il grande malato – di Giovanni Cominelli
Il PD è nato alla confluenza di due antiche correnti socio-culturali e partitiche del Paese: quella del Movimento operaio, frazione comunista, e quella della sinistra democristiana. La sua malattia è una tipica malattia senile.
Gli errori tattici e contingenti, quali si sono visti nel corso della recente campagna elettorale, non sono tanto il prodotto di imperizia politica, quanto di una cultura politica appassita, di una visione arretrata della società e dello Stato. Essa è aggravata dalla crisi istituzionale e di legittimazione del sistema dei partiti: l’autoisolamento in cui si sono blindate le oligarchie di partito, conseguenza fatale di un’occupazione pervasiva delle istituzioni e di un’espulsione attiva dei cittadini e degli iscritti dal processo politico, rende assai più difficile l’accesso di forze sociali e intellettuali nuove, capaci di revisione di antiche categorie e di innovazione culturale. Eppure basterebbe innovare almeno un paio di idee.
L’idea di economia e di società.
Tanto nella cultura cattolico-democristiana quanto in quella comunista e post-comunista il capitalismo, anche nella sua forma democratica, é un male cui bisogna rassegnarsi. All’orizzonte ci attende un altro modo di produzione. La levatrice di tale nuovo modello era, una volta, la classe operaia, la cui funzione nazionale il PCI ha sempre sostenuto. “La funzione nazionale” è la traduzione edulcorata del più antico teorema comunista, che vede il proletariato conquistare lo Stato e dirigerlo con mano di ferro totalitaria.
Il gramscio-togliattismo ha però corretto sostanzialmente il leninismo, almeno sul piano dell’analisi sociale. Togliatti fece notare, nel secondo dopo-guerra, che esistevano anche i ceti medi nell’Emilia rossa così come prima Gramsci voleva “la Repubblica degli operai e dei contadini”.
Da parte sua, l’anticapitalismo cattolico non si è mai spinto fino a teorizzare un nuovo soggetto sociale antagonistico rispetto ai proprietari dei mezzi di produzione. In Giuseppe Toniolo, autore materiale della Rerum Novarum del 1891 di Leone XIII, è piuttosto il corporativismo come collaborazione di classe il quadro ideologico, dentro il quale assegnare un ruolo al proletariato.
In ogni caso, l’incontro tra l’antico corporativismo cattolico e il classismo ormai debole del PCI, che nel frattempo ha accettato la democrazia liberale, ha prodotto, coerentemente con il giudizio negativo sul mercato, sulla concorrenza e sul merito individuale, il ricorso sempre più forte alla leva del debito pubblico e del Welfare. Donde la degenerazione corporativa ed assistenzialistica e l’incapacità di trasformare l’intervento dello Stato in uno dei motori dello sviluppo.
L’uso dello Stato si è limitato ad un Welfare omnipervasivo, ancorché disordinato e ingiusto a causa della sua torsione corporativa. Il passaggio all’ecologismo è l’ultimo grido di questa ricerca del modello alternativo e dei soggetti che lo dovrebbero implementare. Sul piano più generale, la scoperta della persona si è trasformata nella valorizzazione delle pulsioni dell’individuo e dei suoi innumerevoli diritti, tipica di un partito radicale di massa. E’ quella stagione dei diritti, che secondo Aldo Moro, non avrebbe salvato da sola l’Italia senza una correlativa stagione dei doveri.
Corporativismo e difesa degli insider privilegiati sono di fatto l’essenza delle politiche sociali del PD. Gli outsider sono fuori: non sono avanguardie di nulla, non hanno potere sindacale di contrattazione. Outsider: le giovani generazioni, la Amazon generation, la Deliveroo generation…
Da parte della corrente minoritaria riformista post-comunista viene spesso additata a modello la socialdemocrazia nordica, la quale ha teorizzato, con Olaf Palme, che la pecora del capitalismo si deve tosare, non sgozzare. Ma le politiche concrete che stanno dietro la Mitbestimmung tedesca hanno fatto molto di più che tosare. Il movimento operaio tedesco ha spinto per lo sviluppo industriale. Certo, Bad Godesberg è del 1959. Quella del PD non è mai arrivata.
La riforma del sistema istruzione e di educazione è parte essenziale di una politica di sviluppo. Se invece prevale l’approccio corporativo e si difendono gli interessi immediati degli insegnanti, non si fa nessuna politica industriale né di sviluppo civile del Paese. Incapace di pensare una politica di sviluppo, dentro il quadro di mercato del capitalismo democratico, la sinistra post-comunista e post-democristiana è ripiegata sulla difesa corporativa degli interessi esistenti. Il disprezzo del merito porta all’egualitarismo pauperistico, che tanto più facilmente si realizza quanto più l’asticella è collocata in basso. Donde la stagnazione economica, professionale e culturale della società italiana.
L’effetto paradossale è che il PD, essendo incapace di politiche di sviluppo, è anche sempre meno in grado di difendere gli interessi esistenti, compresi quelli dell’antica classe operaia. Che, infatti, si è rivolta ad altre fontane. Il melonismo/salvinismo al Nord e il grillismo vittorioso al Sud sono la conseguenza estrema di questo approccio, che ha raccolto quanto il PD post-comunista e post-democristiano ha seminato.
L’idea di assetto istituzionale della democrazia italiana.
La difesa della Costituzione “più bella del mondo” ha fatto convergere tanto i post-democristiani quanto i post-comunisti nell’arroccamento alle Termopili della Seconda parte della Costituzione, quella che affida al sistema dei partiti il controllo totale dell’assetto istituzionale, dalle cariche più alte dello Stato fino alla composizione delle Camere. Quella che teorizza il governo debole.
Ciò che viene difeso non è la Costituzione scritta, ma quella cosiddetta “materiale”, dove i governi sono deboli, le autocrazie di partito sono forti, i cittadini e gli associati ai partiti sono fastidiose interferenze. Ora, è evidente che dai princìpi della Prima parte della Costituzione, che mantengono un valore universale, non deriva automaticamente un assetto istituzionale specifico. I princìpi non invecchiano, le istituzioni in cui si incarnano sì.
La difesa dei partiti forti e delle istituzioni deboli ha suscitato nei decenni, a partire dal 1989, ben note ondate politiche di reazione antipolitica alla politica. Sono nati i partiti politici dell’antipolitiuca. A causa del suo conservatorismo istituzionale, il PD è il principale responsabile della crisi di legittimazione della politica, tanto da essere riuscito a regalare alla Destra la bandiera dell’innovazione istituzionale.
C’è da meravigliarsi che il PD, amalgama perfettamente riuscito della sinistra post-Dc e della sinistra post-PCI, appaia a una parte notevole della società italiana come una forza conservatrice, lontana dagli interessi sociali, dalle forze materiali, dai settori più innovativi?
E’ incominciata in questi giorni, dopo le dimissioni preannunciate, la corsa al dopo-Letta. Avendo già cambiato il segretario ben 10 volte dal 2007, è arrivato il momento per il PD di sciogliere i nodi. In altri termini: il PD si trova di fronte al bivio di sempre, almeno dalla caduta del fattore K: massimalismo o riformismo? socialdemocratico, laburista, socialista-liberale, liberal-socialista o no? sinistra liberale o no?
Ne va del destino del PD, ma soprattutto della tenuta della dialettica democratica. Essa non reggerà a lungo, se non emergerà, dopo il tempo della Destra, una capacità di alternanza alla guida del Paese.