1965-1970: l’Università e la scienza
III edizione – giugno 2024
Gli anni di università si possono vedere da due punti di vista: la crescita culturale con la acquisizione di competenze importanti in ambito scientifico e l’immersione in un ambiente nuovo e stimolante coronato dal 1968. Ho deciso, per non fare confusione, di mantenereseparati i due ambiti e qui tratterò del primo: l’Università degli Studi di Milano e il dipartimento di Fisica.
Mi ero iscritto a Fisica perché c’era qualcosa che mi affascinava nella scienza e mi piaceva anche l’idea di occuparmene in maniera professionale (galeotti furono l’Hensemberger e il professor Oggioni, quello che mi apriva il giornale davanti al naso, e a cui diedi fuoco quando facevo la quarta).
L’Università era un ambiente totalmente nuovo:
- Milano, raggiunta ogni mattina con il treno da Villasanta (con cambio a Monza) o da Arcore e poi a piedi dalla Centrale sino a Città Studi per non pagare il biglietto del tram (un bel risparmio), anche se, in quegli anni, camminare per Milano voleva dire arrivare in Università con la faccia nera per il particolato degli impianti di riscaldamento a nafta pesante
- Le aule universitarie con 400 persone diverse tra loro nel modo di vestire e di parlare. I liceali diversi dai periti, i milanesi diversi da quelli della provincia
A preoccuparmi non erano nè la fisica in senso stretto, nè le applicazioni della analisi matematica alla fisica; era la astrazione matematica a mandarmi in crisi. Non ci ero abituato.
il primo anno
Incontravo per la prima volta ragionamenti raffinati, in particolare nelle dimostrazioni di analisi, quelle di tipo epsilon-delta, in cui si prendeva un intorno di qua, si fissava un elemento di là e poi alla fine, come per miracolo, veniva tutto.
I teoremi di analisi li studiavo, li ristudiavo e ogni volta mi sembravano tutti uguali. Sapevo che lo scoglio era quello e che dovevo farcela. Nessuno mi aveva addestrato all’esprit de finesse dell’analisi matematica. Il professor Bellia, in IV all’Hensemberger, ci dettò la definizione metrica di limite. Poi aggiunse: imparatela a memoria che tanto non la capireste. E adesso impariamo a calcolare i limiti. Quello fu il mio primo incontro con l’analisi; imparai anche i rudimenti del calcolo integrale e come lo si potesse applicare alla elettrotecnica, ma l’analisi mi era apparsa un utile strumento più che una scienza con un suo status.
Le lezioni di analisi I e II e di geometria del I anno, e anche quelle di Meccanica Razionale del II, erano in comune con gli studenti di matematica, mentre ci separavamo per fare Fisica e Chimica. Quelli di matematica al posto di Chimica studiavano algebra astratta, una cosa che non c’entrava nulla con l’algebra che avevo conosciuto alle scuole superiori e che per me era una assoluta novità.
Giovanni Ricci
Si entrava in Istituto si superava il cortile con la fontana dei pesci rossi e si entrava nel corridoio dell’aula A. A sinistra c’era l’accesso alla biblioteca e all’area di ricerca. Tutte le sacrosante mattine in 400 ci beccavamo la lezione del professor Giovanni Ricci in aula A all’istituto di via Saldini.
L’aula veniva oscurata e lui incominciava a scrivere sulla lavagna luminosa con una matita a cera bordeaux con la stessa scrittura, rotonda e regolare, che c’era nel suo libro (un libro tutto scritto a mano). Scriveva e commentava con la sua voce profonda, la stessa di suo fratello Renzo, attore di teatro, e ci dava del lei e del loro. Era inutile prendere appunti, meglio annotare direttamente sul testo. Gli appunti si prendevano alle esercitazioni del pomeriggio.
Sul Ricci giravano gli aneddoti più strani come quello secondo cui, se uno era andato male all’esame, non ti metteva riprovato sul libretto ma ti dava epsilon trentesimi; in analisi epsilon, da sempre è il sinonimo di “preso un numero positivo piccolo a piacere“. Chissa se era vero? Ricci aveva un’aria seria e severa da uomo dell’800.
