ragionando di carcere e di indulto
Questa lettera è stata pubblicata oggi sul sito del Corriere e la condivido nella sua interezza perché parla delle carceri "vere" e dei problemi che le riguardano. Come si vede non hanno a che fare con l'indulto ma con la necessità di rivedere le regole della detenzione.
Nei mesi scorsi mi ero letto su Tempi le lettere dal carcere di Antonio Simone, il faccendiere ciellino implicato nello scandalo Daccò-Formigoni. Sempre le stesse questioni: il senso kakfkiano di annullamento, la stessa sensazione che provai nel 1970 appena arrivato al Centro Addestramentoi Reclute di Palermo: persone che gridano e più sono cretini tanto più gridano forte, spersonalizzazione, senso di insicurezza nello stare in un posto dove si vive male ma dove, soprattutto ti può accadere di tutto.
Nella sua lettera F.C. ci parla del VI braccio. Anche io ne ho sentito parlare qualche giorno fa in una interpellanza di un deputato 5 stelle al ministro della giustizia. Il II e III braccio sono chiusi per ristrutturazione imminente e ciò ha aggravato ulteriormente le condizioni di vita nel VI braccio di cui F.C. ci racconta. Là dentro non si sa nulla e tutto scorre lento … tutto è una conquista, anche le cose più scontate... i farmaci, la doccia, il cibo.
Quando ero un ragazzo questo nostro paese era pieno di istituzioni totali luoghi in cui la spersonalizzazione era la norma: gli ospedali psichiatrici, i tribunali, l'esercito, la fabbrica, la Chiesa e, in parte, la scuola e la famiglia. Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta. L'Italia si è umanizzata, ma non il carcere, non i centri di identificazione ed espulsione (come, ancora recentemente ci ha ricordato il caso Cucchi). L'ho già scritto e lo ripeto: ma perché nel 2013 le guardie carcerarie si fanno chiamare Superiore e guai se non ti adegui?
Diventerò favorevole all'indulto, un minuto dopo che si prenderanno misure urgenti a favore del lavoro in carcere (anche all'esterno), del riutilizzo delle caserme dismesse per farci carceri con diverse regole di funzionamento. E non mi porrei tanti problemi di sicurezza e/o di rischio fughe se l'alternativa è la eliminazione della pena o peggio la eliminazione del reato.
Il mio nome è F. C., sono un ex imprenditore, ora responsabile vendite di alcune aziende in Italia, marito felice e prossimo padre di una dolce creatura. La nostra ragione di vita. Vi scrivo perché da poco mi sono avvicinato al pianeta carcere, mio malgrado.
Fino allo scorso 12 giugno facevo parte di quella schiera di persone che non si sono mai interessate al problema delle carceri, guardando anche con un certo distacco tutto il fenomeno. Poi vi sono stato risucchiato.
Per 40 giorni circa sono stato un carcerato di San Vittore a Milano. Da uomo libero ora sento il diritto e il dovere di raccontare cosa può succedere tra quelle mura. Lo faccio per me, per la mia famiglia e per le persone che ho conosciuto in quell’ambiente e che meritano gratitudine. Sono stato processato in contumacia per bancarotta fraudolenta, pare per un difetto di notifica. Fatto sta che addosso a me e alla mia famiglia è precipitato un fulmine a cielo sereno. All’improvviso mi sono trovato lontano dal mio mondo, dalla mia vita, dalla mia famiglia. Non sapevo il perché e non lo ho saputo per diversi giorni.
Là dentro non si sa nulla, tutto scorre lento, indeterminato e non gestibile dalla nostra volontà. Ci sono voluti 42 giorni, fino al 24 luglio, affinché il tribunale riconoscesse il suo errore e disponesse la mia scarcerazione immediata. In questi 42 giorni ho cercato di trovare il mio equilibrio, combattendo una battaglia quotidiana con il sistema San Vittore, con quello che nella sua inchiesta «Le nostre prigioni» chiama Pianeta Carcere (che secondo me ben rappresenta ciò che si vive in ogni momento di detenzione).
Tutto è una conquista, anche le cose più scontate. Penso a cose semplici come fare una doccia, curare la salute, dormire su un cuscino, fare una passeggiata, una visita medica. Nulla può essere dato per scontato: una lettera che arriva in tempi certi, una telefonata, la spesa che arriva non dopo giorni di attesa, poter leggere un giornale. I detenuti (sì, quelli che all’esterno spesso si demonizzano o si ritengono scarti di società), sono quelli che mi hanno trattato con calore umano e solidarietà. Non è umanamente facile vivere in nove persone, come eravamo noi, in 15 mq senza potere mai uscire se non per 2-3 ore al giorno.
Io sono entrato in uno dei raggi peggiori, ovvero il VI. il più vecchio, non ristrutturato, con 4 docce per piano (ogni 170 detenuti circa). Delle 22 celle per ogni piano (4 piani) sono capitato nella migliore. La più grande e la più pulita. Il carcere di San Vittore è vecchio di oltre 100 anni. Dei sei raggi il secondo e il quarto sono chiusi in quanto non ci sono fondi per ristrutturarli. La capacità ufficiale del carcere è di mille persone circa nel reparto maschile. Ma credo che il numero reale si avvicini alle 1800 persone. Si arriva ad una media di circa 7- 8 persone per cella.
Nel corso di quelle settimane ho sentito dentro il bisogno di prendere appunti. Appunti che vorrei schematicamente condividere con lei in questa lettera, nella speranza che possano essere una utile testimonianza di cosa significhi «vivere» in un carcere italiano.
