1977-1991: con il PCI fino allo scioglimento
III edizione – giugno 2024
Come ho raccontato nel capitolo 12 il mio rapporto con il partito comunista viene da lontano ed inizia nel 1966 quando ero un cattolico inquieto che guardava a sinistra.
Ero uscito dalla Federazione giovanile socialista insieme a quei lombardiani di sinistra che formarono il Movimento Socialista Autonomo (MAS) guidato da Tullia Carettoni e mi guardavo intorno.
E fu guardandomi intorno che incominciai a leggere Rinascita, il settimanale politico-culturale del PCI. Prima la comperavo in edicola e poi, per ragioni di convenienza economica mi ci abbonai. Sono diventato prima di sinistra e poi marxista e non viceversa come mi capitò di vedere in molti estremisti del 68/70 che, proprio per quello, più che compagni, diventavano esperti in ipse dixit, magari citando Stalin, e quello era il massimo.
Rinascita è stato lo strumento che mi ha fatto scoprire la sinistra italiana e che mi ha fatto da scuola-quadri. Non la leggevo tutta (c’era troppa roba) e mi lasciavo guidare dai titoli e dalle aree disciplinari prediligendo quelle più strettamente storico-politiche.
Quando mi abbonai a Rinascita vivevo ancora in famiglia e oltre a Rinascita leggevo Politica, il settimanale della corrente della sinistra Dc La Base, l’Astrolabio (diretto da Parri) e Settegiorni un settimanale della sinistra cattolica diretto da Ruggero Orfei e su cui scriveva quella che sarebbe poi divenuta l’intellighentia laico-socialista, da Bassanini a Girardet, da Covatta a padre Turoldo. Ma Rinascita rimaneva la mia dispensa settimanale per la maturazione politica.
Il PCI mi formava, ma non lo votavo, anche perché non ero maggiorenne e non votavo. Transitai per il PSIUP, per il quale ho votato nel 68, e poi sono iniziati gli anni della sinistra rivoluzionaria. Mi ricordo che i tre articoli di Berlinguer sul compromesso storico (Riflessioni sui fatti del Cile) dell’ottobre 1973 li lessi e li apprezzai prima dell’apertura della querelle sul tema scatenata dal terzo articolo che metteva i piedi nel piatto della situazione italiana parlando per la prima volta del compromesso storico.
Negli ultimi anni della militanza rivoluzionaria si aggiunse lo studio di Critica Marxista; su di essa apprezzavo i contributi di Gerardo Chiaromone e Paolo Bufalini. Il PCI era un luogo strano di elaborazione politica; le svolte le faceva il segretario, ma poi alcuni dirigenti si incaricavano dell’inquadramento teorico (sicuramente i due che ho citato, oltre a Giuseppe Chiarante, Paolo Spriano, Adalberto Minucci e Luciano Gruppi). Ho sempre letto pochissimo l’Unità perché, ironia della sorte, non mi piacciono i quotidiani militanti (inclusi la Repubblica e il Fatto quotidiano).
L’adesione al PCI
i riferimenti politico-culturali
Quando, alla fine del 1976, dopo una riflessione durata qualche mese, di fronte allo sgretolarsi delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, decisi di non seguire la minoranza di AO che si apprestava ad unirsi alla maggioranza del PDUP, lo feci perché consideravo finita un’epoca e la fine era stata indipendente dalle nostre soggettività, si trattava di una fine oggettiva giudicata in chiave storica. Il periodo della grande ubriacatura era finito.
Avevo ormai digerito i 5 volumi di Paolo Spriano sulla storia del PCI (incluso il dopoguerra) e continuai per qualche mese il lavoro di approfondimento della storia del PCI dal 45 agli anni 70. Dopo aver fatto i conti con le riflessioni di Gramsci sul partito, sul concetto di egemonia e sulla cultura, passai a Togliatti, sia attraverso i suoi scritti, sia attraverso la lettura di saggi a lui dedicati come quello di Giuseppe Vacca.
Quando nei primi anni 2000 ho ripreso in mano la mia copia delle Note sul Machiavelli di Gramsci e le ho trovate tutte annotate a matita con commenti e riflessioni sulla storia della sinistra rivoluzionaria e sulle sue inadeguatezze (l’intellettuale collettivo, i gruppi dirigenti, l’egemonia, il rapporto tra governanti e governati, i brani famosi sulle casematte e sul ruolo della chiesa cattolica).
non basta pungolare da sinistra
La nostra botta politica era venuta con le elezioni del 76; da esse era emerso in maniera inequivocabile che il problema non era quello di fare la contestazione da sinistra al PCI ma nemmeno quello di pensare di poter fare le mosche cocchiere (cioè la parte sinistra dello schieramento riformatore che avanza idee, critiche e suggestioni nello stile del Manifesto-PDUP).
