici dell'operazione, condito da un tentativo di fare una (pessima) lezione sulla storia costituzionale francese.
Orlando, che intervenne qualche giorno dopo, il 10 marzo, fece un discorso di tutt'altro stile e di tutt'altra statura. Si schermì d'intervenire avendo scelto il silenzio e disse di farlo solo perché “chiamato in causa più volte ed in maniera così affettuosa e cortese”; aggiunse di rammaricarsi d'esser stato chiamato maestro, pur dovendo riconoscere di esserlo, anche se solo con la «m›› minuscola (e ricordo che i politici più che altro s'infastidivano per la presenza di gente di questo tipo).
Diede prova della sua grande navigazione come osservatore e protagonista della politica, riempiendo il discorso di notazioni acute. «Dateci dei tecnici al governo: ecco l'invocazione imperativa dell'uomo della strada. Ora, signori, io ho sempre pensato e penso che in queste affermazioni ci sia un contenuto di errore, o meglio ci sia questo equivoco, che non si vuol comprendere: che il tecnico della politica è l'uomo politico››.
Al contrario di Nitti, Orlando lodava la commissione: «da buon maestro… in rapporto al documento che esaminiamo non solo esprimo approvazione, ma dò anzi lode agli autori, mentre, nel tempo stesso, faccio su di esso le più ampie riserve». Spiegava che la commissione aveva dovuto lavorare in fretta e collegialmente, e bonariamente faceva notare che «i modi e le forze con cui le costituzioni si attuano e si fanno valere sono determinati dal costume e dalle situazioni storiche piuttosto che da elaborazioni teoretiche›› (sicché sarà il tempo ad emendare la costituzione).
Poi arrivavano le zampate del vecchio leone. L’occhio allenato di Orlando intuiva subito che il piatto forte del dibattito era “l'ordinamento”, quella seconda parte del testo di cui nessuno aveva parlato. Il grande vecchio (86 anni) prendeva di petto la questione dell'organizzazione dei poteri: metteva in guardia sul fatto che quella repubblica si potesse definire parlamentare per la scarsa capacità di affrontare la questione dell'esecutivo. Egli richiamava la teoria inglese del King in Parliament e notava che né il capo dello stato né il vertice del governo erano veramente collocati nel parlamento, mentre al contempo se ne comprimevano i poteri.
“Il Gabinetto è il bilanciere di questo orologio, di questo cronometro, che è il sistema parlamentare, perché il Gabinetto, da un lato, è potere esecutivo, deriva dal Capo dello Stato, lo rappresenta, e d’altro lato, è Parlamento, ne fa parte, lo dirige, lo controlla, lo guida››.
Pur legato alle sue classiche dottrine sul governo di gabinetto, Orlando non errava nel cogliere un punto debole dell'elaborazione costituzionale del periodo, anche se il ritorno alle categorie del passato si presentava impossibile.
Il nostro stesso giurista si cacciava, rifacendosi ad essi, in un vicolo cieco: attaccava l'idea di assemblea nazionale come organo di fusione e superiore alle due Camere (un fantasma, che non aveva consistenza); attaccava a fondo l'istituto della Corte Costituzionale che non concepiva; condannava le regioni. Insomma il suo intuito era stato – paradossalmente più politico che giuridico.
Aveva infatti visto che «è veramente nel Primo Ministro che finisce col concentrarsi tutta l'autorità effettiva. Il resto è nominale», sicché in una situazione di «governo di coalizione», che si poteva immaginare normale, si sarebbe arrivati ad “un governo direttoriale: che suppone una pluralità di capi non fusi nell'unità direttiva, che deve essere propria dell’unità dello stato”. Poi Orlando passava ad esemplificare e qui, supponendo che il direttorio fosse identificabile nel trinomio De Gasperi Nenni Togliatti e lanciandosi in analisi storiche approssimative, disperdeva il frutto della sua notevole intuizione.
In chiusura veniva brevemente sulla prima parte della costituzione, anche qui bilanciando la sua posizione. Da un lato affermava di votare «toto corde tutta quella parte nuova di proclamazione di diritti che riguarda l'uomo non come individuo, ma l’uomo come membro di questa società» (e diceva di vedere anche la possibilità di un impegno dello stato a combattere i mali che la convivenza sociale aveva determinato); dall’altro però cercava di ricondurre tutto nell’alveo tradizionale delle affermazioni di libertà, uguaglianza e fraternità, che a suo giudizio dicevano già tutto e in forma più sintetica.
