La zona grigia: Tim Blake Nelson
La zona grigia (2001) prende il nome da uno dei capitoli dei Sommersi e salvati di Primo Levi e tratta la vicenda della ribellione di uno dei Sonderkommando di Auschwitz.
Levi ne parla nel suo ultimo libro di riflessione sulla Shoa e lascio a lui la parola perché il film altro non è che la sua trasposizione cinematografica. Le parti in corsivo sono di Levi mentre quelle in tondo sono le mie aggiunte, incluse le emozioni suscitate dalla visione del film. Per ragioni legate alla recensione ho spostato in fondo le considerazioni di Levi sulla Zona Grigia che stavano invece prima del racconto.
Miklos Nyiszli, medico ungherese, è stato fra i pochissimi superstiti dell'ultima Squadra Speciale di Auschwitz. Era un noto anatomo-patologo, esperto nelle autopsie, ed il medico capo delle SS di Birkenau, quel Mengele che è morto pochi anni fa sfuggendo alla giustizia, si era assicurato i suoi servizi; gli aveva riservato un trattamento di favore, e lo considerava quasi come un collega. Nyiszli doveva dedicarsi in specie allo studio dei gemelli: infatti, Birkenau era l'unico luogo al mondo in cui esistesse la possibilità di esaminare cadaveri di gemelli uccisi nello stesso momento. Accanto a questo suo incarico particolare, a cui, sia detto per inciso, non risulta che egli si sia opposto con molta determinazione, Nyiszli era il medico curante della Squadra, con cui viveva a stretto contatto.
Ebbene, egli racconta un fatto che mi pare significativo. Le SS, come ho detto, sceglievano accuratamente, dai Lager o dai convogli in arrivo, i candidati alle Squadre, e non esitavano a sopprimere sul posto coloro che si rifiutavano o si mostravano inadatti alle loro mansioni. Nei confronti dei membri appena assunti, esse mostravano lo stesso comportamento sprezzante e distaccato che usavano mostrare verso tutti i prigionieri, e verso gli ebrei in specie: era stato loro inculcato che si trattava di esseri spregevoli, nemici della Germania e perciò indegni di vivere; nel caso più favorevole, potevano essere obbligati a lavorare fino alla morte per esaurimento. Non così si comportavano invece nei confronti dei veterani della Squadra: in questi, sentivano in qualche misura dei colleghi, ormai disumani quanto loro, legati allo stesso carro, vincolati dal vincolo immondo della complicità imposta. Nyiszli racconta dunque di aver assistito, durante una pausa del "lavoro", ad un incontro di calcio fra SS e SK (Sonderkommando), vale a dire fra una rappresentanza delle SS di guardia al crematorio e una rappresentanza della Squadra Speciale; all'incontro assistono altri militi delle SS e il resto della Squadra, parteggiano, scommettono, applaudono, incoraggiano i giocatori, come se, invece che davanti alle porte dell'inferno, la partita si svolgesse sul campo di un villaggio.
Niente di simile è mai avvenuto, né sarebbe stato concepibile, con altre categorie di prigionieri; ma con loro, con i "corvi del crematorio", le SS potevano scendere in campo, alla pari o quasi. Dietro questo armistizio si legge un riso satanico: è consumato, ci siamo riusciti, non siete più l'altra razza, l'anti-razza, il nemico primo del Reich Millenario: non siete più il popolo che rifiuta gli idoli. Vi abbiamo abbracciati, corrotti, trascinati sul fondo con noi. Siete come noi, voi orgogliosi: sporchi del vostro sangue come noi. Anche voi, come noi e come Caino, avete ucciso il fratello. Venite, possiamo giocare insieme.
Nel film non si vedono partite di calcio, ma rispetto alle testimonianze scritte e filmate, la vita del Sonderkommando che si vede nel film è del tutto simile a quella delle SS: libertà di movimento, cibo, gioielli in cambio della efficienza nel fare il lavoro sporco.
Per la prima volta ho visto la dinamica dell'ingresso nelle camere a gas, la processione degli ebrei disciplinati, l'orchestrina dei detenuti, i praticelli con l'impianto di innaffiamento, il lavaggio dei cadaveri nudi ammassati sul pavimento, l'espianto delle protesi dentarie, i montacarichi e il funzionamento in parallelo dei forni: un disimpegno e tante bocche da caricare con carrelli semimanuali. Nei campi che ho visitato ho visto i forni a Guisen e a Mathausen ma si trattava di unità di pochi posti perché erano campi di annientamento attraverso il lavoro e non campi di sterminio. Vedere certi processi non è come leggerne la descrizione e, nel film, pur senza andare nel macabro la rappresntazione è molto rigorosa e realistica.
