potevamo far meglio?
La morte di Luca Cafiero, uno dei fondatori del Movimento Lavoratori per il Socialismo ha innescato una discussione intorno al tema potevamo fare di più, potevamo far meglio?
Mi è già capitato di scrivere che i movimenti del 68, e quelli successivi in cui agirono i gruppi della sinistra rivoluzionaria, sono stati importanti per quanto riguarda la democratizzazzione delle istituzioni, l'ottenimento di diritti, la rivoluzione nei costumi, mentre il fallimento è stato totale per quanto riguarda la capitalizzazzione politica di quelle lotte. Ci fu un eccesso di giacobinismo nel pensare che bastava volere per ottenere e, a partire dal 1976 iniziarono le dolenti note.
Voglio però concentrarmi su un punto strettamente legato alle dinamiche del movimento studentesco universitario e, in particolare di quello di Scienze a Milano in cui mi trovai ad operare. All'inizio ci fu la ribellione del sentirsi protagonisti e del dire basta alle insensatezze che governavano la istituzione universitaria.
Nei primi momenti, mi riferisco alla prima occupazione giunta dopo una assemblea durata 5 giorni e una votazione finale per appello nominale di alcune ore, fu dominante l'esserci, il prendere la parola, la scoperta che uniti si vince e dunque vale la pena di stare insieme.
Il nostro essere dei pierini della politica fu il punto di forza perché ci consentì di essere seriamente unitari, di parlare con tutti senza preclusioni di natura ideologica, ma fu anche l'elemento di debolezza perché minò l'autonomia di quel movimento presto alla mercè di chi la sapeva lunga.
Furono ottenuti risultati importanti quali la istituzione dei corsi serali e una maggiore flessibilità dei curricula e dei percorsi di tesi. Si ottennero i corsi semestrali (che poi vuol dire trimestrali) e non ci si rese conto che, in realtà, stavamo venendo incontro agli interessi del corpo docente interessato ad una concentrazione temporale dei suoi impegni didattici mentre non ci fu alcuna riflessione sul fatto che, in ambito scientifico, la assimilazione di certe metodiche aveva bisogno di corsi istituzionali annuali.
Portammo avanti delle rivendicazioni profondamente viziate da economicismo e rifiutammo un approfondimento delle tematiche legate alla conoscenza e alle specificità di quella scientifica.
La ragione di tutto ciò è stata duplice:
- avevamo l'esigenza dei polemizzare con il movimento di lettere e filosofia, con quello che chiamavamo il gruppo Capanna più sensibile di noi a ragionare in termini di controcorsi e seminari e ci limitavamo a declinare in tutte le salse la lotta contro la presunta neutralità della scienza
- eravamo profondamente ignoranti (in senso etimologico) delle questioni di teoria della conoscenza.
Ricordo che quando, alla fine del 1969, mi preparai all'esame di filosofia della scienza l'atteggiamento con cui mi avvicinai alla questione era del tipo: adesso, studiando con Geymonat, avremo finalmente la linea giusta. Fu una grande sorpresa scoprire la complessità del pensiero che stava dietro la riflessione sulla scienza, scoprire che la linea giusta non esiste, scoprire che quando si sostiene una tesi bisogna farlo prestando attenzione agli argomenti dei competitors e provando addirittura ad assumerne il punto di vista.
Studiando il Nagel scoprii cosa sono le teorie assiomatiche, il determinismo, il meccanicismo, lo status conoscitivo di una teoria, il rapporto tra scienze della natura e scienze sociali, ma soprattutto mi resi conto, e lo dissi anche all'esame, che non solo la linea giusta non esiste ma dietro un angolo c'è un altro angolo.
A Fisica il nucleo portante del primo movimento era costituito da quelli del III anno e, dopo l'occupazione di marzo, provammo a discutere i postulati della teoria assiomatica della meccanica quantistica alle lezioni del corso di Istituzioni di Fisica Teorica.
Sentivamo il bisogno di capire e dunque facevamo domande impertinenti al professor Prosperi; volevamo capire cosa fosse una osservabile ma non possedevamo gli strumenti culturali per approfondire e, dall'altra parte, trovavamo degli interlocutori a loro volta impreparati rispetto alle nostre domande. Eppure i libri che ci avrebbero consentito di capire esistevano; noi non li conoscevamo e nessuno ce li consigliava.
E' stato così che non ci siamo occupati di una seria riforma del corso di studi e abbiamo preso la scorciatoia della rivoluzione, una strada più facile da percorrere ma che non ci ha portato da nessuna parte. E io quella strada l'ho decisamente imboccata facendone l'elemento centrale della mia vita per un po' di anni sino a quando, dopo il 76, mi rimisi ad occuparmi di quelle domande rimaste in sospeso nella primavera del 68 e scoprii, studiando, che si poteva andare oltre il don Milani di Lettera a una professoressa e che non era indispensabile, e nemmeno consigliabile, passare da don Milani allo stato borghese si abbatte e non si cambia.
E' paradossale: abbiamo cambiato tante cose, ma abbiamo inciso abbastanza poco sulla cultura del paese e sulla università anche se molti di noi i cambiamenti li hanno realizzati indirettamente nelle professioni e nel proprio lavoro.