Si trattò tuttavia di un discorso abile ed a suo modo notevole, migliore non solo di quello che abbiamo già visto di Nitti, ma anche di quello, tutto sommato modesto, che Croce tenne l'11 marzo, limitandosi a rilevare che «le censure [avevano] superato i consensi», che gli autori erano troppi e il testo non era riuscito coeso, che c'erano compromessi (“i ben trasparenti negoziati accaduti tra i rappresentanti dei partiti”›).
Denunciava il regionalismo e la «partitomania›› e magnificava lo Statuto Albertino (quando lo si era correttamente applicato), perché «nella santa sua libertà ho potuto educarmi e imparare››. Tuttavia non recava alcun apporto interpretativo autentico, alcuna idea e neppure qualche intuizione che aiutasse a comprendere i difficili tempi del lavoro costituente.
Pietro Nenni, poca costituzione molta fretta
A rispondere veramente alla sfida che il vecchio liberalismo poneva alla costituente ed alle perplessità che circolavano in molti ambienti non fu l'ex ministro per la Costituente, che tanto si era battuto per questa struttura. Nel suo intervento, svolto il 10 marzo, Pietro Nenni non riuscì ad andare oltre un'impostazione tradizionalmente politica del tema.
Dopo avere ringraziato gli uomini che avevano cooperato al lavoro preparatorio (“presieduto [dal] giovane professore Massimo S. Giannini”) ed averlo brevemente richiamato, il leader socialista si lasciava subito andare ad uno slogan, quello dello stato unitario, democratico, laico e sociale. Commentando il primo punto si scagliava contro “quella specie di federalismo regionale, balzato fuori dalle improvvisate deliberazioni della Commissione che ha studiato l’attuazione del principio del decentramento amministrativo”.
In seguito se la prendeva con la Corte Costituzionale (dichiarando di non «spendere altre parole dopo quelle che sono state dette per mettere alla berlina la corte costituzionale››), negando che dei “laici” avessero titolo a parlare contro la rappresentanza (“per non essere essi degli eletti del popolo non hanno diritto di giudicare gli atti del Parlamento››).
Seguivano, inevitabilmente, polemiche in materia di Patti Lateranensi e di scuola. Per Nenni la concezione della politica era molto tradizionale: era il suffragio il fondamento di ogni potere e tutto ciò che vi si opponeva veniva guardato con sospetto: dalla materia referendaria (“ci si propone un vero e proprio abuso del diritto di referendum››), ad un eccesso nella difesa dei diritti delle minoranze (rilevava che «sarebbe una pessima costituzione quella che non consentisse alla maggioranza di attuare il programma in base al quale essa è stata mandata in Parlamento, e che i diritti della minoranza non possono andare fino al punto di rendere impossibile l’esecuzione del programma della maggioranza”).
Chiaramente Nenni parlava come un uomo convinto di avere in tasca le chiavi dell'egemonia politica. Spiegando lo slogan del suo partito «Dal governo al potere››, egli chiariva: «vuol dire convogliare la maggioranza delle elettrici e degli elettori in una battaglia che mandi al Parlamento nel prossimo autunno una maggioranza decisa a far sì che ognuna delle affermazioni teoriche contenute nella nuova costituzione divenga positiva e concreta››. L'oratore non si dichiarava del tutto soddisfatto del testo, ma, al contrario di altri, non si preoccupava troppo delle questioni di teoria costituzionale: «In fondo, come per tante altre cose, dipenderà da chi avrà il mestolo in mano, dipenderà dalla volontà che il Paese esprimerà attraverso le elezioni”.
La questione, insomma, era tutta politica, sicché in chiusura Nenni affermava: «abbiamo fretta che la Costituzione sia votata, abbiamo fretta che si indichino nuove elezioni», mentre nel contempo invitava il presidente dell'assemblea ad organizzare una manifestazione di sostegno popolare, sull'esempio di quanto era successo a Parigi il 10 agosto 1793.
