Come “volevo cambiare il mondo” – di Lorenzo Baldi
A proposito del libro dedicato alla Storia di Avanguardia Operaia mi pare interessante il riferimento che fa Vincenzo Vita, agli studi althusseriani di Aurelio Campi e alla sua traduzione per Feltrinelli di Lire le capital.
La scuola
Vorrei svilupparlo un po’. Intanto, la distinzione del filosofo francese tra le tentazioni filosofiche di Marx ed il suo corpus principale, di carattere scientifico, si coniuga bene con la nascita di Ao in seno alle facoltà scientifiche milanesi e la sua contrapposizione all’umanistico movimento di via Festa del Perdono.
Il background althusseriano emerge nettamente nel famigerato (per chi ha partecipato agli innumerevoli gruppi di studio) “Opuscolo n° 2” sulla scuola anche se non credo che Oskian abbia scritto personalmente, ma deve aver fortemente ispirato: si parte, infatti, dall’esigenza di disegnare una teoria della riproduzione del sistema capitalistico e si definisce la scuola come un fondamentale apparato ideologico dello stato.
Che l’esito delle politiche scolastiche di Ao sia stato spesso, come dice Claudio Cereda, un po’ troppo da sindacato degli studenti, non osta al fatto che la descrizione teorica dell’intreccio scolastico tra trasmissione della cultura e addomesticamento alla disciplina produttiva sia stato un guizzo di intelletto non male, tra tanto storicismo nel mondo del Pci e tante proposte sempliciotte nel movimento degli studenti, dal 6 garantito all’uso parziale alternativo. Con un’apertura mentale che, al tempo, non era data, si sarebbe potuto interloquire brillantemente con il movimento del ‘77 e le sue ascendenze foucaultiane e deleuziane. Anche questo fa di Ao, come ha scritto Vincenzo, un’ organizzazione colta, tra l’altro alla ricerca di una strada teorica originale, ricerca che con altri riferimenti ed esiti, sarà propria anche di quella parte dell’operaismo che scelse subito la strada del Partito Comunista.
Sempre a proposito di scuola, scrissi io la filippica contro i decreti delegati su Politica Comunista e, ancor oggi, non ne sono pentito.
A proposito di Aurelio Campi, è vero che ci siamo tutti formati sul “Del Carria” e dunque contano più le masse che i leader, è vero che c’è stata una divisione radicale in Ao, attorno alla quale il libro non può non girare, ma che non viene mai affrontata esplicitamente; però c’è stato un periodo nel quale, una volta risolti i problemi del suo stato di apolide e fino alle elezioni del ‘76, Campi è stato una guida riconosciuta per tutti i militanti e un’ispirazione per l’elaborazione politica dell’organizzazione in tutti i settori di attività. E questo non mi pare emergere con sufficiente chiarezza.
un CUB di provincia – il sindacato
A proposito di Cub operai, mi piace ricordare il Cub della Montedison di Castellanza, che partecipò al lavoro del Gruppo di protezione e igiene ambientale che fu una delle esperienze lombarde più avanzate nel campo della salute sul posto di lavoro ed ebbe un ruolo importante nello sviluppo di Medicina Democratica.
Ricordo anche un dibattito, piuttosto acceso, a proposito del rapporto con le organizzazioni sindacali. Si discuteva se, in assoluto, si dovesse condividere la loro vita istituzionale, con gli strumenti dell’iscrizione, del voto, della partecipazione agli organismi dirigenti.
Più sotto traccia si discuteva dell’opportunità di privilegiare i rapporti con la Cgil, in nome del comune riferimento alla tradizione comunista e del suo ruolo maggioritario tra i lavoratori (ma al costo di fare i conti con l’aperta ostilità del Pci); o se non fosse più opportuno cedere alle sirene delle federazioni legate a Cisl e Uil, disposte, talvolta per sincera apertura mentale, ma più spesso in specifica funzione anticomunista, a darci un po’ di spazio e visibilità.
servizio d'ordine.
