Severino Cesari (1951-2017) “con molta cura” – di Lorenzo Baldi
“Si tratta adesso di fare tutto e ogni cosa
con mente ordinata e calma,
anzi no, si tratta di fare selvaggiamente:
con amorosa, ordinata, selvaggia-mente.”
1975, via Ruggero Bonghi a Milano, redazione del Quotidiano dei Lavoratori: Severino Cesari, con Silvano Piccardi, Attilio Mangano e Umberto Tartari, curava le pagine culturali. Veniva dall’Umbria e mentre quasi tutti eravamo motivati prevalentemente dalla politica, Severino già si stava formando come intellettuale di professione. Quando, nel 1977, in molti ci trasferimmo al Manifesto, credo si sia trovato subito a suo agio, in un ambiente che dava certamente più valore alle virtù che gli appartenevano e vivendo in una città più vicina alla sua terra.
Dalla primavera di quell’anno non ci siamo più visti nè sentiti, ma l’evolversi della sua carriera nel mondo dell’editoria non poteva sfuggire a chi si tenesse ragionevolmente informato: dall’edizione domenicale del Manifesto, all’intervista a Giulio Einaudi per Theoria, fino alla fondazione e alla rapida cresicita della collana Einaudi – Stile Libero con Paolo Repetti, che offrirà un coté sperimentale all’ “istituzione” libraria torinese e la rimetterà in contatto con il mercato dei lettori più giovani: pubblicando, nei suoi primi 20 anni un migliaio di titoli, per 1.700.000 copie vendute. Non male, in un mercato italiano dove la tiratura media si aggira attorno a 4.000 copie. Insomma, Severino Cesari è stato uno dei più importanti editor sulla scena italiana del libro.
Nel 2017, la notizia della morte. Senza che mi fossi mai imbattuto nella sua intuizione finale, due anni di scrittura su Facebook per condividere la malattia e la Cura con amici e followers sempre più numerosi; e condividere anche i mille pensieri e momenti di una vita ormai difficile, ma mai “minore”, che continuava tra libri, incontri e quotidianità. Diventando egli stesso autore di quelle contaminazioni tra letteratura e altri linguaggi contemporanei che aveva ricercato e promosso con la sua attività editoriale, decidendo di rivedere e organizzare i suoi post in un volume: un lavoro che, per pochissimo, non gli fu concesso di portare, personalmente, a compimento. E al tempo stesso vivendo, attraverso la comunità virtuale, una compagnia che, di solito, al malato grave viene meno, a causa del suo pudore e della paura degli altri:
“È proprio da stupidi non saper ringraziare, aggiungo.
Quanto ti perdi.
Cinquecento persone che ti dicono: tu sei importante per me, questa cosa che hai scritto è stata stamattina importante per me, non è stata inutile, dunque anche io sono importante per te, è una relazione, dunque forse non lo sai ma abbiamo cominciato a tessere un legame che fa entrambi meno deboli – ed è la prova che siamo vivi, e ci saranno altri risvegli ogni giorno, per tutti noi.
Avete ragione.
Dico grazie a ciascuna, a ciascuno di voi, dal profondo del cuore.”
Il libro, in fondo una raccolta di post molto curata, appare a prima vista come un patchwork nel quale affiorano, come le creste d’onda di un mare in subbuglio, i temi fondamentali del racconto.
Prima di tutto la malattia,
la Cura e la vita quotidiana, tante volte disciolta in un calvario di ricoveri e farmaci (che sono, anche, un po’ veleni), altrettante riconquistata e avidamente vissuta in ogni dettaglio. Della malattia il lettore ricostruisce gradualmente il quadro, attraverso una serie di flashback che partono da un sogno premonitore che costituisce l’incipit. Una sequenza impressionante di circostanze avverse, che parte dal trapianto di un rene, poi un’ ischemia recuperata parzialmente attraverso sofisticate tecniche fisioterapiche, per approdare al tumore e alle complicanze cardiovascolari che ne ostacolano la terapia.
La Cura si presenta come un mondo sfaccettato. Le cliniche, innanzitutto, un’ “Adelphi” che fa il suo lavoro ma – si intuisce – un po’ inospitale e “Quantico”, invece, che combatte al suo fianco. Quantico è una grande base dei Marines, in territorio americano, ed ospita l’accademia del Federal Bureau; è anche il titolo di una serie Tv.