Non era con discorsi di questo genere che si poteva fondare un patriottismo costituzionale, ma del resto Nenni non era un costituente nel senso proprio del termine. Il compito toccò così a due dei protagonisti di questo lavoro, il democraticocristiano Giorgio La Pira, professore di diritto romano a Firenze ed autorevole intellettuale cattolico, ed il comunista Palmiro Togliatti, non solo segretario del Pci, ma uno dei grandi «funzionari» che il movimento comunista internazionale aveva prodotto nella temperie della crisi fra le due guerre.
Giorgio La Pira: concezione pluralista e personalismo comunitario
Prendendo la parola l'11 marzo, La Pira articolò un intervento complesso, ampio (e mal tollerato per questo da un”Aula che voleva finire i lavori e che, probabilmente, non riconosceva in lui quel grande personaggio cui si consente respiro oratorio), ma soprattutto impegnato a dar conto della filosofia costituzionale del progetto.
Sin dall'inizio egli legava «crisi costituzionale›› e «crisi storica››: un modo di ragionare che, come ho accennato nei primi capitoli, risaliva ai prodromi del liberalismo (da cui l'oratore pensava di essere lontanissimo) e che egli aveva assorbito attraverso l'opera di Taine. Naturalmente su di lui aveva influito anche la cosiddetta «letteratura della crisi›› degli anni Venti e Trenta (da Huizinga a Spengler, che egli richiamava): poteva così affermare che «esiste un sommovimento sociale, che va alla ricerca di nuove formule giuridiche», in quanto la costituzione non era che “la veste giuridica del corpo sociale”.
La crisi andava dunque letta alla luce di questo divario fra costituzione e società. Per questo erano crollate le costituzioni italiane precedenti: quella fascista («una costituzione c'è stata, se non scritta, tuttavia elaborata nelle sue parti essenziali dal regime fascista») e quella anteriore «di tipo individualista, derivata dal 1789». La prima, «di tipo, chiamiamolo così, hegeliano», negava ogni esistenza di diritti prima della sanzione statale. La Pira acutamente notava che questa teoria dei diritti derivati veniva dal “diritto positivo tedesco… anche prima di Hitler», e aggiungeva che questo non riguardava solo la persona umana, ma anche gli enti sociali, che in quell'ottica venivano presi in considerazione solo se trasformabili in organi dello stato.
Quanto alla costituzione che egli definiva individualista e che riportava all'archetipo del 1789, gli sembrava che essa, pur avendo il merito storico della «affermazione vigorosa dei diritti dell'uomo», fosse “una carta monca” in quanto aveva considerato l'uomo atomisticamente ed aveva causato «il crollo della vita associata››, con la conseguente (per lui) formazione del proletariato. Superare questa situazione teorica era possibile, secondo l'intellettuale cattolico, solo cambiando ottica: “mi richiamerò ora alla concezione detta dai francesi, con parola molto efficace, la concezione pluralista”.
Con ciò, come aveva chiarito durante i lavori della prima sottocommissione, egli si richiamava ai lavori di giuristi come Léon Duguit e Maurice Hauriou, poi recepiti dalla pubblicistica politica francese del primo dopoguerra, proponendo che il pluralismo della società (che «si sviluppa organicamente in una serie ordinata e crescente di entità sociali che vanno dalla famiglia alla comunità religiosa, dagli organismi di classe alle comunità del lavoro e che si coordinano nello stato››) trovasse riconoscimento in quello che egli chiamava pluralismo giuridico.
Alla base di questa proposta vi era il ritorno ad una netta distinzione fra lo stato e la società (quella distinzione che il secondo liberalismo, quello giuridico continentale della seconda metà dell”Ottocento, aveva negato): “lo stato è l'assetto giuridico di tutta questa società, ma non l'assorbe: soltanto la dirige, la coordina, la integra e, dove è necessario, la sostituisce››. Ed a rafforzare questo suo orientamento citava una frase di Proudhon: «tra l'individuo e lo stato io vorrei costruire un mondo››.
