il figlio della Raggi in Campidoglio
La cerimonia di insediamento della sindaca di Roma ha visto un bambino – il figlio di Virginia Raggi – sulla sedia del sindaco. Quel gesto ha rappresentato plasticamente i miti e i riti della politica contropolitica.
I miti: quelli della democrazia diretta e dell’”onestà, onestà”. Apro parentesi: l’uso dei termini “politica contropolitica” è solo il tentativo di bypassare la categoria molto “estesa” e perciò poco “intensa” e poco esplicativa di “populismo”.
La politica non riesce mai ad essere “antipolitica”, può essere eventualmente contropolitica, cioè contro-dipendenza dalla politica. Con quella categoria si intende, appunto, sottolineare che il populismo è pur sempre una politica, una sua variazione estrema, dentro l’arcobaleno della politica come attività intellettuale e pratica che costruisce o distrugge la Città.
La collocazione provvisoria di un bambino sul più alto scranno dell’Urbe è assai più di un innocente gioco infantile. Intende segnalare che è caduto definitivamente il diaframma che separa società, famiglie e persone dalle istituzioni. Fine della separatezza. Fine dell’intermediazione spessa e opaca tra società e istituzioni.
Dallo scranno più alto fino alla Sala consiliare, piena di eletti, famiglie di eletti, militanti, amici e piccoli gruppi vocianti, si è voluto plasticamente incarnare la contro-politica, la cui prima caratteristica, ma si potrebbe dire l’essenza, è che il popolo abita direttamente le istituzioni. Non “il popolo sovrano”, quale è definito nella Costituzione e nelle Leggi, sedimentate nelle Istituzioni politiche e amministrative, ma “il popolo al naturale”, con le sue passioni, i suoi interessi, i suoi istinti.
ideologia e tecnocrazia: la cuoca di Lenin può governare
Obbiettano i benpensanti: tutto bene, ma che succede quando il popolo esce dal Campidoglio e torna a casa, mentre i gangli strategici della città debbono continuare a funzionare: dalle strade, ai taxi, ai vigili, all’Amministrazione intera?…
Risposta: a questo pensano gli staff, gli esperti, i saperi specialistici, l’amministrazione. Si profila una singolare, tutt’altro che nuova, dicotomia: la politica come visione-ideologia e la tecnocrazia come governo reale, ma neutro, perché sorvegliato a vista dal politico visionario, portavoce del “popolo-nature”. E il popolo? Non può stare seduto permanentemente in Campidoglio. Ma può usare il computer o gli smartphone per accedere alle informazioni, dire un Sì o un No, farsi vedere, insomma. La cuoca di Lenin può cucinare, ma anche governare.
la politica dei 5 stelle non rappresenta il popolo, ne prende il posto
Tutti sono al corrente, anche senza l’uso degli smartphone, dell’esito di questa utopia di Rousseau-Lenin: la politica ha cessato di rappresentare il popolo, lo ha semplicemente sostituito; l’amministrazione ha generato al suo interno una classe sociale burocratica – questa l’analisi lucida di Trotski – alla quale la politica ha periodicamente tagliato la testa, non metaforicamente, sempre vedendola ricrescere.
Quanto al popolo di Roma, si troverà ben presto nella condizione di scoprire che la mediazione rappresentativa, cacciata dalla porta, rientrerà dalla finestra. E infatti, la scelta degli assessori è stata già il frutto, tutt’altro che trasparente, di mediazioni interne ai clan del M5S. E non basteranno i circenses informatici per togliere di mezzo l’intermediazione necessaria del M5S, qualsiasi cosa stia dietro la sigla. Dunque non “disintermediazione versus politica”, ma politica versus politica e perciò, “politica contro politica”.
l'onestà ha bisogno di leggi e di istituzioni
Ancor più fragile e improbabile appare l’altro mito, fatto oggetto di slogan: “Onestà! Onestà!…”. E non tanto perché, alla fine, più d’uno sale sul nuovo carro per voltarlo nella propria direzione e scendere ogni volta che gli conviene, ma perché l’onestà non è né una visione né una competenza tecnico-amministrativa.
Costituisce il presupposto fondativo di ogni azione politica, ma non è una politica, non è la politica. E se quella parola d’ordine deve diventare una politica delle mani pulite e eventualmente dei cappi – il tutto è già apparso sullo scenario politico italiano – richiede, come tale, provvedimenti legislativi e amministrativi, non slogan di etica pubblica.
Perché, delle due l’una: o l’uomo è naturalmente buono o non lo è affatto. Nel primo caso (è il pensiero di Rousseau, inteso come filosofo, non come sistema informatico del M5S), si tratta solo di rimuovere i lacci e lacciuoli socio-culturali costruiti dagli uomini stessi, che hanno imprigionato il cammino spedito degli esseri umani verso la felicità.
I giacobini e il comunismo messianico di Marx ci hanno creduto. E non solo loro. Nella storia del cristianesimo hanno avuto lungo e fortunato corso i sogni del regno di Dio in terra, della terza età dello Spirito di Gioachino da Fiore (quando la Chiesa istituzionale sarebbe scomparsa con tutto il suo apparato mediativo di papi, vescovi e preti). E’ il mito dei puri, dei catari, degli eletti.
Ma se il caso è il secondo: cioè se gli esseri umani sono un mix instabile di socievolezza e di violenza, di valori e di disvalori, di razionalità e di passioni scomposte, se il cuore dell’uomo è “un gran guazzabuglio”, allora compito della politica non è costruire l’uomo nuovo, ma “limitare i danni”, che la natura umana, così com’è, può provocare.
Compito della politica è quella di provare a tenere sotto controllo la lotta feroce dell’homo homini lupus, senza la pretesa di abolirla. Si può adottare il Leviatano di Hobbes e del sistema comunista, si può adottare lo stato democratico, dotato di Habeas corpus, ma in ogni caso la terra non sarà mai il paradiso terrestre della trasparenza e della pace. E l’onestà sarà un eventuale effetto di buone leggi e di istituzioni efficienti.
Ma qui appare il tema della corruzione in Italia. Se sia una caratteristica antropologica ineliminabile degli Italiani senza patria e senza Stato o, più semplicemente, l’effetto di istituzioni malfunzionanti, incapaci di premiare i comportamenti buoni e di punire quelli cattivi…