Altrettanto impressionante è il ruolo di tranqullizzazione verso le persone che gli addetti al Sonderkommando svolgono. Come per tanti altri aspetti della organizazion e nazista le SS stanno un passo indietro. La macchina è stata studiata alla perfezione e funziona in ogni dettaglio. Un detenuto dall'aria paciosa ti rassicura di più di un militare con il cane lupo: appendete i vostri vestiti al gancio numerato e ricordatevi il numero, legate tra di loro le scarpe per evitare che nella confusione si disperdano, …
Nyiszli racconta un altro episodio da meditare. Nella camera a gas sono stati stipati ed uccisi i componenti di un convoglio appena arrivato, e la Squadra sta svolgendo il lavoro orrendo di tutti i giorni, districare il groviglio di cadaveri, lavarli con gli idranti e trasportarli al crematorio, ma sul pavimento trovano una giovane ancora viva. L'evento è eccezionale, unico; forse i corpi umani le hanno fatto barriera intorno, hanno sequestrato una sacca d'aria che è rimasta respirabile. Gli uomini sono perplessi; la morte è il loro mestiere di ogni ora, la morte è una consuetudine, poiché, appunto, "si impazzisce il primo giorno oppure ci si abitua", ma quella donna è viva. La nascondono, la riscaldano, le portano brodo di carne, la interrogano: la ragazza ha sedici anni, non si orienta nello spazio né nel tempo, non sa dov'è, ha percorso senza capire la trafila del treno sigillato, della brutale selezione preliminare, della spogliazione, dell'ingresso nella camera da cui nessuno è mai uscito vivo. Non ha capito, ma ha visto; perciò deve morire, e gli uomini della Squadra lo sanno, così come sanno di dover morire essi stessi e per la stessa ragione. Ma questi schiavi abbrutiti dall'alcool e dalla strage quotidiana sono trasformati; davanti a loro non c'è più la massa anonima, il fiume di gente spaventata, attonita, che scende dai vagoni: c'è una persona.
La giovane sopravvissuta diventerà un problema perché il Sonderkommando ungherese è prossimo alla scadenza dei 4 mesi (trascorsi i quali i componenti vengono uccisi e fatti bruciare dalle nuove reclute). Si sta organizzando una rivolta in contatto con un altro commando di polacchi. Si pensa di far saltare i forni e di scegliere la morte combattendo come forma di espiazione. La giovane sopravvissuta, per il fatto di esserne uscita viva diventa portatrice di nuovi diritti e d'altra parte rischia di creare problemi organizzativi.
Come non ricordare l'"insolito rispetto" e l'esitazione del "turpe monatto" davanti al caso singolo, davanti alla bambina Cecilia morta di peste che, nei Promessi Sposi, la madre rifiuta di lasciar buttare sul carro confusa fra gli altri morti? Fatti come questi stupiscono, perché contrastano con l'immagine che alberghiamo in noi, dell'uomo concorde con se stesso, coerente, monolitico; e non dovrebbero stupire, perché tale l'uomo non è. Pietà e brutalità possono coesistere, nello stesso individuo e nello stesso momento, contro ogni logica; e del resto, la pietà stessa sfugge alla logica. Non esiste proporzionalità tra la pietà che proviamo e l'estensione del dolore da cui la pietà è suscitata: una singola Anna Frank desta più commozione delle miriadi che soffrirono come lei, ma la cui immagine è rimasta in ombra. Forse è necessario che sia così; se dovessimo e potessimo soffrire le sofferenze di tutti, non potremmo vivere. Forse solo ai santi è concesso il terribile dono della pietà verso i molti; ai monatti, a quelli della Squadra Speciale, ed a noi tutti, non resta, nel migliore dei casi, che la pietà saltuaria indirizzata al singolo, al Mitmensch, al co-uomo: all'essere umano di carne e sangue che sta davanti a noi, alla portata dei nostri sensi provvidenzialmente miopi.