Dunque per La Pira si poteva fare una nuova carta dei diritti dell'uomo, cui egli aggiungeva l'aggettivo di «integrale»: un aggettivo che voleva essere pregno di significato (integrale in opposizione a parziale) e che fruttò invece a lui ed al gruppo dossettiano l’insultante qualifica di «integralisti››: un'accusa, come vedremo da questo stesso testo, infondata.
La Pira ricordava che questo tema «fu largamente dibattuto nell'opinione pubblica francese». In sottocommissione aveva citato Mounier, che effettivamente pubblicò un articolo dal significativo titolo Faut-il refaire la déclaration des droits?, cui si aggiungeva una Déclaration des droits des personnes et der communautés, originariamente pubblicata su «Esprit» nel dicembre del 1944. Un ulteriore esempio di questo dibattito è riportato nel «Bollettino di informazione e documentazione del Ministero per la costituente», che nel numero del 20 gennaio 1946 riprendeva un articolo di André Philip (professore di diritto alla Sorbona ed ex ministro con De Gaulle) in cui si affrontava il terna della nuova dichiarazione dei diritti che doveva superare l'impostazione del 1789, ma anche quello della costituzione sovietica (l'articolo era stato originariamente pubblicato in Francia nel settembre del 1945).
Chiedendosi in chiusura se con la sua esposizione egli mirasse ad un testo ideologicamente ispirato alla sua parte (svolgeva con ciò anche una risposta alle obiezioni di Nenni), La Pira espose la teoria tomista del gratia non destruit naturam. Secondo quest'ottica vi era una consequenzialità senza problemi fra la natura umana rettamente intesa e la nuova natura dell'uomo toccato dalla rivelazione divina: un discorso fondato su basi di ragionamento puramente umane, quale egli era convinto di fare, non aveva problemi di rapporto con la rivelazione religiosa, che veniva intesa come un completamento e non come un rovesciamento della ragione umana.
Per questo egli rimaneva convinto di aver potuto fare un onesto lavoro d’insieme con gli altri costituenti (“io ho visto nelle commissioni, delle quali ho avuto l’onore di far parte, questa buona volontà di cercare i punti di contatto, i punti di passaggio, i punti di organizzazione”) senza alcuna forma di commercio o compromesso.
Il discorso di La Pira, colorito nell'argomentare, che ovviamente toccava anche punti culturalmente controversi, come la questione dei Patti Lateranensi, la cui menzione nel testo costituzionale egli difendeva, e che si concludeva, nello stile tipico di questo personaggio, con un appello alla costruzione comune, ma anche alla benedizione di Dio e della Vergine, era senz’altro più fine e più giuridicamente argomentato di quanto non lasciassero sempre intravedere le sue modalità espressive.
Palmiro Togliatti, un politico in grado di comprendere
Non era però tale da poter essere recepito immediatamente da una cultura media piuttosto distante da queste ottiche e da una opinione pubblica intellettuale in cui ogni settore parlava il proprio dialetto. Consapevole di questi problemi, Palmiro Togliatti interveniva praticamente alla fine del dibattito 40, ma con un grande discorso di impostazione strategica che aveva l'ambizione di rispondere a tutto quanto si era sin allora dibattuto,
Il leader comunista mosse dall’ovvio problema circa quale fosse la costituzione di cui l'Ialia aveva bisogno.
Subito prese in considerazione l'obiezione di Nitti e rispose che non i vinti in quanto tali cambiavano costituzione, ma che ciò avveniva «perché si afferma in questo momento il principio della responsabilità dei popoli per la loro storia e per il loro destino».
Si trattava di una constatazione importante, poiché consentiva a Togliatti di misurarsi con la questione del fascismo: la costituzione nuova si faceva «tenendo conto di quello che è accaduto, cioè tirando le somme di un processo storico e politico che si è concluso con una catastrofe nazionale». Ma a questa considerazione, che era stata avanzata anche da altri, veniva ora aggiunta una precisazione: si era trattato «in pari tempo del fallimento di una classe dirigente», che aveva commesso un errore fatale, rivelandosi così «come classe non più nazionale, perché nazionale è soltanto quella classe che quando difende le proprie posizioni e afferma sé stessa, difende e afferma gli interessi di tutti gli uomini». Rivolgendosi direttamente agli esponenti del vecchio liberalismo, aggiungeva: «io sento rispetto, e anche più che rispetto per gli uomini che siedono in quest'Aula e che appartengono ai gruppi che furono parte integrante di questa vecchia classe dirigente. Non ho nessun ritegno a rivolgere loro, per certi aspetti della loro attività, l'appellativo di maestri».