I farmaci poi, ai quali sono attribuiti nomi fantastici, come Foruncolatumimab o Pierinotukano:
Prima di far colazione ho fatto la prima delle tre iniezioni quotidiane di insulina Amarone per il diabete, poi a pranzo la seconda. Sempre al mattino ho preso la nuova pillola Caoscalmo per il cuore, quella della mattina, poi il solito cocktail di cortisone, gastroprotettore, antiipertensivi, calcio, acido folico, i nomi glieli risparmio, per un totale di dodici pillole e pillolette, poi il Ripijamose, questo lo so, solo in caso di nausea, ma come le ho detto ce l’avevo, ma il Ripijamose non è proprio bastato. La nitroglicerina cerotto me l’avete tolta appena passato l’allarme-stretto angina, l’antibiotico quotidiano Cipensoio-mix lo prendevo solo per il Pierinotukano e me l’avete sospeso, poi a sera devo fare l’iniezione di eparina Sinedie e la notturna di insulina Amarone, la quarta, quella a rilascio lento che serve per la notte, questi due ovviamente aspetto stanotte, dopo la telefonata. Tutto qui.
La medicina (come la politica) è infarcita di termini militari: combattere, strategia, invasione. Ma è auspicabile un paradigma alternativo:
Si deve intervenire per prima cosa sul problema più importante, che adesso è il cuore, e questo permetterà di accogliere - stavo per dire “affrontare”, ma piantiamola con questo linguaggio militaresco - di accogliere quindi la stessa terapia oncologica…
Perché
“Si accetta, di essere ammalati e di curarsi. Non ci si contrappone, come a un nemico. Ma quale nemico, se fa parte di me, come tutto il resto.”
E, quindi, prendersi cura: gli altri di te, tu di te stesso e di chi si prende cura di te:
“La malattia non conta, la cura è tutto, e chi mette l’anima perché io possa fare la cura, e forse a volte dispera e certamente prega, e io sono lontano dal ricambiare, dal prendermi cura a mia volta.
Non fare alcun male, mai più.
Io sono la cura.
Noi siamo la cura.
La cura sono queste pagine che scrivo.
La cura è questa gioia, questa gratitudine, questa chiarezza dopo il torpore e l’indistinto.”
E un dubbio, piano piano, fa breccia nel lettore: che nella Cura di ogni giorno si ritrovi la meticolosa e maieutica cura del libro, nella relazione tra lo scrittore, l’editore ed il pubblico.
Una parvenza di normalità nella vita quotidiana si riconquista cento volte al termine dei cicli di terapia, dopo gli esami di controllo, nella misura delle cose che si riescono a fare ogni giorno: aprire il tappo di una bottiglia d’acqua, allacciare un bottone, le piante sul balcone, il gatto Ortensietti, la raccolta differenziata, le passeggiate terapeutiche, qualche giorno di vacanza al mare; il cappuccino di soja al bar (ma, una tantum, trasgredire con quello di latte vaccino), le mazzancolle al mercato, un calice di Lacrima di Morro d’Alba, i vincisgrassa e il frittino della trattoria Monti, in compagnia di un amico.
Gli incontri, dunque, quando sono possibili:
“Se avete nella mente una folla imprevista di incontri dal giorno appena passato, ma il giorno appena passato non esiste, esiste solo il giorno di oggi e quegli incontri, quelle amicizie sono qui oggi, ci sono per sempre, vecchie o nuove o sempre nuove, vivono con voi.”
Poi lo sguardo alle origini.
Una vecchia foto, a un matrimonio, che rievoca la madre, il padre, i fratelli, i compagni di giochi, la campagna dove i nonni coltivavano il tabacco e lo essicavano in essicatoi giganteschi, come quelli che
“Alberto Burri molti anni più tardi (…) trasformò in opere d’arte, perché già lo erano.”
Nel pieno della Cura, l’occasione di festeggiare il compleanno del fratello Giampiero con tutta la famiglia e con la mamma Lina che li lascerà sei mesi più tardi:
“… Le feste, bene festeggiarle una a una - se appena si può. Noi l’abbiamo fatto, e un po’ di quei giorni lontani con Nazareno e la Nunzia sono tornati, insieme ai giorni che nemmeno sono arrivati.
Quelli che maturano ora.