Viene chiamato un medico, Nyiszli, che rianima la ragazza con una iniezione: sì, il gas non ha compiuto il suo effetto, potrà sopravvivere, ma dove e come? In quel momento sopraggiunge Muhsfeld, uno dei militi SS addetti agli impianti di morte; il medico lo chiama da parte e gli espone il caso. Muhsfeld esita, poi decide: no, la ragazza deve morire; se fosse più anziana il caso sarebbe diverso, avrebbe più senno, forse la si potrebbe convincere a tacere su quanto le è accaduto, ma ha solo sedici anni: di lei non ci si può fidare. Tuttavia non la uccide di mano sua, chiama un suo sottoposto che la sopprima con un colpo alla nuca. Ora, questo Muhsfeld non era un misericorde; la sua razione quotidiana di strage era trapunta di episodi arbitrari e capricciosi, segnata da sue invenzioni di raffinata crudeltà. Fu processato nel 1947, condannato a morte e impiccato a Cracovia, e questo fu giusto; ma neppure lui era un monolito. Se fosse vissuto in un ambiente ed in un'epoca diversi, è probabile che si sarebbe comportato come qualsiasi altro uomo comune.
Nei Fratelli Karamazov, Grušen'ka racconta la favola della cipollina. Una vecchia malvagia muore e va all'inferno, ma il suo angelo custode, sforzando la memoria, ricorda che essa, una volta, una sola, ha donato ad un mendicante una cipollina che ha cavata dal suo orto: le porge la cipollina, e la vecchia vi si aggrappa e viene tratta dal fuoco infernale. Questa favola mi è sempre sembrata rivoltante: quale mostro umano non ha mai donato in vita sua una cipollina, se non ad altri ai suoi figli, alla moglie, al cane? Quel singolo attimo di pietà subito cancellata non basta certo ad assolvere Muhsfeld, basta però a collocare anche lui, seppure al margine estremo, nella fascia grigia, in quella zona di ambiguità che irradia dai regimi fondati sul terrore e sull'ossequio.
Non è difficile giudicare Muhsfeld, e non credo che il tribunale che lo ha condannato abbia avuto dubbi; per contro, il nostro bisogno e la nostra capacità di giudicare si inceppano davanti alla Squadra Speciale. Subito sorgono le domande, domande convulse, a cui è dura impresa dare una risposta che ci tranquillizzi sulla natura dell'uomo. Perché hanno accettato quel loro compito? Perché non si sono ribellati, perché non hanno preferito la morte?
Nel film la parte della rivolta è, giustamente, molto breve. La superiorità in armi ed organizzazione dei nazisti ha la meglio, ma alcuni forni vengono fatti saltare e non saranno ripristinati (siamo nell'autunno del 44). I superstiti vengono fatti allineare a terra e giustiziato con un colpo alla nuca. Per ultima viene uccisa la giovane sopravvissuta.
Nel caso dei Sonderkommando si esita a parlare di privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto (ma a quale costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente vaga, "Squadra Speciale", veniva indicato dalle SS il gruppo di prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava mantenere l'ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d'oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, da 700 a 1000 effettivi.
Queste Squadre Speciali non sfuggivano al destino di tutti; anzi, da parte delle SS veniva messa in atto ogni diligenza affinché nessun uomo che ne avesse fatto parte potesse sopravvivere e raccontare. Ad Auschwitz si succedettero dodici squadre; ognuna rimaneva in funzione qualche mese, poi veniva soppressa, ogni volta con un artificio diverso per prevenire eventuali resistenze, e la squadra successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori. L'ultima squadra, nell'ottobre 1944, si ribellò alle SS, fece saltare uno dei crematori e fu sterminata in un diseguale combattimento. I superstiti delle Squadre Speciali sono dunque stati pochissimi, sfuggiti alla morte per qualche imprevedibile gioco del destino. Nessuno di loro, dopo la liberazione, ha parlato volentieri, e nessuno parla volentieri della loro spaventosa condizione. Le notizie che possediamo su queste Squadre provengono dalle scarne deposizioni di questi superstiti; dalle ammissioni dei loro "committenti" processati davanti a vari tribunali; da cenni contenuti in deposizioni di "civili" tedeschi o polacchi che ebbero casualmente occasione di venire a contatto con le squadre; e finalmente, da fogli di diario che vennero scritti febbrilmente a futura memoria, e sepolti con estrema cura nei dintorni dei crematori di Auschwitz, da alcuni dei loro componenti. Tutte queste fonti concordano tra loro, eppure ci riesce difficile, quasi impossibile, costruirci una rappresentazione di come questi uomini vivessero giorno per giorno, vedessero se stessi, accettassero la loro condizione.
In un primo tempo, essi venivano scelti dalle SS fra i prigionieri già immatricolati nei Lager, ed è stato testimoniato che la scelta avveniva non soltanto in base alla robustezza fisica, ma anche studiando a fondo le fisionomie. In qualche raro caso, l'arruolamento avvenne per punizione. Più tardi, si preferì prelevare i candidati direttamente sulla banchina ferroviaria, all'arrivo dei singoli convogli: gli "psicologi" delle SS si erano accorti che il reclutamento era più facile se si attingeva da quella gente disperata e disorientata, snervata dal viaggio, priva di resistenze, nel momento cruciale dello sbarco dal treno, quando veramente ogni nuovo giunto si sentiva alla soglia del buio e del terrore di uno spazio non terrestre.