Non vedevo spazi per altre cose; mi era chiaro allora e mi è chiaro anche oggi, quando dentro e fuori il PD, vedo rinascere continuamente altre mosche che ronzano, svolazzano per un po’ e poi si estinguono dandosi nomi nuovi in cui si declinano parole come sinistra, libertà, uguaglianza, nuovo, comunismo, rifondazione, ecologia.
Le masse popolari di cui ci eravamo riempiti la bocca erano più concrete di noi e quando c’era da votare sceglievano chi desse loro delle garanzie. Semmai il problema era quello di cosa fare per conquistare ad una prospettiva di sinistra, o almeno progressista, la maggioranza del paese, il ventre molle dell’elettorato italiano che pensa spontaneamente a destra e molto spesso ci mette la croce sopra. Me ne sono reso conto trasferendomi in provincia di Siena dove sono in atto significativi spostamenti a destra da parte di fette di elettorato popolare che in passato votava a sinistra, ma lo faceva per pure questioni di interesse mentre conservava una concezione del mondo e della vita di tipo reazionario sui temi legati alla socialità, ai diritti, al diverso.
Tra la passione per l’insegnamento, lo studio della scienza e le conclusioni sulle mosche cocchiere, avevo deciso di rinunciare alla proposta di rimettermi a fare il giornalista per aprire una grande redazione milanese del Manifesto. A rendermi indisponibile verso il gruppo del Manifesto pesò anche il netto dissenso nel giudizio da dare sullo sviluppo scientifico, delle ricerche nella fisica delle alte energie e sul nucleare. La linea la dava Marcello Cini e io non condividevo quasi nulla di quello che scriveva ma non avevo nessuna voglia di mettermi a discuterne.
Il distacco dai compagni che erano andati a lavorare al Manifesto, e in particolare dal mio prediletto Gigi Sullo, fu particolarmente doloroso e con Gigi ci fu uno scambio di lettere che però non attenuarono il dolore reciproco.
nel PCI dal basso
Così nel febbraio del 77 feci domanda di iscrizione al PCI, alla sezione Triante di Monza (quella vicina al liceo dove insegnavo). Meraviglia delle meraviglie, per via dei miei trascorsi, mi fecero scrivere una biografia politica e motivare per iscritto la richiesta di iscrizione, anche se, chi mi presentava (il professor Gianfranco Petrillo) mi conosceva benissimo. Data la mia formazione leninista la cosa non mi dispiacque (era un segno di serietà), ma poi mi lasciarono interdetto due cose.
Ci misero più di due mesi a decidere: la domanda andò in federazione a Milano nelle mani della CCC (commissione centrale di controllo) e non so dire se passò anche da Roma, probabilmente sì, visto il tempo che ci misero. Ho ritrovato la descrizione di quel mondo leggendo i gialli scritti da un dirigente di allora, Vicky Festa, che descrive il mondo della federazione di Milano e che ha come protagonista proprio il presidente della CCC.
Casi simili al mio, ex dirigenti rivoluzionari che non scelsero di entrare dalla base ma contrattarono l’ingresso con i vertici, furono trattati diversamente (con celerità e con tutti gli onori) e questa disparità di trattamento mi diede decisamente fastidio.
Dopo di allora, in occasione delle elezioni, ho visto molti casi di effetto meteora: ingressi in pompa magna e successivi mutamenti di schieramento: è successo nel PCI, nel PDS, nei DS e continua con il PD.
Anni dopo venne fuori un terzo elemento che vissi con viva soddisfazione: chi mi aveva esaminato venne coinvolto pesantemente dallo scandalo di mani pulite (filone IPAB), per la serie descritta dal proverbio brianzolo secondo cui quel puseè san al ga la rogna (quello più sano ha la rogna).
la autonomia e il terrorismo
Pochi giorni dopo gli scontri alla Sapienza culminati nella contestazione a Luciano Lama, alla sezione di Triante, discutemmo della situazione politica in evoluzione ed espressi una forte preoccupazione per quanto stava accadendo e di cui avevo, in piccolo, la percezione anche al liceo. Se continua così, ne vedremo delle belle, dissi.
Mi sembrava che la situazione si stesse incarognendo. La crisi delle formazioni della sinistra rivoluzionaria avveniva in contemporanea alla crescita di un movimento (quello del 77) in cui dominavano slogan infantili, la violenza e la linea del tutto e subìto. I compagni di DP facevano dei sottili distingiuo ma ne erano sommersi e lo erano per le stesse ragioni su cui non era stata fatta chiarezza nei giorni della rottura di AO: la democrazia senza se senza ma, le istituzioni democratiche senza se e senza ma.