Per rassicurarmi, guardavo Flavio Crippa che tutte le mattine si metteva pochi posti a sinistra di dove stava il Ricci, con la sua bella barba alla Karl Marx, la cartella di pelle nera e l’Unità aperta sul banco come a dire, il mondo sta cambiando. Flavio veniva da Garlate, nei pressi di Lecco e mi insegnò molte cose della vita: si dilettava di archeologia, di archeologia industriale, aveva preso il brevetto di pilota d’aereo, smanettava con l’elettronica e nel 68, con il suo motoscafo ha portato me e Bruna da Garlate sino al lago di Mezzola (verso Chiavenna) risalendo tutto il lago di Como e un pezzo del fiume Mera (e ritorno).
Torniamo al Ricci: mi ricordo le prime dimostrazioni con l’utilizzo del postulato di induzione matematica (se una proprietà è vera in un caso e, supposta vera nel caso ennesimo, la si dimostra vera per n+1, allora è vera sempre): eleganza, ma anche la sensazione di aver succhiato una caramella al gusto di sabbia. Così si dimostra la verità di una proposizione, ma come la si scopre? Dimostrazioni costruttive, dimostrazioni per assurdo, dimostrazioni per induzione. Parole per me nuove come dicotomia o come postulato. Ma perché si postula se è già chiaro?
Nel pomeriggio, alle esercitazioni, mi trovavo meglio: dimostrazione di convergenza delle serie più assurde, studio di famiglie di funzioni che richiedevano l’uso continuo di disequazioni da risolvere anche solo in maniera approssimata alla ricerca di cuspidi, punti angolosi, discontinuità.
Carlo Felice Manara
Quando finiva il Ricci incominciava il Manara: Carlo Felice, cattolico fervente e padre di una miriade di figlie, alcune delle quali studiavano con noi. Nel 74 sarebbe stato uno degli animatori del comitato referendario contro la legge sul divorzio.
Era ordinario di Geometria e, proprio in quell’anno, aveva rivoluzionata il suo corso: basta geometria proiettiva (roba da ingegneri ed architetti), basta geometria analitica nel piano e nello spazio (rinviate alle esercitazioni), si facevano geometria algebrica e geometria vettoriale negli spazi a n dimensioni, in maniera del tutto sganciata da ogni riferimento alla realtà o alla visualizzazione delle cose e io, un po’ ingenuamente, mi dicevo: ma geometria non vuol dire misura della terra?
Per il nuovo corso Il Manara aveva anche pubblicato un libro dalla editrice Viscontea, ma il libro, giunto in ritardo a corso già iniziato, era pieno di errori redazionali e tipografici, così, quando non capivi un passaggio non sapevi mai se eri un po’ duro, o non capivi perché c’era un errore. Bastava che fosse saltato un neretto e il simbolo di vettore diventava quello di una componente. Anche qui la sofferenza superava il piacere.
Il professor Manara, a differenza di Ricci, stava in cattedra davanti alle lavagne a scorrimento; era alto e parlava sempre con gli occhi socchiusi e l’aria ispirata per cui non si capiva mai dove stesse guardando. Per fortuna le esercitazioni tenute dal professor Melzi e dalla professoressa D’Aprile, da noi chiamata familiarmente Margherita, erano più chiare e ci consentivano, attraverso domande, di ricevere qualche chiarimento sulle lezioni della mattina.
Analisi e geometria le studiavo con un compagno di Monza, compagno nei due sensi della parola perché poi avremmo aderito insieme allo PSIUP, il Mao (Maurizio) Soardi. Mao aveva fatto lo Zucchi, non aveva mai fatto esercizi di analisi in vita sua, ma aveva l’abitudine alla astrazione. Lui prese 30 e lode, l’anno dopo passò da fisica a matematica e, a meno di 30 anni, diventò ordinario di Analisi.
via Celoria
Finiti i corsi a matematica, finalmente, si andava in via Celoria. All’angolo di via Saldini si prendeva a destra la via Mangiagalli e si passava davanti all’Istituto di anatomia sino all’obitorio, sull’angolo di piazzale Gorini. Si girava ancora a sinistra in via Ponzio e si costeggiavano gli edifici bassi in mattoni degli istituti di agraria e di veterinaria, si passava il Cremlino (l’istituto zooprofilattico, chiamato così per la presenza di alcune guglie) e finalmente si arrivava al semaforo di via Celoria. Da una parte il Besta, l’istituto neurologico, e dall’altra Fisica.