Le Squadre Speciali erano costituite in massima parte da ebrei. Per un verso, questo non può stupire, dal momento che lo scopo principale dei Lager era quello di distruggere gli ebrei, e che la popolazione di Auschwitz, a partire dal 1943, era costituita da ebrei per il 90-95%; sotto un altro aspetto, si rimane attoniti davanti a questo parossismo di perfidia e di odio: dovevano essere gli ebrei a mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-razza, sotto-uomini, si piegano ad ogni umiliazione, perfino a distruggere se stessi. D'altra parte, è attestato che non tutte le SS accettavano volentieri il massacro come compito quotidiano; delegare alle vittime stesse una parte del lavoro, e proprio la più sporca, doveva servire (e probabilmente servì) ad alleggerire qualche coscienza.
Beninteso, sarebbe iniquo attribuire questa acquiescenza a qualche particolarità specificamente ebraica: delle Squadre Speciali fecero parte anche prigionieri non ebrei, tedeschi e polacchi, però con le mansioni "più dignitose" di Kapos; ed anche prigionieri di guerra russi, che i nazisti consideravano solo di uno scalino superiori agli ebrei. Furono pochi, perché ad Auschwitz i russi erano pochi (vennero in massima parte sterminati prima, subito dopo la cattura, mitragliati sull'orlo di enormi fosse comuni): ma non si comportarono in modo diverso dagli ebrei.
Le Squadre Speciali, in quanto portatrici di un orrendo segreto, venivano tenute rigorosamente separate dagli altri prigionieri e dal mondo esterno. Tuttavia, come è noto a chiunque abbia attraversato esperienze analoghe, nessuna barriera è mai priva di incrinature: le notizie, magari incomplete e distorte, hanno un potere di penetrazione enorme, e qualcosa trapela sempre. Su queste Squadre, voci vaghe e monche circolavano già fra noi durante la prigionia, e vennero confermate più tardi dalle altre fonti accennate prima, ma l'orrore intrinseco di questa condizione umana ha imposto a tutte le testimonianze una sorta di ritegno; perciò, oggi ancora è difficile costruirsi un'immagine di "cosa volesse dire" essere costretti ad esercitare per mesi questo mestiere. Alcuni hanno testimoniato che a quegli sciagurati veniva messa a disposizione una grande quantità di alcolici, e che essi si trovavano permanentemente in uno stato di abbrutimento e di prostrazione totali. Uno di loro ha dichiarato: "A fare questo lavoro, o si impazzisce il primo giorno, oppure ci si abitua". Un altro, invece: "Certo, avrei potuto uccidermi o lasciarmi uccidere; ma io volevo sopravvivere, per vendicarmi e per portare testimonianza. Non dovete credere che noi siamo dei mostri: siamo come voi, solo molto più infelici".
È evidente che queste cose dette, e le altre innumerevoli che da loro e fra di loro saranno state dette ma non ci sono pervenute, non possono essere prese alla lettera. Da uomini che hanno conosciuto questa destituzione estrema non ci si può aspettare una deposizione nel senso giuridico del termine, bensì qualcosa che sta fra il lamento, la bestemmia, l'espiazione e il conato di giustificarsi, di recuperare se stessi. Ci si deve aspettare piuttosto uno sfogo liberatorio che una verità dal volto di Medusa.
Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Dietro all'aspetto pragmatico (fare economia di uomini validi, imporre ad altri i compiti più atroci) se ne scorgono altri più sottili. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti. Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli. Si prova la tentazione di torcere il viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve opporre. Infatti, l'esistenza delle Squadre aveva un significato, conteneva un messaggio: "Noi, il popolo dei Signori, siamo i vostri distruttori, ma voi non siete migliori di noi; se lo vogliamo, e lo vogliamo, noi siamo capaci di distruggere non solo i vostri corpi, ma anche le vostre anime, così come abbiamo distrutto le nostre ".
