Hannah Arendt – Margarethe von Trotta
Hanna Arendt (2012) avrebbe potuto essere una biografia della grande filosofa tedesca, magari una biografia intellettuale, intorno al suo lavoro monumentale sulle "Origini del totalitarismo" che ha portato la cultura europea a rivedere quello che era stato un dogma: il nazifascismo è stato un momento di impazzimento della nostra civiltà, lo stalinismo e il comunismo sono stati un regime dispotico ma che, rispetto al nazismo, va messo su un altro piano e merita un diverso giudizio morale. Hanna Arendt ha scavato in profondità alla ricerca degli elementi comuni. Così, da lei in poi, si parla di totalitarismo e le distinzioni si fanno dopo.
Il mio commento a caldo, anche sotto l'influenza della interpretazione asciutta di "Barbara Sukowa", è stato "una donna di cui innamorarsi": le pause, i silenzi, gli spiazzanti cambi di fronte.
Margarethe von Trotta non se l'è sentita di affrontare un tema del genere in meno di 2 ore di immagini e dialoghi. Non si può condensare la complessità, per di più su di un argomento così spinoso, in cui la teoria politica deve fare i conti con l'etica, con la filosofia e con la storia.
Così si è concentrata sul personaggio e lo ha fatto prendendo spunto dal processo ad Adolf Eichmann (Gerusalemme 1961) cui la Arendt presenziò, su sua stessa richiesta, come inviata della rivista "The New Yorker".
Eichmann fu condannato a morte ed impiccato nel maggio del 1962. Allora avevo 15 anni e da buon quindicenne pensavo ad altro e non ne ho memoria se non per qualche fuggevole inmmagine del TG nazionale di allora.
Il resoconto della Arendt uscì in 5 puntate nel 1963 e scatenò molte polemiche, in particolare sul tema della "collaborazione di fatto" data da esponenti delle comunità ebraiche alla organizzazione di Eichmann.
In realtà l'obiettivo di Hanna Arendt era un altro, quello di riflettere sul grigiume, sulla oggettività, sulla pervasività del male, sulla capacità del nazismo di trasformare tutti, carnefiici e vittime in complici atraverso la segmentazione delle responsabilità.
Nel film c'è lei, ci sono le sue riflessioni, le repliche spiazzanti, l'abtudine a pensare. Mi ha fatto venir voglia di rileggere "la banalità del male" alla luce della sceneggiatura della Von Trotta e magari riprendere in mano alcuni libri letti solo un paio d'anni fa come "sulla rivoluzione – 1963", "la disobbedienza civile ad altri saggi – 1953", "la condizione umana – 1958". Per inciso il titolo originale è "Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil".
Di fronte alle autorità accademiche che ne minacciano l'esonero Hanna Arendt tiene un vera lezione magistrale di fronte ai suoi studenti che la ascoltano come si ascolta un grande maestro. Il tema è lo stesso anazzito da Primo Levi nella "zona grigia".
Quando il New Yorker mi ha mandato a fare il reportage sul processo di Adolf Eichmann, supponevo che la corte avesse un unico interesse: di soddisfare le esigenze della giustizia.
Non era un compito facile, perche' la corte che processava Eichmann aveva a che fare con un crimine che non poteva trovare nei codici di legge.
E un criminale come quello era sconosciuto ai tribunali prima dei processi di Norimberga. Eppure, la corte doveva definire Eichmann come un uomo da giudicare per i suoi atti.
Non si processava un sistema, ne' la storia, ne' alcun -ismo, nemmeno l'antisemitismo, ma solo una persona.
Il problema con un criminale nazista come Eichmann era che lui insisteva nel rifiutare ogni implicazione personale, come se non ci fosse rimasto nessuno da punire ne' da perdonare.
Contraddiceva continuamente le affermazioni del pubblico ministero sostenendo che non aveva mai fatto nulla di sua propria iniziativa, che non aveva mai fatto nulla di sua intenzione ne' in bene ne' in male, che aveva solo obbedito agli ordini.
Questa scusa tipica dei nazisti mostra chiaramente che il piu' grande male del mondo e' il male compiuto da persone insignificanti, il male compiuto da persone che non hanno nessun motivo, nessuna convinzione, senza cuore malvagio o volonta' demoniaca.
Da esseri umani che rifiutano di essere persone. Ed e' questo fenomeno che io ho chiamato "la banalita' del male".
Non ho mai incolpato il popolo ebraico!
La resistenza era impossibile. Ma forse c'e' una via di mezzo tra la resistenza e la collaborazione. E solo in questo senso dico che forse alcuni capi ebrei avrebbero potuto comportarsi diversamente.
E' estremamente importante porsi queste domande, perche' il ruolo dei dirigenti ebrei da' la visione piu' scioccante dell'ampiezza del tracollo morale che i nazisti hanno provocato
nella rispettabile società europea.
E non solo in Germania ma in quasi tutti i paesi. Non solo tra i persecutori. Ma anche tra le vittime.
Io sono, naturalmente, come sapete, ebrea. E sono stata attaccata come ebrea autolesionista che difende i nazisti e disprezza il suo stesso popolo.
Questo non e' un argomento. Quella e' diffamazione!
Non ho scritto nessuna difesa di Eichmann. Ma ho cercato di conciliare la sconvolgente mediocrita' dell'uomo con le sue orrende azioni.
Cercare di capire non e' lo stesso che perdonare. Considero mia responsabilita' capire. E' il dovere di chiunque osi scrivere su questo argomento. Fin da Socrate e da Platone, noi consideriamo il pensiero come il dialogo silenzioso dell'io con se stesso.
Rifiutando di essere una persona, Eichmann ha completamente abbandonato quell'unica qualita' essenzialmente umana: la capacita' di pensare.
E di conseguenza, non era piu' in grado di produrre giudizi morali. Questa incapacita' di pensare ha permesso a molti uomini ordinari di commettere azioni malvagie di eccezionale portata, che non si erano mai viste prima.
Tutti cercano di dimostrarmi che sbaglio. Ma nessuno riconosce il mio vero unico errore.
Il male non puo' essere banale e radicale insieme.
Il male e' sempre estremo. Mai radicale.
Puo' essere profondo e radicale soltanto il bene.