Una ghirlanda di giorni, senza fine perché ogni giorno è l’unico giorno, da mattina a sera.
Io sono rimasto contadino.”
Finalmente gli amati libri e i loro autori.
Tra i classici, il Melville di Moby Dick, la prima volta letto nella traduzione di Cesare Pavese, la seconda in quella di Ottavio Fatica del 2015:
“Così è accaduto che, nella mia unica vita, io abbia riletto Moby-Dick o la balena con sorpresa e stupore e ne abbia tratto la certezza, pagina dopo pagina, che un libro così sconvolgente e rivelatore non l’avevo mai letto, e che valeva la pena, oh sì, valeva la pena davvero perché siamo fatti sì della materia dei sogni, ma anche dei libri che leggiamo e che ci rendono più reali, più veri.”
Poi, di Michail Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”, nella traduzione di Vera Dridso per Einaudi, pubblicato nel 1967:
“Conviene leggere e rileggere, convinti che le parole hanno un potere, uno dei momenti più gioiosi energetici e ridenti che l’intera letteratura del mondo ci abbia mai regalato: quando Margherita diventa una strega, cavalcando la scopa-spazzola, nel Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Libro ben caro a tutte, a tutti noi – in ricordo di quel che tutti un tempo selvaggiamente siamo stati, streghe e stregoni.
Un libro che lo accompagna lungo la malattia, dalle prime pagine fino agli ultimi giorni:
“Ciò che non dice la versione emendata che circola del gran libro di Michail Bulgakov – quella che si trova in tutte le librerie del mondo – è però che quel “vicolo”, così appariva a Margherita, non era l’Arbat ma una strada dell’Esquilino, e che la bella Margherita non si era dimenticata di me.
No, non si era affatto dimenticata.
Margherita non si dimentica di nessuno di noi se noi non la dimentichiamo.
…
Il resto della storia lo trovate, se proprio volete, nella versione non emendata del gran libro di Michail Bulgakov, che non circola in libreria.
Se però proprio la cercate, la trovate.
Su nel cielo.
Se poi non la trovate, scrivetela voi.”
Rilke tradotto da Giaime Pintor (l’attenzione quasi ossessiva alle traduzioni) e pubblicato nel 1966, a cura di Franco Fortini:
“Ogni nuova lettrice, ogni nuovo lettore scopra da sé la ricchezza inesauribile di questo libro privo di autore, che non ha niente di organico se non l’appartenenza al mondo dei minerali, delle cose, composto raccogliendo in volume il fiume vivo di una ricerca, poetica filologica e personale, interrotta dalla morte.”
Conrad (Joseph Conrad, Un sorriso della sorte. Storia di porto, in Fra terra e mare, traduzione di Daniel Russo, Einaudi 2016):
“Usando senza alcun pudore la differenza tra “trama manifesta”, o esibita, o palese (overt plot) e “trama nascosta” (covert plot) Giuseppe Sertoli, gran lettore di Conrad, nella lunga e bellissima prefazione al volume Einaudi, smonta delicatamente, implacabilmente questa pretesa o schermo dell’autore e ci rivela con minuziosa analisi il segreto sotteso ai tre racconti, che ne fanno oltretutto quasi capitoli affascinanti di un unico libro, per la gioia perenne e ora rinnovata di noi lettori. Ah, godersi davvero Conrad!
La nuova, pregevole traduzione di Daniel Russo contribuisce al piacere di immergersi in questo libro marino-terrestre e nei suoi conradiani segreti, che non rivelerò.”
E poi gli autori pubblicati nel corso della sua lunga – purtroppo non lunghissima – carriera e, spesso, diventati anche amici personali.
Niccolò Ammaniti, che scrive un racconto per “Gioventù cannibale”, una raccolta pubblicata nel primo anno di “Stile Libero” e continua a pubblicare i suoi romanzi in questa collana. E soprattutto la sua “Anna” e l’orgoglio per le molte traduzioni in tutto il mondo:
“Forse è proprio la nostra, la leggenda che Niccolò ci tramanda, che Anna ha appena cominciato a raccontarci, è quella delle ragazze e dei ragazzi di oggi ma è anche la nostra, di noi che ragazzi non siamo. Nel suo concentrato di assoluta presenza, di integrità oltre ogni paura e speranza, mai disposta a chiudere gli occhi perché sa che è quella, non voler vedere, l’anticamera della morte, mentre lei cerca cerca e ancora cerca la vita, Anna appartiene a tutti, Anna è tutti noi.