Poi ci fu il rapimento Moro e mi fece male, molto male, vedere i miei ex compagni di Democrazia Proletaria sostenere che non bisognava stare in maniera ferma dalla parte dello stato democratico: nè con lo stato nè con le BR. Mi ricordavano i socialisti che nel 1915 coniarono lo slogan nè aderire nè sabotare, ma questa volta in peggio.
Sulla questione della trattativa per il sequestro Moro ero razionalmente d’accordo con la linea della fermezza, ma anche seriamente disorientato per quello che si stava facendo o non facendo e soprattutto mi davano fastidio le posizioni che passavano sulla testa e sul corpo di Moro paventando addirittura che scrivesse sotto l’effetto delle droghe.
La linea berlingueriana attenta alle problematiche della austerità e della moralità la condividevo, ma mi rendevo conto di quanto fosse necessario uno sblocco della situazione politica e della insufficienza della linea della solidarietà nazionale. Si stava rischiando di sprecare, e fu così, il grande consenso delle elezioni del 76 che richiedeva un cambiamento di rotta nella direzione dell’Italia. Penso che le cose, se non fosse stato rapito Aldo Moro sarebbero andate diversamente.
impegno politico a Monza e nel mio paesello
Il mio modo di far politica, in quegli anni, cambiò in maniera radicale; basta politica diretta e invece azione di supporto ad ogni attività di tipo educativo e culturale che facesse crescere la razionalità e mantenni questo spirito per tutta la prima metà degli anni 80.
Il PCI monzese era storicamente una succursale della Federazione di Milano in cui venivano mandati a fare da segretario cittadino e segretario di zona funzionari milanesi che, quando incominciavano a capirci qualcosa, venivano spostati ad altro incarico. In occasione di un congresso di zona diedi una mano all’amico Giuseppe Meroni (incaricato di preparare il documento sulla cultura) a stendere un documento in cui, per cultura, si intendeva cultura politica e dunque si parlava di Brianza e delle sue storiche differenze da Milano, della necessità di costituire una federazione Monzese e di scegliere la strada della costruzione di una provincia della Brianza separata da Milano. Per le culture politiche di allora fu uno scandalo e non finì bene. Il documento di Meroni venne cassato e ne ebbe una conseguenza negativa il suo posizionamento nel partito.
Ad un certo punto mi sembrò opportuno spostare la mia iscrizione da Monza a Villasanta per dare una mano nel paese in cui vivevo ed ero nato e mi dedicai al giornale locale Progresso e Partecipazione poi trasformatosi ne Il Punto. Il giornale era stato inventato da Giuseppe Meroni e, con il mio arrivo a Villasanta, era naturale che me ne occupassi per via dei trascorsi giuornalistici. Volevamo che non fosse un organo di propaganda politica ma uno strumento di informazione locale orientato in senso progressista che raccontasse il paese e le sue trasformazioni e per questo erano importanti la necessità di uscire con regolarità e la scelta drastica di non fare il solito bollettino parrocchiale.
E’ stata una esperienza interessante perché per ogni numero si facevano tre o quattro riunioni di redazione; si faceva un po’ di pratica giornalistica vera prendendo spunto dalla necessità di parlare di Villasanta; gli articoli più importanti venivano discussi prima e dopo. C’erano Franco Radaelli (Bollo), Ernesto Ornaghi, Gabriella Delfino, Claudio Zana, Franco Ornaghi, Pino Locati. Ho lasciato la direzione quando sono stato eletto consigliere comunale per il “PCI lista aperta” perché ritenevo che ci fosse incompatibilità tra dirigere un giornale aperto ed essere consigliere comunale espressione di una parte.
dalla I alla II repubblica, dal PCI al PDS a … ???
la terza via e l’eurocomunismo
Il progetto eurocomunista di Berlinguer si arenò per mancanza di coraggio verso le questioni di collocazione internazionale e per mancanza di interlocutori e, fallito quello, sarebbe stato necessario fare i conti non solo con la democrazia occidentale, ma anche con il tema di un progetto di progresso e riforma sociale dentro il quadro capitalistico. Erano finite le disquisizioni sulla via italiana al socialismo, inventate per far coesistere la fede nell’URSS con l’essere il più grande partito comunista dell’Occidente, e si trattava di parlare di socialdemocrazia e di ripensare la storia del movimento operaio del primo novecento.
Non affronto la riflessione sul progetto di rinnovamento-competizione a sinistra da parte del Psi iniziato da Craxi per costruire l’autonomia socialista e dotarla di gambe per sopravvivere. Sul piano culturale, quel proigetto, era molto avanzato. Berlinguer morì nel 1984 e la necessità di smarcarsi preventivamente dal mondo comunista che affondava avrebbe richiesto di sanare preventivamente la rottura iniziata a Livorno nel 1921.
