L’opera al nero: Gian Maria Volontè
L'opera al nero (1988) è un film franco-belga di Andrè Delvaux e appartiene al periodo dei migliori film di Gian Maria Volontè che impersona il medico-alchimista Zenon nel romanzo più importante, dopo le memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar.
E' passato un po' di tempo dall'ultima recensione, quella di Una sconfinata giovinezza e la ragione è dovuta alla scelta di vedere il film, rileggere il romanzo e rivedere il film.
Avevo letto il romanzo, dono di una collega filosofa, nei primi anni 80 e da allora lo avevo consigliato a molte persone senza più riprenderlo in mano. Mi era rimasto dentro il ricordo della figura del protagonista, la sua lotta in difesa della ricerca e della ragione, la scelta finale del suicidio come risposta alla alternativa tra abiura e rogo.
La scelta di rileggere mi è venuta perché vedendo il film mi sono chiesto se i romanzi storico filosofici si possano portare sullo schermo. Cosa si perde? Me l'ero chiesto a suo tempo con "Il nome della rosa". La perdita c'è: la riflessione storico-filosofica, per quanto il regista sia bravo non può stare nelle sequenze.
Per esempio, è del tutto evidente che un brano come questo in cui Zenone traccia un bilancio di sè conversando con il cugino soldato di ventura, non potrà mai stare in nessun film:
Detto questo sono certamente di più quelli che hanno visto il film "Il nome della rosa" con Sean Connery bravissimo a fare il monaco filosofo di quelli che hanno letto il libro di Eco. Avranno perso una serie di considerazioni storico-filosofiche, ma hanno comunque avuto un messaggio sul Papato ai tempi di Avignone, sulla rivoluzione francescana, sui domenicani e sui dolciniani.
Così accade con L'Opera al Nero (una delle fasi del processo alchemico) anche se il film, ignorando del tutto la fase giovanile di Zenon Ligre non ci racconta di come Zenon diventi quello che è (l'impegno nel progettare i primi telai meccanici, il rapporto con il maestro Campanus che vorrebbe portarlo alla carriera ecclesiastica, il rapporto con la madre) e si incentri solo sulla fase finale della vita.
Zenon ritorna nella natia Bruges dopo aver grovagato per l'intera Europa. Ci arriva da Parigi dove hanno messo al rogo i suoi libri di teologia e di etica. Torna nella sua città dopo molti anni stufo di girovagare; lo fa sotto il falso nome di Sebastian Theùs; si reca dal cerusico con cui aveva mosso, da ragazzo, i primi passi nella medicina e in accordo con l'abate del convento dei Cordiglieri cura i poveri cristi di Bruges (barboni, perseguitati dalla Inquisizione Spagnola, gente del popolo).
Il priore dei Cordiglieri muore per un cancro alla laringe che Zenon ha riconosciuto ma che non può estirpare data la posizione e Zenon medita di fuggire in Inghilterra (ora che il suo protettore, che l'ha riconosciuto, è scomparso). Non lo farà ma ci prova e veniamo così in contatto con il mondo degli eretici in fuga e dei pescatori compiacenti (gli scafisti di allora).
Quando si trova tirato dentro una losca vicenda di amorazzi tra i frati e due ospiti di un convento femminile terminata con un infanticidio, svela chi è e viene processato con gli onori del suo rango. Zenon è pur sempre un cadetto di una delle famiglie di banchieri che hanno in mano l'Europa (siamo a metà del 500). Così mentre il processo, per le parti di rilevanza penale, si conclude a suo favore perché nulla risulta provato, non è così per le accuse di ateismo. Nel film, ma soprattutto nel romanzo, c'è l'Eco dei dibattiti in cui finirono Copernicus, Pomponazzi, Giordano Bruno e Galilei. Zenon viene condannato al rogo ma potrà salvarsi se abiura.
Il cugino Ligre, capo della banca e marito di una sorellastra di Zenon, allertato dal maestro di gioventù il canonico Bartolomeo Campanus sceglie di non intervenire nei confronti del procuratore generale, suo debitore: se intervengo il procuratore lo salva perché è mio debitore, ma allora sono io a diventare suo debitore.
Tra il fuoco e l'ignominia Zenon sceglie il suicidio. Con una lama da chirurgo che aveva occultato nello scrittoio si svena. Prepara con accuratezza la scena: con una coperta sul pavimento fa una piccola diga che impedirà che il sangue arrivi sino alla porta, si denuda e si fa due tagli alla vena tibiale e alla arteria del braccio.
Sono le ultime sequenze del film e Volontè è bravissimo nel rendere lo stato d'animo della morte che viene, il cuore che pompa un sangue sempre più ridotto, la difficoltà nel respirare, la perdita della coscienza. Ma oltre alla scena finale, la resa cinematografica degli ambienti è molto accurata e ben fatta (la peste e l'incontro con la sorellastra, la casa del cerusico, il convento, il processo).
Chiudo segnalando le note al romanzo di Marguerite Yourcenar che andrebbero lette prima del romanzo stesso. La scrittrice ne spiega la genesi (dagli anni 30 quando scrive un racconto sul tema, al 68 quando esce il romanzo) e fa una serie di precisazioni relative a tutti i personaggi reali cui si è ispirata nell'inventare Zenon.
Maledetti, non mi avrete.
Il mio voto: 8,5 al film e 9,5 al romanzo.