Dichiarava però subito dopo: «voi non foste all’altezza di questo compito [di opposizione al fascismo nascente], e non è per caso che non avete trovato gli accenti che allora era necessario trovare››. Questa premessa serviva a Togliatti per puntualizzare il tipo di garantismo che voleva nella nuova carta: «garanzie per l'avvenire. Vogliamo che quello che è avvenuto una volta non possa più ripetersi».
L'altro tema importante era quello del compromesso costituzionale. «In realtà noi non abbiamo cercato un compromesso con mezzi deteriori››, chiariva il segretario del Pci, precisando: «per lo meno in quella parte della Costituzione alla cui elaborazione io ho cercato di partecipare attivamente››. Si trattava di una notazione importante, poiché, più avanti accusava che “nella redazione definitiva del testo costituzionale in alcuni punti si sente l'infuenza di questo metodo deteriore di compromesso››, anzi un «deteriore spirito di compromesso verbale››, che aveva annacquato i testi usciti dal lavoro delle commissioni.
L’accusa era certo rivolta all'opera del comitato di redazione, dove Ruini aveva lavorato per ampliare le basi d'accordo con un forte metodo negoziale fra i partiti. Ma ora a Togliatti premeva mettere in luce che non compromesso vi era stato, ma ricerca «di arrivare ad una unità, cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse». Per la verità, quasi subito il leader comunista riduceva questo processo a due sole componenti: il «solidarismo umano e sociale» di socialisti e comunisti e quello «di ispirazione ideologica e di origine diversa›› dei cattolici.
Chiuso questo capitolo, si passava al confronto con i giuristi “che nel nostro lavoro non ci hanno dato grande aiuto››. Si prendeva di petto la questione con Orlando e per di più scendendo sul terreno più tipico della scuola giuridica italiana classica: quello del parlamentarismo. Riconosciuto che Orlando aveva ragione su vari punti, Togliatti malignamente osservava che il vecchio giurista «cercasse qualcosa che noi non abbiamo voluto mettere nella costituzione: che ella cercasse il re››.
Qui in effetti si toccava un nervo scoperto per entrambi. Effettivamente Orlando riproponeva il problema classico del potere esterno moderatore ed equilibratore che la dottrina liberale aveva individuato (errando) nella monarchia britannica, anche se non intendeva necessariamente parlare di un re. Ma Togliatti all'opposto si dava ad una apologia del parlamentarismo assoluto, nella più pura tradizione del radicalismo continentale ottocentesco.
In quest'ottica arrivava a ritenere «una bizzarria» la Corte Costituzionale, accusando di voler scardinare l'istituto parlamentare «con tutto questo sistema d’inciampi, di impossibilità, di voti di fiducia, di seconde Camere, di referendum a ripetizione, di Corti Costituzionali, ecc.››.
Si rammaricava invece che non si fosse affrontato il sistema dei controlli, ma anche qui per denunciare la funzione di freno che avevano Corte dei Conti e Consiglio di stato, organismi che peraltro erano stati proni o inefficaci durante la dittatura fascista. Tralasciando in questa sede la questione dei Patti Lateranensi, cui è dedicato ampio spazio, veniamo al passaggio assai polemico contro le regioni. Se poco prima Togliatti aveva visto “l'ordinamento autonomistico” come un possibile snodo riformatore dello stato, sulle regioni lanciava strali infuocati: «Ma vogliamo proprio fare dell'1talia uno Stato federale, creando tanti piccoli staterelli che lotterebbero uno contro l'altro per contendersi le scarse risorse del paese?››. Parlare di autonomia per Togliatti significava, secondo la vecchia ottica socialista, parlare di città.
Concludendo il suo discorso, il leader comunista difendeva l'impostazione programmatica data alla nüova carta, riproponendo quell'ottica delle «trasformazioni profonde nell'organismo economico della nazione nell'interesse delle masse lavoratrici e di tutti i cittadini››: ritornava cioè su un tema classico della propaganda delle sinistre, rammaricandosi anche che la costituente stessa non avesse fatto nulla al proposito.