Era un edificio moderno, corridoi e servizi igienici pulitissimi, un grande atrio con al centro una enorme camera a bolle dei primi anni 50 con cui furono effettuati importanti esperimenti di fisica delle particelle. Dopo tutta quella serie di edifici austeri e un po’ ottocenteschi qui si respirava una atmosfera meno formale. Sul lato di via Ponzio c’era l’ingresso carraio con il giardino, il ciclotrone, il capannino dove stavano i fisici delle particelle e il bar.
Ugo Facchini
In aula A ci attendeva il professor Facchini che teneva il corso di Fisica 1. Ugo Facchini era un personaggio un po’ underground, lavorava con il CISE e si occupava di problematiche energetiche legate al solare. Dopo la defaillance di Caldirola (letteralmente impazzito di fronte al 68), lo sostituì nelle funzioni di direttore dell’Istituto di Fisica.
Il suo corso era diviso in tre parti:
- una di meccanica newtonina e di relatività ristretta che usava come base un testo dello stesso Facchini,
- una parte di termodinamica, da cui imparammo molto poco, perché fu trattata malamente a lezione mentre il testo, sarà anche stato di Fermi, ma non andavaassolutamente bene per degli analfabeti quali eravamo,
- e infine una parte di meccanica dei fluidi dove si utilizzava un vecchio libro di Giovanni Polvani.
A onore di Facchini devo dire che, con il suo stile un po’ trasandato che puntava a sottolineare l’essenziale delle leggi trascurando le complicazioni matematiche, è riuscito a farci comprendere bene le cose essenziali della meccanica che poi avremmo ripreso alla grande nel corso di Meccanica Razionale.
fisichetta
Ma con la fisica non era finita, perché i fisici avevano anche un corso biennale Esperimentazioni di fisica detto più familiarmente, fisichetta. A fisichetta si facevano due cose: alcune sedute di laboratorio (ricordo quelle di termodinamica con i calorimetri e la misura dei calori specifici e quelle sulla caduta dei gravi nei fluidi in regime turbolento e/o viscoso) e poi problemi di fisica in preparazione dello scritto che si sarebbe però fatto alla fine del II anno.
Tentarono di insegnarci, senza molti risultati a causa della inadeguatezza del docente, le cose essenziali di teoria degli errori, comunque fu lì che sentii parlare per la prima volta di varianza, di distribuzione gaussiana e di legge dei tre sigma.
bublioteca e sala studenti
Nel pomeriggio, quando non c’erano impegni di lezione, si stava in biblioteca a studiare. La biblioteca era nel corridoio che unisce l’area didattica a quella di ricerca, di fronte alla sala del Consiglio di Dipartimento, che poi avremmo trasformato nella sede del Comitato di Agitazione.
C’erano due bibliotecarie, una anziana secca e vecchio stiile e l’altra più in carne e sorridente. Più che studiare ci si confrontava tra compagni sulle cose meno chiare e si risistemavano gli appunti presi a lezione. Se però ci si voleva rilassare sul serio si scendeva di un piano e, di fianco al bar, si andava in aula studenti, il regno del bridge e della briscola a chiamata.
Lì stazionava un gruppo di fuoricorso storici, capeggiati da Augusto Naj dell’AGI, l’associazione studentesca di matrice liberale, che ci passavano l’intera giornata . Erano le stesse persone che cercavano, con scarsi esiti, di rinverdire le tradizioni su anziani, matricole e fagioli. Un giorno quelli di ingegneria beccarono anche Gigliola Cinquetti, matricola di architettura, e la fecero salire su un albero a cantare non ho l’età.
gli esami
Per un pinella della Brianza, che non aveva fatto il liceo tutto sommato andò bene: Analisi 1 a giugno con 24, Fisica 1 e geometria a ottobre con 26 e 23, chimica a febbraio con 21 (il voto più basso della mia carriera di studente).
Per l’esame di chimica mi ero preparato abbastanza a fondo, ma dopo qualche domanda, mi misero davanti una reazione di ossidoriduzione da bilanciare. Mi misi all’opera e quando finii tutto soddisfatto per aver bilanciato le molecole coinvolte, il professore mi disse: lei ha sbagliato, questa reazione non può avvenire per via dei potenziali di ossidoriduzione dei reagenti. Da incazzarsi.