In certa misura, i fatti di cui disponiamo ci permettono di tentare una risposta. Non tutti hanno accettato; alcuni si sono ribellati sapendo di morire. Di almeno un caso abbiamo notizia precisa: un gruppo di quattrocento ebrei di Corfù, che nel luglio 1944 era stato inserito nella Squadra, rifiutò compattamente il lavoro, e venne immediatamente ucciso col gas. È rimasta memoria di vari altri ammutinamenti singoli, tutti subito puniti con una morte atroce (Filip Müller, uno fra i pochissimi superstiti delle Squadre, racconta di un suo compagno che le SS introdussero vivo nella fornace), e di molti casi di suicidio, all'atto dell'arruolamento o subito dopo. Infine, è da ricordare che proprio dalla Squadra Speciale fu organizzato, nell'ottobre 1944, l'unico disperato tentativo di rivolta nella storia dei Lager di Auschwitz, a cui già si è accennato.
Le notizie che di questa impresa sono pervenute fino a noi non sono né complete né concordi; si sa che i rivoltosi (gli addetti a due dei cinque crematori di Auschwitz-Birkenau), male armati e privi di contatti con i partigiani polacchi fuori del Lager e con L'organizzazione clandestina di difesa entro il Lager, fecero esplodere il crematorio n. 3 e diedero battaglia alle SS. Il combattimento finì molto presto; alcuni degli insorti riuscirono a tagliare il filo spinato ed a fuggire all'esterno, ma furono catturati poco dopo. Nessuno di loro è sopravvissuto; circa 450 furono immediatamente uccisi dalle SS; di queste, tre furono uccise e dodici ferite.
Quelli di cui sappiamo, i miserabili manovali della strage, sono dunque gli altri, quelli che di volta in volta preferirono qualche settimana in più di vita (quale vita!) alla morte immediata, ma che in nessun caso si indussero, o furono indotti, ad uccidere di propria mano. Ripeto: credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto 1'esperienza del Lager, tanto meno chi non l'ha conosciuta. Vorrei invitare chiunque osi tentare un giudizio a compiere su se stesso, con sincerità, un esperimento concettuale: immagini, se può, di aver trascorso mesi o anni in un ghetto, tormentato dalla fame cronica, dalla fatica, dalla promiscuità e dall'umiliazione; di aver visto morire intorno a sé, ad uno ad uno, i propri cari; di essere tagliato fuori dal mondo, senza poter ricevere né trasmettere notizie; di essere infine caricato su un treno, ottanta o cento per vagone merci; di viaggiare verso l'ignoto, alla cieca, per giorni e notti insonni; e di trovarsi infine scagliato fra le mura di un inferno indecifrabile. Qui gli viene offerta la sopravvivenza, e gli viene proposto, anzi imposto, un compito truce ma imprecisato. È questo, mi pare, il vero Befehlnotstand, lo "stato di costrizione conseguente a un ordine": non quello sistematicamente ed impudentemente invocato dai nazisti trascinati a giudizio, e più tardi (ma sulle loro orme) dai criminali di guerra di molti altri paesi. Il primo è un aut-aut rigido, l'obbedienza immediata o la morte; il secondo è un fatto interno al centro di potere, ed avrebbe potuto essere risolto (in effetti spesso fu risolto) con qualche manovra, con qualche ritardo nella carriera, con una moderata punizione, o, nel peggiore dei casi, col trasferimento del renitente al fronte di guerra.
L'esperimento che ho proposto non è gradevole; ha tentato di rappresentarlo Vercors, nel suo racconto Les armes de la nuit (Albin Michel, Paris 1953) in cui si parla della "morte dell'anima", e che riletto oggi mi appare intollerabilmente infetto di estetismo e di libidine letteraria. Ma è indubbio che di morte dell'anima si tratta; ora, nessuno può sapere quanto a lungo, ed a quali prove, la sua anima sappia resistere prima di piegarsi o di infrangersi. Ogni essere umano possiede una riserva di forza la cui misura gli è sconosciuta: può essere grande, piccola o nulla, e solo l'avversità estrema dà modo di valutarIa. Anche senza ricorrere al caso-limite delle Squadre Speciali, accade spesso a noi reduci, quando raccontiamo le nostre vicende, che l'interlocutore dica: "Io, al tuo posto, non avrei resistito un giorno". L'affermazione non ha un senso preciso: non si è mai al posto di un altro. Ogni individuo è un oggetto talmente complesso che è vano pretendere di prevederne il comportamento, tanto più se in situazioni estreme; neppure è possibile antivedere il comportamento proprio. Perciò chiedo che la storia dei "corvi del crematorio" venga meditata con pietà e rigore, ma che il giudizio su di loro resti sospeso.
Il mio giudizio sul film: 9 per la capacità di rendere, senza eccedere, la realtà dello sterminio e della sua organizzazione. Questa volta le immagini valgono di più della descrizione cartacea