Invece il PCI, alle prese con la necessità di costruire un nuovo gruppo dirigente, rimase immobile e tale ritardo significò aprire le ostilità tra i partiti della sinistra e farsi sommergere impotenti dalla caduta del muro e dalla fine della Unione Sovietica. Il crollo dei regimi dell’est e poi dell’Unione Sovietica segnarono la fine del comunismo inteso come esperienza storica ed è inutile rivoltare la frittata dicendo sì, però l’ideale rimane. Secondo me il PCI si mosse in ritardo e l’antagonismo concorrenziale con il PSI fece il resto.
e poi venne giù il castello comunista
Nel momento del crollo del comunismo, alla casa del Popolo di Villasanta, si fece una bella serata di discussione. Comparvero persone che non si vedevano da una vita; parlarono persone che non parlavano mai. Erano disperate per la fine di un progetto a cui avevano dato tutto.
Volli essere ottimista mettendola sul fatto che la fine della competizione anche militare tra quei due mondi avrebbe messo in campo nuove risorse ed energie per l’umanità. Tutto quello che si spendeva in armamenti sarebbe andato in aiuti ed investimenti all’interno e per il terzo mondo. Ci credevo davvero, ma non è andata esattamente così su scala mondiale perché, come si è visto, Gorbaciov, molto popolare in Occidente, non lo era altrettanto in patria.
La Russia ha dapprima incassato il crollo dell’Unione Sovietica e poi ha ricominciato una politica sui confini occidentali che sogna la ricostituzione del vecchio impero zarista, poi staliniano-brezneviano e ora putiniano. Non è rimasto nulla di quello in cui avevo sperato: l’uomo nuovo educato alla razionalità scientifica e alla materialità della vita.
Non solo non è scomparsa la religione ortodossa che, come dice il nome, è in perenne ritardo culturale rispetto alla Chiesa romana, anzi la Chiesa ortodossa è diventata una delle stampelle importanti nel sistema di potere putiniano sempre pronta a giustificare le peggiori efferatezze.
La Russia si è rivelata un paese in perenne ritardo sui processi di rinnovamento sociale, tecnologico e culturale, sempre alle prese con le tematiche delle nazionalità, con i problemi del Caucaso che, ai vecchi tempi erano stati risolti con il tallone di ferro, mentre ora esplodono a macchia di leopardo.
E’ rimasto in piedi un paese che campa sulla enorme estensione del territorio e sulla ricchezza di materie prime con un sistema di gestione del potere basato sulla alleanza tra i nuovi capitalisti che hanno fatto i soldi all’ombra di Putin e il colosso militare che influenza la economia e fa da collante ideologico (il mito della grande Russia e della grande guerra patriottica).
in Italia dopo l’89
Intanto in Italia invece di puntare ad unico partito progressista in cui si incontrassero la moralità e l’organizzazione del PCI con l’innovazione del PSI si giocò la carta della reciproca distruzione e così ci ritrovammo Di Pietro e Berlusconi, poi Grillo e Salvini e infine Giorgia Meloni. Come diceva Nenni, troverai sempre uno più puro di te che prima o poi ti epura.
Non ho aderito alle diverse forme di organizzazione assunte dagli eredi del Pci essenzialmente perché ne ho visto un insufficiente coraggio nel rinnovarsi e incapacità di affrontare il superamento della storia del comunismo (PDS prima e DS poi). Nei primi anni 90 ci fu anche un brutto incidente politico mentre ero capogruppo in Consiglio Comunale. Lavorai per un anno in accordo con il gruppo, per dar vita ad un unico gruppo consiliare riformista che unisse gli 8 del PCI-lista aperta e i 6 del PSI per spezzare gli equilibri politici villasantesi (1 repubblicano, 1 socialdemocratico e 14 democristiani). All’ultimo momento la maggioranza del gruppo PCI cambiò idea. Credo che ci sia stato un intervento dall’alto e fu la rottura.
La II repubblica non ha rinnovato nulla e riprodotto la corruzione. Ho sperato nel partito democratico prima maniera, poi vista la deriva vecchio stile ho creduto nella speranza di rinnovare l’Italia ponendo mano alla II parte della costituzione. Ma pare che in Italia i riformisti, si tratti di istituzioni o di politiche sociali non godono di buona stampa e io osservo il tutto con amarezza e delusione.
Ci sarebbe molto da dire e da scrivere ma questo capitolo riguarda il periodo dal 77 al 91. Cisarà tempo e modo, più avanti di gettare uno sguardo sull’oggi. Come ha scritto Armando Pioltelli, che non è più tra noi, a commento della II edizione “Oggi è peggio di ieri votano chi promette, e vincono gli ubbidienti e non i capaci. E’ per questo che abbiamo una classe politica molto scarsa. Ho conosciuto giganti con la quinta elementare mentre oggi non vedo più giganti ma il loro opposto”.
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