Ero orgogliosissimo di quel 24 in analisi. A giugno su 400 tra fisici e matematici passammo in una quarantina e l’esame di analisi 1 era quello cruciale; se lo passavi eri considerato un iniziato.
L’esame si svolgeva in quattro atti:
- lo scritto di 6 ore con esercizi vari e come piatto forte lo studio di una famiglia di funzioni i cui andamenti erano almeno di 3 o 4 tipi diversi al variare del parametro,
- il pre-orale, che era un altro scritto, subito prima del colloquio, su semplici, ma numerosi esercizi relativi all’intero programma,
- e poi, in sequenza i due orali: sul primo volume con gli assistenti e sul secondo volume con il Ricci. Il giorno dell’orale incominciavi nel primo pomeriggio e finivi la sera tardi.
il secondo anno
Non avevo ancora tirato il fiato per gli esami di ottobre e l’anno già ricominciava con tre corsi annuali di quelli belli tosti: Analisi 2, Fisica 2 e Meccanica Razionale (oltre alla solita fisichetta). C’era anche un colloquio in due lingue straniere a scelta, ma quello fu una passeggiata (Francese e Inglese). Ormai si studiava prevalentemente su libri in quelle due lingue: quelli americani e quelli russi delle edizioni MIR (tradotti in francese).
meccanica razionale
Il corso del biennio che mi è piaciuto di più, che ho seguito senza perdere nè una lezione nè una esercitazione, è stato quello di Meccanica Razionale. Prima di iscrivermi a Fisica non sapevo nemmeno che questa disciplina, figlia dell’Illuminismo, esistesse. Il suo studio mi ha aperto la mente, dai fondamenti della meccanica sino alla meccanica analitica di Lagrange ed Hamilton, che fanno da premessa alla Fisica Teorica.
I primi dieci minuti di lezione il professor Udeschini li passava a disegnare un sistema di N punti materiali con relative interazioni su cui avrebbe poi impostato la trattazione lagrangiana o hamiltoniana. Nelle esercitazioni il professor Barazzetti si dedicava alla impostazione e trattazione di problemi pieni di oggetti interconnessi (fili, sbarre, corpi rigidi estesi, carrucole, …).
Il professor Barazzetti fu esemplare nel trattare configurazioni meccaniche via via più complesse e, nella seconda parte del corso, invece di analizzarli attraverso le leggi fondamentali della meccanica, imparammo a trattarli anche con le lagrangiane.
Avevo una serie di quaderni degli appunti ordinatissimi. Dopo tanto impegno e tanto studio (compresi i due volumi del Finzi e anche la Mecanique di Landau) presi solo 24, mentre un mio compagno, che non aveva seguito il corso e che si preparò solo sui miei appunti (per altro mai restituiti), prese 30 nella sessione successiva. Da allora ho iniziato a non prendere troppo sul serio i risultati di un esame universitario.
analisi 2
Il corso di Analsi 2 era tenuto dalla professoressa Fulvia Skof, allieva di Ricci (poi entrata in ruolo a Torino); fu quel corso a rischiare di mandarmi in tilt durante la preparazione all’esame sostenuto a fine luglio del 67. Le esercitazioni le faceva il professor Paganoni; algida la Skof e cicciotto il Paganoni. Andavo a dormire a tarda notte e continuavo a vedere serie di funzioni di cui dovevo stabilire la convergenza e se essa fosse uniforme o meno. La convergenza uniforme l’ho finalmente compresa, sul piano della ragion d’essere, anni dopo, studiando questioni di storia della analisi matematica. Non mi preoccupavano invece le parti più concrete come gli integrali e le equazioni differenziali.
Era un programma mastodontico, senza un libro di testo, in cui ciò che doveva costituire l’oggetto principale del corso per dei fisici in formazione e cioè, funzioni a due variabili, calcolo integrale, integrali generalizzati, funzioni nel campo complesso, equazioni differenziali, era dato quasi per scontato e si lavorava prevalentemente sugli approfondimenti e sulle sottigliezze.