Infine Togliatti ritornava alla storia per affermare che «noi siamo qui… gli esponenti di un grande movimento nazionale liberatore, movimento che trae i succhi della propria esistenza dalle migliori tradizioni di vita e dalla storia del nostro paese: le tradizioni liberali e democratiche», ma anche per richiamare la novità della classe dirigente socialista e comunista, ma pure democraticocrístiana, in quanto «esponente delle masse lavoratrici››, nuove protagoniste della storia. Con questo abile discorso il segretario del Pci compiva un'operazione strategica: si appropriava dei meriti della strategia costituzionale nella parte programmatica, che non era nata prevalentemente dal suo contributo, ma da quello della sinistra democristiana, prendeva al tempo stesso le distanze dallo schema organizzativo che ci si proponeva di dare al nuovo stato democratico, denunciandolo, sia pure senza forzare troppo i toni, come un frutto della tattica di contenimento che le forze del vecchio sistema esercitavano contro l'inevitabile predominio dei partiti popolari.
Si può capire la fortuna che in seguito troverà questa impostazione, anche fuori dall'area culturale che gravitava attorno al partito comunista, se si considera che essa era l'unica ad usare (al contrario dell°interpretazione dossettiana) un linguaggio che avesse radici nella storia culturale del nostro paese.
Meuccio Ruini, quello che ha messo insieme le cose
Una difesa impostata su altri criteri fu tentata, in modo altrettanto abile, dal presidente della commissione, Meuccio Ruini. Il suo fu un intervento iniziato sottotono, presentando il suo lavoro modestamente come quello di un “notaio”. Si lamentò bonariamente che “le parole corressero”, accennò alle polemiche sui «Soloni» dicendo che «il [suo] destino [era] quello di essere il Licurgo del confusionismo italico››. Ricordò che la costituzione era inevitabilmente una legge complessa, in parte giuridica ed in parte eticopolitica.
Ma poi affrontò di petto i nodi del problema. Prese le mosse dall'annosa questione del “compromesso” («ripetuta come un ritornello››) e, dopo aver citato l'elogio che ne faceva Gandhi, affermò con forza due punti: «le grandi idee animatrici debbono accompagnarsi col senso della realtà, della concretezza, delle possibilità effettive››; “non vi sono state trattative esplicite, ma accostamenti nella discussione», «compromessi storici che si delineano da sé stessi».
Passò quindi ai temi suoi propri, quelli dell'organizzazione costituzionale dello stato. Qui rivelò la sua statura di grande professionista del potere pubblico, profondamente nutrito di dottrina. Difese innanzitutto la struttura dei diritti, che coniugavano sovranità popolare e stato di diritto, arrivando ad includere in essi anche i diritti del lavoro, sanciti “come orientazione democratica, non come programma rivoluzionario”.
Ma il vero nodo era l'accusa di Orlando contro il parlamentarismo assoluto: era qui che si concentrava il grande dibattito giuridico fra Otto e Novecento, in cui lo stesso Ruini era stato coinvolto, sia come tecnico che come uomo di governo, nella tormentata fase del primo dopoguerra. Qui il presidente della commissione si poneva l`ambizioso obiettivo di essere ponte fra le generazioni: «Noi vecchi della democrazia dobbiamo ammettere e far nostro il motto di Jaurès “il fiume non rinnega le origini quando vai alla foce”.
E così ad Orlando svelava l'arcano:
«Se ben guardiamo, il governo parlamentare è un arco lanciato fra due piloni; uno di questi è la sovranità popolare, l’altro era la sovranità regia››. Ora invece, “caduto uno dei due piloni, occorre adattare questo regime in clima di Repubblica e di democrazia». Il problema stava tutto in questo e la risposta non era risultata facile.
Nella tempesta che noi attraversiamo non abbiamo creduto di abbandonare lo schermo del governo parlamentare e di Gabinetto, che ha dato la libertà nell'800; ma abbiamo sentito la necessità di inserirlo nel quadro della Repubblica, di mettere meglio le sue radici nella sovranità popolare, senza avventurarci in forme di governo d'Assemblea, che non hanno fatto buona prova.