Ho sempre cercato di tenermi lontano dalle attività del servizio d’ordine, (al tempo) non per un rifiuto etico della violenza, quanto perché non ero un tipo di gamba veloce e fendente deciso. Ma, come responsabile di un’organizzazione provinciale, qualcosa ho visto ed ho fatto. In generale, direi che Ao non è mai stata un’organizzazione militarista o militarizzata, come traspare da qualche passaggio del saggio sull’argomento.
Arrivammo tardi a strutturare il servizio d’ordine e questa scelta derivò da tre questioni:
- il clima di violenza generalizzato, dallo stragismo ai tentativi di golpe, richiedeva capacità di intelligence e organizzazione clandestina
- la limitata libertà di manifestazione e la fin troppo agguerrita presenza di organizzazioni (queste si) paramilitari fasciste richiedeva capacità di autodifesa
- il prestigio acquisito negli scontri di piazza era senz’altro un fattore non trascurabile nella contesa per l’egemonia tra le diverse organizzazioni della sinistra rivoluzionaria. E temo che sia stata questo fattore (il meno giustificabile) a pesare sugli eccessi (tragici) di cui siamo stati protagonisti.
Ad un certo punto il servizio d’ordine era diventato una struttura separata che rispondeva politicamente agli organismi provinciali e regionali ma lavorava per conto suo, allenandosi una volta alla settimana e compiendo attività di cui gli altri militanti non erano a conoscenza. I suoi membri più motivati erano evidentemente quelli meglio dotati atleticamente e più aggressivi nel confronto politico (qualche decennio prima, avrebbero più volentieri fatto a botte con i ragazzi del paese o del quartiere accanto): questo era naturale, ma non aiutava certo la moderazione.
Per quanto riguarda la provincia di Varese, il servizio d’ordine di Ao non andò mai oltre qualche spintone e ne sono ancora molto felice. Vorrei anche ricordare una piccola tradizione del servizio d’ordine lombardo. Com’è noto, il 28 aprile Mussolini fu ucciso a Giulino di Mezzegra, un piccolo paese del lago di Como. Per impedire ai fascisti di celebrare il ricordo del Duce, come erano soliti fare in precedenza, grazie all'interessamento di Corrado Lamberti, nativo di quelle parti, AO decise di presidiare il luogo ogni anno.
Era un periodo strapieno di lavoro politico. Si manifestava il 25 mattina nel proprio comune di residenza, al pomeriggio a Milano, a Giulino si andava seguendo la disposizione dei ponti.
Per arrivare a Giulino si passava per forza dalla Statale Regina e bisognava portare in anticipo quel po’ di armamentari impropri, per evitare i posti di blocco. Un anno fu il compito mio e della mia Citroën Dyane 6: con i capelli lunghi, non proprio un modo di passare inosservati. Ma andò tutto bene. Il giorno del presidio ci attendeva il diluvio universale: per fortuna avevamo tutti l’eschimo e gli anfibi (e le auto “pulite”).
Se n’è riparlato quest’anno sui giornali, perché le commemorazioni mussoliniane sul Lario sono riprese ed il Prefetto ha respinto la richiesta dell’Anpi volta ad impedire la manifestazione.
È poi vero che da Ao non ci fu un travaso di militanti nelle file della lotta armata, ma non fummo esenti da qualche contiguità. In provincia di Varese posso contare almeno tre casi, di cui uno salito ampiamente all’onore delle cronache.
giovanilismo
A cavallo tra giovanilismo e viaggi esotici, voglio ricordare le vacanze di alcuni tra noi varesini. In un viaggio in Afghanistan fui convolto direttamente. Ebbi così l’occasione di visitare le grandi statue di Buddha, a Bamian, molti anni prima che i Talebani le prendessero a cannonate: restano un ricordo indelebile.
