Riflessioni sul comunismo di un lettore di Victor Serge – di Alvaro Ricotti
Ho seguito il suggerimento di Claudio Cereda e sono andato alla ricerca della versione cartacea del libro di Victor Serge Memorie di un rivoluzionario. Nell’attesa che mi fosse recapitato, mi sono scaricato, come primo assaggio, la versione in ebook di Tutto ciò che un rivoluzionario deve sapere sulla repressione sempre di Serge. In questo piccolo libro Serge tratteggia il suo ruolo di Commissario presso gli ex archivi del Ministero degli Interni a Pietroburgo. Nella immagine di apertura vediamo Serge a Pietroburgo nel 1921 con il figlio Vlady, la moglie e la cognata.
Questo incarico gli venne assegnato al suo arrivo in Russia nell’aprile del ’19. Nella veste di Commissario aveva il compito di riordinare gli archivi della polizia segreta zarista, individuare per quanto poteva gli ex infiltrati doppiogiochisti nelle file delle organizzazioni rivoluzionarie anti zariste, che ancora erano in circolazione magari riciclati come ferventi bolscevichi, ma doveva, soprattutto, evitare che questi archivi, con la loro ricca documentazione riguardanti i militanti rivoluzionari, cadessero nelle mani delle forze controrivoluzionarie bianche, eventualità non del tutto remota in seguito dell’offensiva degli eserciti bianchi verso Pietroburgo.
Che all’indomani della Rivoluzione d’ottobre le forze rivoluzionarie dovettero fronteggiare la reazione violenta delle milizie controrivoluzionarie sostenute dai Paesi dell’Intesa è cosa nota, ma la narrazione dei fatti di Victor Serge, con il suo stile, da grande giornalista, asciutto ed essenziale di testimone-protagonista mi posero le vicende di quel periodo sotto una luce ben diversa da come le avevo sempre lette nei saggi storici; mi sembrava di leggere la cronaca giornalistica, dove il buon cronista, oltre che raccontare i grandi fatti, si sofferma sui particolari, sulla reazione della gente, gli umori delle persone vere, quelle in carne e ossa, il tempo, il freddo e la fame, la vita e la morte, non con la retorica agiografica, ma come tutto questo veniva vissuto nei suoi drammi più profondi e intimi della paura e della speranza.
Quando finalmente ho ricevuto Memorie di un rivoluzionario mi sono buttato a pesce nella lettura e l'ho divorato e invito tutti gli amici e i compagni alla lettura di questo libro illuminante di un periodo storico che fu preso da parecchi di noi come paradigma per i nostri valori e di riferimento costante all’attività politica che ha caratterizzato gli anni della nostra gioventù.
Quello che vorrei raccontare è l’emozione che mi ha procurato la sua lettura e gli stati d’animo che ogni pagina mi procurava. Non è stata né gioia né rimpianto, ma sofferenza e dolore. Più volte ho dovuto smettere la lettura, non ce la facevo ad andare avanti. Troppi ricordi di vita personale mi venivano sollecitati in paragoni e confronti azzardati, troppe contraddizioni mi venivano fatte esplodere. E poi riprendevo la lettura con più foga e lo sconforto mi attanagliava sempre di più. Mi spiego parlando un po' di me.
Sono nato in una famiglia di comunisti, mio padre è stato un partigiano decorato e suo cugino Roberto fu tra i martiri fucilati al Campo Giuriati di Milano. Nell’immediato dopoguerra, mio padre si aggregò alla Volante Rossa, il nome Alvaro mi fu dato in onore e in ricordo, mi disse, del comandante della Volante Rossa, nome di battaglia Tenente Alvaro. I miei nonni li ricordo con sempre in tasca L’Unità, tesserati alla sezione 25 Aprile; per orgoglio dei nonni sono stato iscritto di diritto nella categoria di Pioniere nei primi anni ’50 con il fazzolettino rosso al collo.
L’URSS era il loro mito, e la terra promessa. Mi ricordo che da bambino quando sentivo i grandi discutere di politica, in sezione o in cooperativa dove mi portavano, le parole che sentivo più spesso erano: giustizia e lavoro. Si faceva la spesa con il libretto, dove il commerciante segnava l’importo, si saldava ogni 15 giorni o a fine mese, dipendeva da quando mio padre riusciva a portare a casa dei soldi.
Il comunismo per noi, anzi per loro, per i grandi, era una vita migliore di quella concreta fatta di stenti, dare qualcosa di più di una tazza di latte con pane raffermo per cena ai figli. Oggi il pane raffermo mi disgusta! Poi è arrivato il ’68, mi sono lasciato indietro la vergogna delle scarpe con i buchi nelle suole e tagliate in punta per far spazio al ditone che cresceva. Ho recuperato l’orgoglio di essere comunista, quell’orgoglio che mio padre aveva un po’ perduto per le umiliazioni che aveva dovuto subire oltre a quella fiammella di speranza che ormai si era spenta in lui per via di quel suo pragmatismo primitivo Ora è davvero tutto finito, io ho fatto la mia parte. Abbiamo perso l’occasione!.