Tuttavia Ruini non riusciva poi a trovare una chiave veramente legittimante per spiegare questa nuova forma di contemperamento. Difendeva il referendum come istituto che andando alle fonti della sovranità popolare poteva bilanciare il prepotere partitico; e difendeva il bicameralismo, pur ammettendo che si potessero presentare varie opzioni a questo proposito.
Il problema della “sovranità” tornava ad emergere nella figura del capo dello stato. Qui Ruini negava che il presidente della repubblica fosse quel «fannullone›› che era parso ad Orlando e per dimostrarlo riproponeva per questa figura quel classico potere di supposto arbitrato istituzionale fra il suffragio e la rappresentanza, che abbiamo già ricordato essere teoria del liberalismo classico: «Basta pensare alla facoltà di sciogliere le Camere, che è decisiva; né si dica che occorre la controfirma del Capo del Governo. E’ uno dei casi in cui per correttezza costituzionale la controfirma non sarà rifiutata; io poi personalmente ritengo che potrà essere nominato un nuovo Capo del Governo».
Ma il ragionamento non si fermava qui, poiché si aggiungeva che «il Presidente della Repubblica ha funzioni, meno definite, e perciò più ampie, di persuasione, di equilibrio, di supremo arbitrato, che possono essere utilissime al paese». Solo che a questo punto nasceva l°inevitabile problema della sorgente di legittimazione di un tale potere: ad Orlando che incalzava a dire che allora ci vorrebbe un presidente eletto dal popolo, Ruini ribatteva, quasi candidamente: «Anche io lo preferisco. Si ristabilirebbe un po' di fronte al Parlamento, l’altro pilone del regime di Gabinetto».
Era una constatazione impeccabile, ma che certo apriva un fronte politico assai difficile, come riconosceva lo stesso presidente della commissione: «Vi è contro, lo ha detto un collega, lo spettro di Cesare, di Bonaparte, di Hitler, ed è una preoccupazione che in molti prevale su ogni altra››. In fondo questo passaggio era rivelatore: sulla parte programmatica era stato possibile trovare un'intesa, la stessa parte dei diritti aveva alla sua base una communis opinio assai vasta (lo stesso Orlando aveva ammesso l°inevitabilità storica del riconoscimento dei diritti del lavoro); la parte sull'organizzazione dei poteri era ancora ferma nelle sabbie mobili del dibattito degli anni Trenta fra fautori del dirigismo governativo e difensori delle libertà delle assemblee rappresentative.
Qui non si sapeva come fondare le garanzie: Ruini stesso, nel ribattere sui punti più delicati a questo proposito (la regolamentazione pubblica dei partiti; la Corte Costituzionale), dava risposte di buon senso: difficile capire come si potevano controllare i partiti ed i loro fondi; la Corte Costituzionale era solo un organo tecnico necessario, poiché con una costituzione rigida ci doveva essere qualche organo a dirimere la questione della conformità della legge ordinaria a quella costituzionale.
Il vecchio e sperimentato giurista poteva giustamente compiacersi del miglior lavoro fatto dalla costituente italiana rispetto alle parallele costituenti francesi, ed a vanto del suo lavoro poteva quasi concludere: «Non so come si possa far credere totalitaria e rivoluzionaria questa forma di Costituzione, che si propone all'Italia, e che, sono sicuro, finirà con l’essere riconosciuta liberale e democratica››.
Tuttavia egli doveva anche implicitamente ammettere la legittimazione debole che questo tipo di lavoro (ed il dibattito che lo aveva riassunto) trovavano in un'opinione pubblica divisa fra l'indifferenza verso la politica ed il fervere delle ragioni di parte. «Il Paese finora si è scarsamente interessato; si appassionerà, credo, domani di più, e sentirà che questo è un atto fondamentale per la sua vita e per il suo avvenire». Parole non completamente profetiche, ma che pure lasciavano intravedere uno squarcio di futuro.
(4 continua) – I precedenti articoli sono
Assemblea costituente 3 – Calamandrei e la governabilità
Assemblea costituente 2 – la relazione di Ruini
Assemblea costituente 1 – la struttura