Perché la sinistra ha perso gli operai
Gli Istituti di ricerca che analizzano i flussi elettorali documentano, in modo convergente, il passaggio a destra degli operai. In Italia, in Francia, in Germania, in Spagna operai hanno votato in misura crescente i partiti di estrema destra.
Il fenomeno non è nuovo. Ma oggi è una frana. Dario Di Vico in un articolo del Corriere della Sera, intitolato “Il robot non si iscrive al sindacato e il voto dei perdenti finisce a destra”, riporta uno studio dell’Università Bocconi sugli effetti che gli shock dell’automazione e della globalizzazione hanno sui tassi di sindacalizzazione.
Più alti, al 30% di sindacalizzazione, stanno i dipendenti dell’Istruzione, poi viene la Pubblica amministrazione, più sotto Trasporto, magazzinaggio, comunicazioni. Al quarto posto gli addetti alla Manifattura attorno al 15%. Il venir meno dell’intermediazione sindacale sembra preparare le condizioni per il passaggio all’intermediazione politica di destra estrema.
Quale spiegazione?
Ciò che è accaduto accade a livello economico-sociale è noto: la formidabile trasformazione tecnologica della produzione ha frammentato e sempre più sostituito il lavoro umano, la globalizzazione ha bucato i confini tra Stati, culture, identità storiche, istituzioni, generando inestricabili interdipendenze sociali e culturali.
I cambiamenti hanno cause oltreconfine, le istituzioni per governarli restano al di qua del confine. L’economia è globale, gli Stati e la politica restano nazionali, le vite reali delle persone sono “locali”. Donde lo scarto e l’ingovernabilità mondiale, di cui il disordine geopolitico mondiale è effetto e causa.
Fin qui i fatti.
L’Io minimo di Lasch
A questo punto, i singoli individui – giovani, operai, pensionati… – sono costretti a rifugiarsi nell’ “Io minimo”. Il sociologo americano lo ha descritto nel 1984 in “The Minimal Self: Psychic Survival in Troubled Times” (tradotto “L’Io minimo e la sopravvivenza psichica in tempi difficili”): “Con l’accentuarsi della percezione dello sradicamento l’Io si contrae, si riduce a un nucleo difensivo armato contro le avversità. Diventa un’individualità che non è né “sovrana” né “narcisistica”, bensì “assediata”. Donde “la deificazione della mera sopravvivenza”, citando dal filosofo americano William James. Di fronte alle potenze della Storia, a ciascuno resta solo la strada del bricolage quotidiano individuale.
Quarant’anni dopo, questa analisi profetica aiuta a comprendere la nostra condizione esistenziale qui in Occidente e anche a capire i flussi elettorali.
La nuova sinistra della distribuzione, dei diritti, del “Green”
Nella risposta a questa condizione sono mutate la “sinistra” e la “destra”. La sinistra fino agli anni ’80 proponeva agli operai di fabbrica il mito della “funzione nazionale della classe operaia”.
Era la traslazione della “dittatura del proletariato” in un contesto liberal-democratico. Dentro stava un nocciolo razionale: la produzione – e la sua componente decisiva il lavoro – è il motore della civilizzazione umana e della Storia.
Perciò gli operai, comunque differenziati per funzioni tecniche nella produzione e comunque “sfruttati”, avevano una missione storica e universale. Il sindacato difendeva gli interessi immediati, il partito forniva loro l’orizzonte di senso: gli operai diventavano “una classe”, il cui compito era sviluppare la civiltà e redimersi dall’alienazione nel presente, fino a diventare “padroni” del processo produttivo. L’operaio realizzava la sua umanità nel lavoro.
Solo che i cambiamenti tecnologici, la deindustrializzazione e il suicidio industriale del nostro Paese hanno mandato in frantumi la base sociale di quel mito. La produzione esiste sempre, ma i suoi agenti si sono tecnicamente e socialmente differenziati. E la sinistra ne ha tratto una conclusione più larga delle premesse: ha abbandonato l’idea seminale di Marx del ruolo della produzione e del lavoro nella storia umana.
È paradossale, o forse no, che questa idea sia stata invece rilanciata nell’Enciclica “Laborem exercens” di Giovanni Paolo II del 14 settembre 1981, a sostegno di Solidarnosc: il lavoro come continuazione dell’atto creativo di Dio. Al posto della “produzione” la sinistra ha messo “la distribuzione”, via-Welfare e via-servizi. Le statistiche sugli addetti sindacalizzati lo rivelano.
E al posto dell’internazionalismo del Movimento operaio ha teorizzato quello dei diritti e quello “Green”. Esaurita la riserva escatologica dei “domani che cantano”, si è buttata con rinnovato accanimento ideologico su questo nuovo mood, tra LGBTQ+ e Green, senza fare i conti con il presente socio-economico in faticosa e pericolosa transizione. Benedetto Croce li chiamerebbe “energumeni del nuovo”.
Il populismo dell’Io arrabbiato e la nuova destra
Se la Sinistra ha preso le parti dell’Io narciso, dell’Io sovrano, la Destra quelle dell’Io assediato e arrabbiato. Non più la destra conservatrice del “padrone delle ferriere” – in Italia comunque debole – bensì quella del territorio, dell’identità, dell’Io assediato, dell’Io in cerca di un rifugio nella comunità locale e nazionale.
Queste metamorfosi socio-politiche hanno generato un movimento populista reale – il M5S – che si autointerpreta come non di destra e come non di sinistra. La sua ideologia tenta di tenere abbracciati l’Io narcisista, l’Io sovrano e l’Io arrabbiato.
Ne risulta, sul piano del sistema politico, un bipolarismo degli estremi, che peraltro, come fa notare Nando Pagnoncelli, si divide solo il 25% degli elettori a testa. Il 50% degli “Io minimo” se ne sta alla larga. Si tratta di un bipolarismo del reciproco assedio e della reciproca delegittimazione.
Questo bipolarismo intensamente ideologico, in complicità con il populismo residuo, fragilizza le basi culturali della democrazia, perché distorce il dibattito pubblico, piegandolo costantemente alle esigenze della propaganda sempre antagonista. Lo si vede sui temi del premierato, dell’autonomia differenziata e su ogni altro possibile.
Pericle e i partiti
Scriveva C. Lasch: “Non saranno né Narciso né Prometeo a guidarci fuori dalla condizione in cui ci troviamo”. Vero! Occorrerebbe un Pericle paziente, capace di ritessere le forme organizzate della conversazione pubblica e della decisione democratica.
Queste forme portano il nome di “partito”. Benché culturalmente svuotati, assai spesso ridotti a sette adoratrici del leader eventualmente carismatico, i partiti non hanno perduto la presa ferrea sulle istituzioni. Esattamente in continuità con la tanto deprecata Prima repubblica e con la Seconda. Ricostruirli come ambiti socio-culturali, in cui i cittadini si associano liberamente “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” è la più urgente delle riforme istituzionali, condizione di ogni altra, istituzionale e non.