… La vita non ci appartiene, ci attraversa” scrive Niccolò Ammaniti.”
Simona Vinci e “La prima verità”, uno degli ultimi libri curati da Severino, alla cui presetazione romana riesce a partecipare in persona, presso la “Libreria Libri & Bar Pallotta”:
“Ecco allora oggi un passaggio che particolarmente amo, dal libro inesauribile di Simona Vinci:
“Ogni volta che una presenza bussa alla mia porta, mi faccio da parte per accoglierla e ascoltare ciò che ha da dirmi. La scrittura in fondo è questo: lasciar entrare le voci di quelli che hanno qualcosa da dire, non importa da dove vengano e da quando vengano. Ogni storia di ogni singolo essere umano, se raccontata e ascoltata da qualcuno è declinata al tempo presente.
Anche perché c’è un’altra cosa nella quale io credo: certi ricordi vengono dal futuro”.
Maurizio De Giovanni con “Pane per i bastardi di Pizzofalcone”:
“Questo impegno totale di cervello e cuore che mi ha richiesto questo libro ultimo, questo Pane che segna una nuova stagione nel mondo per questa mia creatura, per i Bastardi, aveva senso? Avrà un senso per il lettore la lettrice che aprirà alla fine il libro e sentirà sprigionarsi quell’odore di pane ben lievitato, appena sfornato, quel profumo nell’alba?
O lo sento solo io, quell’odore?”.
Una presentazione cui la malattia gli impedirà di assistere, al contrario della presentazione della serie Tv ispirata allo stesso ciclo poliziesco, i cui personaggi gli sono sembrati
“Diversi perché li avevamo per la prima volta visti e incontrati di persona e non più soltanto immaginati, ma portavano con sé, ci era sembrato guardandoli, la stessa voglia di riscatto che tutti proviamo, nelle nostre esistenze povere e smaglianti, perennemente appese e perennemente a rischio. Ci era sembrato portassero la stessa verità, la stessa voce, quella dei sentimenti di una città e di ogni città.”
Giorgio Faletti che, prima di lui, ha attraversato la malattia fino ad una morte prematura, e al quale si rivolge così:
“Hai voglia a cercarlo chissà dove, il segreto del tuo successo.
Unica vera regola allora: se faccio, se decido di fare, se decidete di fare una cosa, quale che sia, anche ricominciare da zero quando siete un premio Nobel, e volete invece provare a intagliare figurine in legno, o a sperimentare ricette, fatelo comunque con assoluto rigore e disciplina. Studiando le regole, facendone tesoro prima, e forgiandone infine di vostre, ma solo quando vi sarete impadroniti di quelle che esistono. A quel punto, qualunque terreno avrete scelto, arriverete lo stesso al gran mare, alla Cosa maiuscola che vi troverete a scoprire condivisa da tanti altri.”
E, ancora, molti altri che qui non c’è spazio per citare e per raccontare come sono raccontati.
E poi la politica.
Cos’è rimasto di quella che doveva essere una passione originaria, parallela alla letteratura, se l’ha portato da Perugia fino a quella stanza di via Ruggero Bonghi che ora ricorda solo per aver favorito l’incontro col poeta Giancarlo Majorino:
“Negli anni 1975 e 1976 conobbi nella Capitale del Nord, dove lavoravo a un foglio chiamato “Quotidiano dei lavoratori”, Giancarlo Majorino. Ragionavamo di tutto e naturalmente di libri, ammiravo in lui una concisione tagliente e, va da sé, ironica, le sue parole uscivano con una strana morbida e quasi involontaria cautela, quasi fossero esplosivi delicati, da maneggiare, istintivamente, con cura.”
Un ricordo affettuoso di Rossana Rossanda, attraverso la rilettura de “La Posizione” di Franco Fortini:
“Ma io voglio dedicare questa lettura mattutina di un poeta molto amato a una persona che molto ama Franco Fortini, Rossana Rossanda: amica che penso spesso e con il desiderio sempre più vivo di tornare a un colloquio che per me fa parte della vita, che per circostanze della vita si è per un momento interrotto e che oggi so di poter riprendere, un dono che so di poter raccogliere, come una promessa che so oggi di poter mantenere. L’occasione è tutta in quelle poche parole cariche di una misteriosa allegria prorompente fino all’impudicizia, che forse sono la chiave nemmeno tanto segreta di questa poesia: “Oh, essere vivi ci è caro”.