Non ho mai frequentato la cannabis, preferendo stupefacenti nazional-popolari, invisi più al fegato che al polmone. Ero anche piuttosto bacchettone sulla faccenda e mi nutrivo di letture marxiste, poco frequentando la beat generation. Fu così che mi trovai a Kabul per amore di avventura, raggiungendola con mezzi pubblici e autostop, per scoprire che i miei compagni s’erano imposti un viaggio di 15.000 km in 34 giorni. La prima riunione di cellula era già fissata in agenda e bisognava tornare in fretta soprattutto per farsi liberamente le canne.
Lasciata l’ultima vodka in Armenia, provai anch’io: unico effetto psicotropo fu ri-sognare dei “Caroselli”, in versione a colori, come l’austero Berlinguer non avrebbe mai voluto vederli. Questo per dire che il consumo di cannabis, in Ao, non era distribuito in modo omogeneo, ma era parecchio diffuso e motivato.
Un’altra serie di viaggi dei miei compagni varesini, in quegli anni, ebbe per destinazione la Siria: si trattava di vere e proprie missioni ufficiali per visitare le organizzazioni palestinesi. Chi partecipò ricorda come, insieme ai nostri ortodossi alleati del F.D.P.L.P. di Nayef Hawatmeh, si avesse occasione di incontrare anche militanti di organizzazioni terroriste, come Settembre Nero: i confini, là, non sembravano così netti.
il lavoro culturale e Roberto Ceresoli
Partecipai anch’io, quando potevo, all’avvio del lavoro culturale di Ao. Mi coinvolse Roberto Ceresoli che divenne il mio mentore quando sostituì Attilio Mangano nel lavoro di costruzione di Ao in provincia di Varese e rimase con noi provinciali per 2 o 3 anni. Dico noi provinciali perché Roberto, al di là della politica, divideva il mondo in parigini e provinciali ed ebbe la bontà di catalogarmi nella prima categoria.
Aveva qualche anno più di noi, era un tipo esuberante, altrettanto dedito alla politica quanto ai piaceri della vita, cosa che gli lasciava poco tempo per dormire. Ex pugile, era un tipo grande e grosso e mi ricordo come chiuse, con nonchalance, un conflitto a mani nude con i capanniani di Gallarate, facendo ruzzolare per le scale il capo del loro servizio d’ordine.
Teorizzava, come strategia di sopravvivenza, nel togliere tempo al lavoro per dedicarlo alla politica, l’indebitamento progressivo. Partecipai ad una riunione lunga un week-end, in una casa di campagna, con Ceresoli, Vincenzo Vita, Giorgio Bonomi e pochi altri che non ricordo, dove si posero le basi del progetto di intervento culturale. Ci fu poi un seminario in un albergo affittato apposta a Bellaria di Romagna, in pieno inverno (fine gennaio, forse febbraio), con una nebbia da far invidia alla più impenetrabile scighera dei navigli milanesi.
C’era il tema, teoricamente un po’ approssimativo, degli embrioni di cultura proletaria, che fu alla base di iniziative come il Centro Sociale Santa Marta e tanti altri circoli culturali di base, in città e in provincia (a Saronno ci fu un buon esempio). A, proposito di Santa Marta, tra i futuri famosi voglio ricordare anche Alberto Camerini, musicista di talento che trovò la vetta delle classifiche esplorando la musica elettronica con Rock & Roll Robot, dopo molte cose (più) carine fatte all’inizio (tra le quali gli album “Cenerentola e il pane quotidiano” e “Gelato metropolitano”). E poi c'era Jo Squillo che, dal quasi punk delle origini (“Violentami sul Metrò”), lavora da tempo per Mediaset, occupandosi di moda.
Roberto Ceresoli aveva una compagna, bella quanto paziente, e mi ospitavano spesso a Milano, quando stavo al Quotidiano: le notti erano squarciate dalle scorribande del gatto Gargiulo, un felino che pesava più di dieci chili e si muoveva dal divano solo dopo le 3 di notte. Quando Ao si divise, non capirono e decisero di occuparsi di viaggi a Cuba, lo rividi a metà anni ‘80 da una comune amica, poi non ho saputo più nulla.
a proposito di cambiare il mondo
Ciò che mi lascia sempre perplesso, quando affronto la memorialistica sessantottina, dagli anni formidabili di Mario Capanna a noi che volevamo cambiare il mondo, è il fatto che non si pongono mai domande radicali e si cerca, ogni volta, di confermare l’idea che fossimo la meglio gioventù. Volevamo cambiare il mondo, ma il mondo è cambiato per conto suo, in un’altra direzione, e ha finito per cambiare anche noi.
