La città dolente: Mario Bonnard
La città dolente (1949) è stato girato a ridosso della assegnazione di Pola alla Jugoslavia (1947) in un periodo in cui i registi del neorealismo non si sarebbero sognati di mettersi in rotta di collisione con il partito (IL PARTITO) e in cui, d'altra parte i democristiani avevano tutto l'interesse a tenere la questione giuliana tra le cose di cui era meglio tacere. Si tratta in effetti di uno dei pochi film dedicati all'esodo italiano, lungamente dimenticato e rimesso in circolo dopo la istituzione della giornata del ricordo. Ho trovato, con difficoltà in rete la versione trasmessa da IRIS e il film può comunque essere visto su YOUTUBE (la città dolente).
I pregi: la colonna sonora, la presenza di numerose scene di tipo documentario sull'esodo da Pola: l'imbarco sulla motonave Toscana, la questione dei chiodi, le opinioni degli abitanti prossimi ad andarsene, le immagini iniziali di Pola romana e veneziana.
Le scene della partenza del Toscana con i polesi affacciati a guardare la loro città che si allontana sono accompagnate dal canto dell'esodo verdiano degli ebrei (O Signore dal tetto natio …) e risultano molto efficaci, così come le danze orientali del ballo popolare in onore del comandante Vidarich; c'è un mondo quieto e triste che se ne va e uno ritmato, danzante e duro che sta arrivando.
Tra i due mondi ci sono i comunisti istriani che prima si schierano a fianco della società giusta rappresentata dai titini e ben presto si rendono conto della fregatura. I due protagonisti maschili sono Berto, un operaio che si innamora dell'idea di appropriarsi delle macchine e il comprimario Sergio che sembra disegnato, anche fisicamente, per prendere in giro il militante comunista da "contrordine compagni" (si veda la locandina). Sergio fa il contabile nella fabbrica di Berto ed è un propagandista attivo della necessità di rimanere; subirà una serie di delusioni a partire dallo smatellamento degli impianti e finirà fucilato per aver consentito a Berto di fuggire da una campo di rieducazione in cui faceva da controllore (in altri ambiti si sarebbe detto Kapo).
Una curiosità: la commissaria politica del partito Lubitza, bionda e dai tratti slavi, è invece Constance Dowling, l'attrice americana di cui era innamorato Cesare Pavese che, dopo essere stato abbandonato da lei, si suicidò nel 1950. A lei sono dedicate le poesie di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Doveva essere realmente molto sensuale se il regista Elia Kazan che fu il suo amante prima della sua venuta in Italia, la racconta così nel suo diario: «Me la vedo in piedi immobile davanti a me, i suoi piccoli seni sodi, le gambe perfette, il suo ventre che sporge sensualmente come nelle donne delle pitture del Rinascimento italiano. E vedo il suo boschetto segreto, fragrante. Mi piacciono i suoi occhi quando facciamo l' amore. Trovo il mio piacere guardando il suo piacere. Quando viene, grida "Amore mio", poi, con una punta di tristezza, dice "Oddio" e infine "Non fermarti, non fermarti": la sua faccia è un misto di piacere e dolore (…). Il suo fiore delicato con i suoi petali gemelli mi fa impazzire. Non mi riesce pensare ad altro». Vengono in mente molti degli stralci di Pavese, sulle donne e sulla misoginia, nel diario Il mestiere di vivere.
Nel film la Dowling fa la comunista emancipata, sensuale e comunque dura; recita con lo sguardo e con il corpo: mi piaci ma hai bisogno di essere rieducato. Gli sguardi e alcune inquadrature mi hanno ricordato Marlene Dietrich.
Le debolezze: il film risente del periodo in cui è stato girato: i comunisti ci sono, ma non sono chiamati per nome, i titini che dovrebbero essere i nemici, i responsabili, non si vedono praticamente mai anche se fucilano e deportano. Il taglio generale è un po' da fotoromanzo (anche se nella sceneggiatura c'è la mano di Fellini):
- la moglie devoto preoccupata del bambino che se ne vuole andare e dopo l'arrivo dei titini se ne va davvero (alla madre che sempre conosce ed accetta lo sprito di sacrificio)
- Sergio è da manuale del marxismo leninismo nelle sue certezze, nel piegarsi ai titini che gli smontano pezzo a pezzo le sue certezze e poi, come per miracolo si immola per salvare l'amico a cui ha dato la fregatura
- Berto che ha scelto la separazione dalla moglie in nome del riscatto sociale è poco credibile quando, appena partita la moglie, prima va a letto con Lubitza e poi le vomita addosso tutte le sue delusioni per quello che stanno facendo (i dialoghi sono tagliati con l'accetta). Nel mezzo la moglie Silvana allatta il bambino sulla nave dell'esilio. Lubitza fa la dura, lo manda alla rieducazione ma prima della partenza raccomanda a Sergio di stargli vicino.
- la fuga dal campo di rieducazione, il girovagare con l'accoglienza presso un italiano semi-impazzito che muore con il mitra in mano e i titini che se ne vanno senza cercare Berto che è nella stessa casa, l'arrivo al mare dove c'è una barca provvidenziale, il remare verso l'Italia e una raffica di mitraglia partita non si sa da dove che chiude il film mentre la barca va alla deriva.
In conclusione: il film va visto perché si tratta di un documento sul clima di allora ma la vicenda giuliana meritava e merita film migliori.
Il mio voto: 6.5