Una posizione etica intransigente sulle migrazioni:
“Le migrazioni sono la grande ferita, il grande dolore, possono diventare non solo la grande misericordia ma la grande occasione del nostro tempo.
I muri sono la morte, ma sono già macerie.
Briciole nella corrente.
In quella corrente che scorre sotto i nostri occhi i morti di freddo e stenti nei tir d’Europa, che sorpassiamo ignari in autostrada.
La stessa corrente spolpa in sussurri i morti fratelli nel mare.
…
I muri sono la morte e l’illusione della permanenza, l’illusione stessa di un mondo stabile, che non è esistito mai.
Illusione di stabilità e permanenza sono i muri grandi di filo spinato tagliente come i muri più piccoli, interiori, prodotti alla nostra mente, che non ci fanno scorgere la nostra stessa impermanenza, l’instabilità che è fondamento, la precarietà la mutevolezza infinita dell’anima che è nostra sola ricchezza e, nell’instabilità, paradossale conforto e sicurezza.”
Sulle guerre:
“Mosul, le donne curde che sfidano l’Isis al fronte: Un proiettile sempre pronto in caso di cattura.”
Foto da guardare in silenzio, pensando che la vita ci ha dato innumerevoli privilegi, compreso quello di pensare sul serio che stiamo vivendo in un mare di guai nel nostro orticello “sempre più rimpicciolito, e che le cose importanti ce le dicono i talk show.”
Sulla criminalità organizzata:
“Oggi espongo bene aperto, davanti alle file degli altri, il libro più prezioso che ho, sopravvissuto a tutti i traslochi, alle perdite. Si chiama Cose di Cosa Nostra ed è scritto da Giovanni Falcone con Marcelle Padovani. Lo pubblicò Rizzoli con una bella e sobria copertina di Antonella Caldirola giocata su pochi elementi: fondo bianco, in rosso il nome degli autori in alto, bianca e nera l’immagine siciliana al centro, in nero il titolo in basso. In quarta di copertina, un primo piano, sempre in bianco e nero, di Giovanni Falcone di profilo che risponde a un intervistatore, gli occhiali sul naso, seduto a un lungo tavolo affollatissimo di persone e carte, sovrastato da un anello di fotografi.
Ci sono le dediche, molto sobrie: non conoscevo di persona né Falcone né Padovani e fu gentilezza loro mandarmi il libro, per le pagine culturali del “manifesto”, che curavo.”
E, per quel che testimoniano la conduzione di “Stile Libero” e anche un’intervista che circola su YouTube ( https://www.youtube.com/watch?v=YoGZXZCEmCg e https://www.youtube.com/watch?v=NNbROBtVuhI ), un bel recupero dei valori d’ impresa:
“Libri & Bar Pallotta.
La libreria più triviale del mondo, perché sta all’incrocio.
Nel trivium.
Ma forse voi già avete in mente di farne una per conto vostro, di librerie così, col bar e magari anche i tabacchi, chi vuole.
O forse l’avete già fatta.
A maggior ragione, venite per vedere, e per complottare con i vostri simili e dissimili, per le nuove avventure anche meravigliose e anche imprenditoriali – nessuno si vergogni di questa parola – che è più facile inventare insieme piuttosto che in solitudine, le nuove belle imprese che può regalare il mondo del libro, mondo in espansione, che non è affatto sfatto e sfinito, visto da qui.”
Infine, un ritorno (kantiano) alla Cura:
“Meglio non pretendere di raddrizzare a colpi di pialla il “legno storto” che siamo, e prendercene invece tutta la Cura possibile.”
Qualche link per approfondire:
Ricordi da parte di chi ne ha scritto:
Giacomo Papi – Paolo Repetti – Severino Cesari, la dolcezza umbra – quando è finita la benzina – understatement
Un libro su Severino: quello che ci ha insegnato Cesari – la prefazione al libro
Un articolo de Il Post su Severino Cesari
Severino Cesari
Con molta cura (la vita l’amore e la chemioterapia a km zero 2015-2017)
Rizzoli 2017 12 € pag 590