Il «Pianeta Carcere» è omertoso: i detenuti non denunciano le guardie e viceversa. Questo impedisce alle informazioni di fluire, protegge le ingiustizie e lo rende immune. Non si tratta del mio caso. Non ho subito violenze fisiche, né le ho viste direttamente accadere, ma ne ho viste le conseguenze sulla pelle di chi mi stava attorno.
Queste sono le cose che ho vissuto.
Distribuzione di psicofarmaci in maniera massiccia tra i detenuti. A una persona malata che era nella nostra cella mancavano 15 giorni alla fine della carcerazione. Aveva bisogno di morfina ma non ne poteva avere se non comprandola all’esterno, a sue spese, e attendendo che la direzione ne autorizzasse l’entrata. La farmacia del carcere non è in grado di procurarla.
La cosiddetta ora di aria è costituita da spazi di cemento circondati da muri di cemento. Fa eccezione un rubinetto per l’acqua. A San Vittore ci sono alcune stanze dedicate a piccoli corsi e servizi quali biblioteca, barbiere,etc. Purtroppo sono accessibili solo se c’è personale. Per fare un esempio, il barbiere è disponibile una volta alla settimana per ogni raggio del carcere.
Non esiste lavoro, che poi è l’essenza della «rieducazione». Solo 10 persone per ogni raggio erano impegnate in attività lavorative. E’ un lavoro retribuito per 3 ore, ma si inizia a lavorare alle 7,30 del mattino e si termina alle 17. Ovviamente i contributi vengono versati solo per le 3 ore previste. E nemmeno. Allo stipendio medio (che e’ di circa 250 euro al mese) vengono sottratti i costi di eventuali errori nello svolgimento del proprio lavoro. Ad esempio: se un addetto alla spesa sbaglia a distribuirla ne è responsabile pecuniariamente.
Nel carcere tutto è burocrazia, tutto viene regolato da una burocrazia lenta fatta di una modulistica che si sposta a mano. Le risposte alle domande a volte sono inesistenti. Per un colloquio con l’ispettore bisogna attendere un mese. Anche la corrispondenza postale dall’esterno impiega dai 2 ai 15 giorni per essere recapitata. Il sabato e la domenica non è possibile comunicare con nessuno. La presenza di polizia penitenziaria è ridotta all’osso. La sera, il mese di Agosto, la domenica e nei festivi non vi è presenza di alcun genere di personale. C’e’ una sola guardia ogni due o tre piani. Tenendo conto che le celle sono sempre chiuse, se non vi è il personale non si può fare nulla, nemmeno aprire la cancellata per pochi minuti.
Il cibo viene distribuito lungo il corridoio utilizzando un carrello. E’ lo stesso carrello che viene usato per portare la spesa ma anche per portare via i sacchi della spazzatura. Le malattie proliferano. il 15 giugno c’è stato ancora un caso di tubercolosi. Ci hanno fatto fare i test perché si temeva il contagio.
Non ci sono sistemi per richiamare l’attenzione del personale di controllo se non gridando. Se il personale non è presente al piano si può solo fare rumore per richiamarne l’attenzione. Nella cella accanto alla nostra la sera del 23 luglio una persona ha avuto un collasso. Il personale è arrivato solo dopo 30 minuti per portarlo al pronto soccorso. Alla domenica e nei festivi non è disponibile il medico, non ci si può lavare.
Le finestre sono di plastica bucata. D’inverno si gela. Occorre razionare le vivande perché non ce ne sono per tutti. E’ possibile fare la spesa da una lista di prodotti presenti allo spaccio, compilando un modulo. La spesa viene consegnata scaglionata. O a partire dal terzo giorno successivo, oppure, una volta al mese, viene consegnata dopo sette giorni dalla richiesta. I prodotti spesso non sono disponibili. Tra i detenuti ormai è frequente lo scambio di alimenti e favori. Fare la spesa non è formalmente obbligatorio, ma se si vogliono fare le pulizie, lavare i panni, lavare se stesso, cucinare, cambiare le lampadine… bisogna comprare i prodotti con i propri soldi. Il carcere non mette a disposizione nulla. Chi non se lo può permettere può mangiare dal carello, ma non può fare il resto se non grazie alla solidarietà di chi sta intorno. In poche parole resta segregato in cella. Si cucina in bagno, spesso accanto al gabinetto. Perché solo lì ci sono dei fornelli da campeggio alimentati da bombole di butano. Spesso accade che coperte e materassi non siano disponibili per i nuovi arrivati. Dormono per terra. Le lenzuola è possibile cambiarle una volta al mese.
La vita è difficile anche per i nostri cari. Lo spazio per i colloqui non è sufficiente. I parenti dei detenuti sono costretti a stare in coda già dalla notte precedente. Non di rado ci si trova in 30 persone all’interno di stanze di circa 20 mq dove è difficile capire persino l’altro che dice.
Spero che quanto testimoniato possa servire alla coscienza di qualcuno. Io pensavo che non mi sarebbe mai capitato. Mi è capitato. Ho sofferto, tanto, troppo. Sono stato scarcerato. Altri sono ancora lì dentro. Molti sono in attesa di un giudizio, non si sa se colpevoli o innocenti. Ma sono lì dentro, trattati più o meno come le ho descritto e come io ho vissuto ingiustamente per 40 giorni.
11 ottobre 2013