D’altronde, la nostra formazione culturale non era, propriamente, molto aggiornata e, così, gli strumenti per interpretare la realtà. Il nostro sudato marxismo, perché studiavamo veramente, era lontano dall’appartenere alla versione più aggiornata che, come la storia ha mostrato, era quella italiana: e pure questa si è rapidamente mostrata insufficiente, molto prima del fatidico 1989, probabilmente già a partire dai fatidici anni ‘60.
In quegli anni, il mondo l’hanno cambiato la beat generation, il femminismo, lo stesso edonismo reaganiano (termine coniato da Roberto d’Agostino in pieno “riflusso”).
Il mondo l’hanno cambiato la caduta del socialismo reale e la globalizzazione, grazie alla quale miliardi di uomini sono usciti dall’economia di sussistenza e dalla povertà (e le derive di destra nel mondo occidentale sono anche una risposta reazionaria a questa redistribuzione planetaria del reddito).
Il mondo l’ha cambiato, naturalmente, la rivoluzione digitale, contemporaneamente nel cuore dell’economia e nella nostra vita quotidiana e di relazione. Il socialismo, nella sua variante europea e democratica, è stato tanta parte del tentativo di mitigare gli “istinti animali” del capitalismo, nell’introdurre elementi di giustizia sociale e nel favorire i consumi di massa come strumento di espansione economica.
Ma oggi è in vistosa ritirata e subisce drammaticamente la concorrenza “verde”. Nella sua versione sovietica (leninista e stalinista), il socialismo è stato una tragedia, frenando lo sviluppo economico anche più delle libertà. Nella versione cinese, dal grande balzo in avanti alla rivoluzione culturale, è stato una tragedia anche più grande, mitigata solo dalla nostra scarsa conoscenza dei fatti; in quella successiva è stato un trionfo del capitalismo come sistema economico e produttivo, abbinato ad una dittatura permissiva negli stili di vita quanto rigida e occhiuta nella gestione del potere, quello sì, forse, di “casta” del Partito Comunista.
Rinunciai alle vacanze estive del 1974 per preparare un seminario sulla rivoluzione cinese, che non si tenne mai per il sovraccarico dell’attività politica quotidiana nei mesi successivi: questo per dire che il riferimento alla Cina non era certo fideistico, come per gli emme-elle, ma, comunque, c’era eccome.
Il dubbio che il capitalismo fosse, semplicemente, il modo di produrre e di scambiare le merci più efficiente (dopo Keynes, anche in termini di redistribuzione del reddito), che senza finanza non ci fosse posto per l’industria né per la crescita economica, che la democrazia liberale fosse la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora (W. Churchill), è sorto nei primissimi anni ‘80. E quando è caduto il muro di Berlino, erano già diventate ragionevoli certezze.
Militavo nel Pci migliorista, quando votai per Craxi sulla scala mobile e la responsabilità civile dei giudici, trepidai per la sorte dei marinai inglesi alle Falkland, lasciai poi il Partito in seguito al gattopardismo occhettiano e alla marcia degli onesti che incarnò il perenne sospetto di infamia fiscale posto in capo alle partite I.V.A., di cui sono stato uno dei primi esemplari. Mi ritirai a vita privata, avendo la fortuna di partecipare all’intero processo di rivoluzione digitale nel mondo audiovisivo. E, per questo, forse videro giusto quei compagni di Ao che non mi vollero più con loro.
Sulla storia della sua militanza e sulla esperienza giornalistica Lorenzo Baldi ha pubblicato su Pensieri in Libertà, nella sezione 1968 e oltre: da Avanguardia Operaia al Quotidiano dei Lavoratori e toccata e fuga al Manifesto