Avevo l’impressione che ai matematici non interessasse mai come andassero le cose nella maggioranza dei casi. Li vedevo appassionati all’eccezione, al pelo nell’uovo e io non riuscivo ad abituarmici. Mi dicevo, ma non potrebbe assegnare questi corsi di analisi a dei fisici ? Quelli almeno sanno che cosa ci serve.
Mi spiego con un esempio, dopo essere impazzito sul tema della convergenza uniforme (o non uniforme) delle serie di funzioni, mi sono trovato a non aver mai studiato gli sviluppi in serie di Fourier (utili per la MQ) o le trasformate di Laplace. Queste le ho studiate da solo e applicate nel corso di elettronica per lo studio dei fenomeni transitori nello reti circuitali.
Alla fine andò tutto bene, presi 27 e potei dedicarmi all’amata fisica; ma di ciò che di analisi serviva al corso di fisica non mi avevano insegnato niente e dovetti occuparmene da solo, sia per Fisica 2, sia per Istituzioni di Fisica Teorica del III anno. In proposito mi fu di aiuto un manuale della Schaumm Vector Analisys.
fisica 2
Proprio nel 66/67 il professor Piero Caldirola, il decano dei fisici teorici del nord Italia, lasciò la cattedra di Istituzioni di fisica teorica per passare a Fisica 2.
Caldirola era un po’ troppo chiaccherone e asistematico per tenere un corso istituzionale; in più se ne occupava per la prima volta. Per fortuna c’erano due giovani assistenti che supportavano le lezioni, il professor Marcello Fontanesi, futuro rettore della Bicocca e il professor Elio Sindoni, esperto di fisica dei plasmi.
Il programma era enorme, tutto l’elettromagnetismo sino alle equazioni di Maxwell, inclusa la generazione delle onde elettromagnetiche e poi, la teoria delle onde elastiche, l’ottica geometrica e quella ondulatoria.
Per di più non esisteva un testo. Ma erano da poco disponibili le Lectures on Physics di Feynman; le comperai un volume alla volta (dal libraio Agostino Quattri che vendeva libri a casa sua, a fianco di via Saldini) e preparai la parte di elettromagnetismo sul secondo volume e quella di ottica sul primo. La mia formazione di base da perito elettrotecnico fece il resto rispetto a tutte le problematiche di tipo elettrico e arrivò il primo trenta.
Il Feynman mi aprì la mente e il cuore, mi insegnò a non farmi spaventare dalla matematica ma ad usarla in maniera euristica, ad applicare l’adagio di Feynman “se funziona, va bene“. Da allora, quando ho voglia di imparare qualcosa di nuovo, apro i capitoli finali del II e III volume e mi diverto imparando cose che non conosco trattate in modo assolutamente originale (e sono passati ormai più di 50 anni).
Superati i 70 anni di età ho compiuto un atto d’amore o un sacrilegio, a seconda dei punti di vista. Il mio primo ex alunno fisico (Matteo Giani) che si è sposato ha ricevuto in dono i miei tre volumi del Feynman e qui vedete la foto della consegna ideale del testimone.
il secondo biennio
Avevo vinto la sfida; niente richieste di soldi a casa; automantenimento e strada aperta per fare il fisico; ma era l’autunno del 67 e, come è noto, molte cose bollivano in pentola. Ma ne parlerò in un altro capitolo, meglio tenere separate la crescita culturale-scientifica da quella culturale-politica.
Nel III e IV anno capitalizzai gli sforzi che avevo fatto per inserirmi; mi sentivo finalmente a mio agio, a casa mia. Scelsi l’indirizzo applicativo elettronico-cibernetico. Avevo capito che le cose importanti stavano nei libri e che non era indispensabile rincorrere gli appunti. Imparai anche a leggere i libri scientifici acquisendo la capacità di non perdermi dietro ai dettagli.
