non era un parlar male, era un parlare guastato
Domenico Starnone – Prima Esecuzione – Feltrinelli
Cominciava un viaggio in treno molto angoscioso. Sospetti, facce ambigue, frasi oscure. L'intercity viaggiava verso nord fiaccamente e a tratti appariva il mare, scaglie blu incollate al finestrino. Per ore Stasi (che però non aveva ancora un nome, all'epoca) sedeva in uno scompartimento di seconda classe insieme a cinque giovani rumorosi – venticinque-trent'anni, meridionali – che ridevano, scherzavano, litigavano. Erano tre maschi e due femmine, parlavano di un colloquio di lavoro da fare all'indomani, tutti con laurea, una ragazza ne aveva due. Inscenavano, a un certo punto, una gara a chi aveva accumulato più titoli di merito. Il professore prestava attenzione soprattutto al loro linguaggio. Avrebbero potuto essere suoi ex alunni, pensava. Ma non avevano niente della lingua che si era dato lui crescendo e studiando, niente dello sforzo che aveva fatto fin da bambino per sfuggire al dialetto come a un maleficio e costruirsi un eloquio magico, buono per discorsi distesi come nei libri. Il suo linguaggio era stato strutturato per la mediazione affabile, afferrava, conteneva, tratteneva. I cinque invece avevano una lingua spezzata, strozzata. Se avesse dovuto trascriverla, Stasi avrebbe usato soprattutto punti di sospensione e trattini e punti interrogativi, anche nel cuore delle singole parole (uno dei giovani diceva spesso discrasia come se il vocabolo a pronunciarlo si lacerasse).
Non era un parlar male, era un parlare guastato. Più Genova si avvicinava, più il professore si accorgeva che dalle crepe nelle frasi filtrava qualcosa di pericoloso, un veleno. I ragazzi si raccontavano la loro disperazione per la vita che passava senza compenso, per l'impegno negli studi profuso inutilmente. Credevano di essere fin troppo preparati ad attraversare trionfalmente il mondo e perciò detestavano i nemici oscuri che glielo impedivano. Detestavano i vecchi che non si ritiravano nella vecchiaia, detestavano i loro coetanei che per privilegi familiari occupavano senza fatica posti di rilievo truccando così ogni competizione. Detestavano i manager, i master e gli stage. Detestavano i politici, il presidente del consiglio, quello della camera, quello del senato, il presidente della repubblica, tutte le istituzioni, e soprattutto, in quel momento specifico, le ferrovie dello stato e il controllore che passava chiedendo biglietto prego. Detestavano Stasi, chiuso nel suo angolino in silenzio: l'anziano citrullo, forse mormoravano tra loro ghignando, il vecchio 'nzallanuto, inselenuto cioè, rapinato del cervello da Selene. Uno di loro, rosso di capelli, una gran fronte bianchissima, usava spesso, con finto entusiasmo, il verbo mercatizzare: evviva, diceva, gli organi mondiali della mercatizzazione ci hanno mercatizzato anche il respiro.
Stasi – in questa mia ipotesi – provava a intervenire una sola volta per dire:
«I padroni cercano personale obbediente. L'istruzione invece rende disobbedienti».
Il giovane con la fronte bianchissima rispondeva subito, incattivito dall'intrusione:
«Quale disobbedienza? A me mi devono dire solo quello che devo fare e io obbedisco. Lo voglio un padrone, lo desidero, altroché. Il problema è che nessuno mi vuole comandare».
A Genova Principe il professore scendeva in gran fretta, intossicato, lui vecchio, dalla rabbia, dall'odio che spandevano i suoi giovani compagni di viaggio.