Così incominciarono a fioccare i voti alti.
esami del III anno
Istituzioni di Fisica teorica: la bestia nera che molti studenti ripetevano più volte. Appoggiandosi sulle conoscenze di meccanica analitica e sugli esperimenti cruciali del primo 900 sul dualismo ondulatorio corpuscolare per la radiazione e per la materia si introduceva la Meccanica Quantistica secondo la modalità De Broglie Schrodinger e poi si lavorava sulla assiomatica. Causa interruzioni per la occupazione arrivammo sino al momento angolare quantizzato. Teoria con il professor Prosperi appena rientrato dagli Usa ed esercitazioni con un gruppo di assistenti e ricercatori molto validi: Lanz, Ramella, Gallone, Cattaneo. scritto e orale 30,
metodi matematici per la fisica: un corso di analisi superiore fatto da fisici per i fisici sulla teoria degli spazi vettoriali e quella degli operatori. Il corso era tenuto da Renzo Cirelli (un ex prete anarchico) con la collaborazione, per le esercitazioni dello stesso gruppo di Teorica. scritto e orale 30 e lode,
struttura della materia : rudimenti di fisica atomica e nucleare con il professor Tagliaferri il responsabile del gruppo di ricerca del Ciclotrone. Non ho seguito il corso che risultava abbastanza noioso e ho lavorato direttamente sui testi di Leighton e sul Finkelburg. Solo orale 27,
Elettronica generale: corso tenuto dal professor Degli Antoni che in quell’anno ha lasciato Cibernetica e Teoria dell’Informazione. Degli Antoni già responsabile del gruppo di elettronica di Fisica dello Spazio (Occhialini) stava iniziando a mettere in piedi un gruppo di persone interessate all’Informatica. Testo nuovo, americano, il Millman Halkias oltre a tutta la parte circuitale e sulle trasformate di Laplace.
Durante questo corso è nato il mio rapporto di amicizia con Degli Antoni. Stava illustrando alcuni processi di conduzione nei semiconduttori drogati con passaggio di elettroni dalla banda di valenza a quella di conduzione. Alzai la manina per dire che la spiegazione non sembrava convincente. Degli Antoni sorrise e disse che quella era la spiegazione data da Fermi. Risposta: non ho chiesto di chi sia quella spiegazione; ho detto che non mi pare convincente e spiegai perché. Voto 30,
Laboratorio di elettronica facemmo eperimenti di base di tipo circuitale e poi progettai e realizzai un alimentatore stabilizzato. Voto 30
esami del IV anno
Cibernetica e teoria della Informazione fatto eccezionalmente con Degli Antoni sulle sue dispense senza seguire alcun corso. Imparai un sacco di cose sull’algebra della logica, sulla teoria dell’informazione, sul calcolo delle probabilità, sulla teoria degli automi. Voto 30,
Macchine calcolatrici: era un corso tenuto da uno dei docenti del gruppo di Fisica dello spazio su cose di cui mi occupavo in chiave lavorativa. C’era un po’ della nascente informatica (conoscevo il Fortran e anche un po’ di basic). Voto 30,
Laboratorio di cibernetica: non ricordo i dettaglima con il mio gruppo (tra cui Alberto Bertoni) e sotto la guida di Degli Antoni realizzammo un aggeggio elettronico che utilizzava potenziometri di precisione e costruimmo un modello di macchina che impara. Si incominciava a ragionare di intelligenza artificiale. Voto 30,
Radioattività: L’esame di radioattività non l’ho mai fatto. Durante il quarto anno (68/69) io e un paio di amici politicamente impegnati ci rivolgemmo al professor Ludovico Geymonat per esternargli il nostro desiderio di sostenere l’esame di filosofia della Scienza.
Detto, fatto; concordammo il programma d”esame e coinvolgemmo, in accordo tra le parti, la professoressa Connie Dilworth, moglie di Beppo Occhialini, presso cui lavoravo a part-time. Lei insegnava radioattività e così Geymonat venne nascosto dietro radioattività.
L’esame fu una cosa molto seria per due ragioni: perché ci tenevamo a fare bella figura con il professore, perché lui ci diede un programma di studio di tutto rispetto (il voluminoso testo di Ernst Nagel “Le strutture della scienza” e quattro gruppi di scritti legati alla teoria della conoscenza nel materialismo dialettico rispettivamente di Lenin, Stalin,Trotcky e Mao.
Esame alla presenza di Ludovico Geymonat, Corrado Mangione e Felice Mondella. I maestri della epistemologia in Italia e tra loro il padre fondatore. Ricordo di essere rimasto impressionato dallo studio del Nagel, un testo molto dotto che mi lasciava sempre la impressione che su certe questioni fosse vera una certa tesi, ma anche la sua contraria. Ricordo che ne parlai con Geymonat durante il colloquio. Il Nagel l’ho riletto e ristudiato anni dopo quando ormai ero ferratissimo sul neo-positivismo ed ebbi modo di apprezzarlo più di quanto non feci nel 69. Voto: 27
l’interazione con i docenti
Il 1968, dal punto di vista culturale, fu un anno di svolta. Noi del III anno eravamo sufficientemente navigati per esternare il desiderio di capire attraverso la discussione. Eravamo anche sufficientemente ignoranti per non potercela fare da soli. Così l’incontro scontro con i docenti ci fu, ma non fu all’altezza delle aspettative di ambo le parti.
Mi riferisco al corso di Istituzioni di Fisica Teorica, quello che porta gli studenti di fisica nel mondo nuovo e inesplorato della meccanica quantistica. Noi ponevamo, male, le nostre domande e dall’altra parte ci rispondevano in maniera dogmatica. Ho preso 30 ma ho conservato molti dubbi e ho continuato a studiarla, anche ora che ho superato i 70.
Eccezione il professor Gianni degli Antoni che poi avrebbe creato il corso di laurea in scienza dell’Informazione e siamo diventati amici. Con lui ho fatto gli esami di elettronica e di cibernetica e mi ha fatto da relatore di tesi. Si dialogava molto perché lui era una persona curiosa. L’unico docente che abbia cercato di capirci e lo voglio ringraziare, come fece lui verso di noi alla cerimonia in cui andò in pensione, qualche anno fa.
la laurea con una tesi di logica a infiniti valori (poco fisica)
Mi sono laureato a luglio del quinto anno con una tesi di informatica teorica sulla logica a infiniti valori (i fuzzy set). Relatore Gianni degli Antoni, correlatore Piero Mussio. Piero Mussio era un collaboratore di Degli Antoni, molto simpatico, schierato apertamente a sinistra e con un padre simpaticissimo aderente al Partito Comunista Internazionalista (quello di Bordiga).
Nell’ultimo anno e mezzo, ho anche lavorato di pomeriggio, come perito, per il gruppo di ricerca di fisica dello spazio (facevo programmi in Fortran) che venivano utilizzati per la elaborazione dati di eventi di interazione con i raggi cosmici negli strati alti della atmosfera. Erano gli studi classici del professor Occhialini, mancato premio Nobel alla fine degli anni 40, si dice per ragioni politiche (nel mondo della scienza era considerato un comunista).
Per quanto riguarda la tesi ci fu qualche problema da parte dell’establishment dei fisici che, giustamente osservavano che quella non era roba da fisici, ma da qualche parte doveva pur nascere informatica e caso volle che il primo a muoversi fosse stato un fisico: Gianni degli Antoni.
La tesi era un lavoro di coppia (altro scandalo!) con Alberto Bertoni, uno di quelli con cui avevo preparato l’esame di Filosofia della Scienza.
Alberto veniva da Barlassina e mi stupiva sempre: Claudio, oggi sul treno mi è venuto in mente che potremmo presentare questo teorema, e giù enunciato e dimostrazione. Mi lasciava di stucco per la creatività e la capacità di astrazione.
La nostra tesi non poteva essere compilativa perché sull’argomento, in quel momento esisteva un solo articolo in letteratura (quello di Zadeh, fondatore della teoria) e dunque bisognava creare e lui creava. Io, come diceva Gianni degli Antoni, corredavo con preziose idee di tipo applicativo.
Alberto è morto qualche anno fa dopo aver fatto il professore a Informatica e il direttore di dipartimento. Aveva la media leggermente più alta della mia e gli diedero la lode. Io ho preso 109/110; d’altra parte non avevo preso neanche un 29 ….
Tutto il nostro gruppo degli immatricolati nel 65/66 è finito a lavorare con Degli Antoni (Majocchi, Polillo, Lanzarone, De Michelis). Voglio ricordare un compagno che nel biennio faceva coppia fissa con Alberto, Giampiero Banfi (detto John) di Saronno. Si occupava di Fisica dei Plasmi, ha fatto il professore a Pavia e anche lui è morto giovane (nel 2002). Due fisici valenti con trascorsi importanti nel movimento e che decisero di continuare con la fisica. Io no: avevo in mente altre cose
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