Ho studiato, noi ragazzi di allora abbiamo studiato, abbiamo letto Marx, di Marx mio padre sapeva dire solo il moto del “Manifesto”: Proletari di tutto il mondo unitevi”; abbiamo letto Lenin, sull’Estremismo come malattia infantile del Comunismo, abbiamo letto Stato e rivoluzione e il Che fare?; qualcuno si è avventurato insieme a me nello studio di Materialismo e Empiriocriticismo, abbiamo osato anche con Rosa Luxemburg, poi ci siamo lanciati nell’empireo con Georg Lukacs, Althusser e Charles Bettelheim.
Pensavamo di aver capito tutto, lo Stato borghese si abbatte e non si cambia, lo stalinismo un errore collaterale e marginale nella lunga marcia verso il socialismo, una degenerazione dovuta alla megalomania di un georgiano maledetto. Fresco di studi e di discussioni in cellula di AO, aggredivo con l’arroganza tipica dei giovani ignoranti mio padre rinfacciandogli errori che non aveva mai commesso, ma che avrebbe potuto commettere. ma come hai potuto gridare W Stalin gli dicevo, e lui Ma io ho combattuto contro il fascismo prima e per darti da mangiare poi, che ne sapevamo noi. Togliatti se avesse saputo ce lo avrebbe detto, e poi c’era il pericolo che i fascisti ritornassero aiutati dagli americani.
Mi pare fosse il ’70, in occasione del 25° della Liberazione, Panorama aveva pubblicato un intero numero dedicato alle giornate di aprile di 25 anni prima. Ero passato a salutarlo come ormai facevo sempre più raramente, i miei si erano separati già da dieci anni, avevo la barba e i capelli lunghi e forse una collanina al collo, lui non apprezzava ste fee cunsciaà me un randa (cosa fai comciato come un barbone).
Gli feci vedere nel giornale il servizio fotografico di quei giorni famosi per me memorabili, Cazzirola leè propi luu disse fra se e mi indicò il processo farsa che i partigiani intentarono nei confronti di Achille Starace, nella scuola occupata di piazza Leonardo da Vinci. Poi girò la pagina, Ghavem sparà cunt el sten, l’haa faà un salt inscii disse indicando la sequenza fotografica della fucilazione in piazzale Loreto del ex segretario del Partito Fascista.
Queste sono le uniche parole del suo trascorso partigiano che gli abbia mai sentito in tutta la sua vita, non millantava, non si vantava, per pudore non ne voleva semplicemente parlare: lasa stà, non ti esporre, ne ho viste troppe. Al partito sanno cosa fare se dovesse esserci bisogno. Viveva ancora nella convinzione del doppio binario. Ingenuità, ignoranza, buona fede tradita e ingannata, generazioni di comunisti che aspiravano ad un mondo migliore guidati da dirigenti cinici e da un’ideologia grossolana che si esauriva poi alla fine nel il fine giustifica i mezzi.
Migliaia, decine di migliaia se non milioni di uomini accecati dalla perversione del fine che giustifica qualsiasi mezzo si sono fatti carnefici e vittime annegando e strangolando i valori elementari del vivere civile per non parlare dei valori etici della fratellanza e dell’eguaglianza. Quale è il limite a cui può spingersi il mezzo per raggiungere il fine che ci si è posto; in parole più esplicite fino a che livello si può spingere la violenza sull’uomo per raggiungere il socialismo?
Siamo tutti inorriditi nella seconda metà degli anni ’70 quando i Khmer Rossi la formazione comunista guidata da Pol Pot prese il potere in Cambogia e iniziò il processo di trasformazione del Paese verso il socialismo, a suo dire. Venne compiuto un genocidio tra i più terribili: per debellare l’ideologia borghese vennero sterminate milioni di persone, tutti gli adulti che avevano avuto un qualsiasi ruolo o incarico riconducibile al vivere sociale precedente e quindi borghese dovevano essere eliminati per evitare che contagiassero le nuove generazioni che sarebbero dovute crescere negli ideali del socialismo.
Questo concetto aberrante in cosa si discosta dall’eliminazione di massa dei contadini Kulachi voluta da Stalin? Nel numero delle vittime, nei mezzi di eliminazione utilizzati? Solo il contorno iconografico era differente, da una parte le lande desolate e ghiacciate della Siberia artica, dall’altra le melmose risaie del sud-est asiatico.
Ecco, il libro “Memorie di un rivoluzionario” individua progressivamente, pagina dopo pagina in una cronologia dei fenomeni innescati dalla Rivoluzione d’Ottobre, quel meccanismo strutturale elaborato, programmato e messo in atto dal Partito Comunista Russo (Bolscevico) per la presa e il mantenimento del potere. Racconta da protagonista critico (come si giustifica e in fondo si auto assolve) il suo contributo contraddittorio allo svuotamento delle forme democratiche nel rapporto con la gestione del potere e l’ambiguità iniziale su come e cosa intendere con la parola d’ordine tutto il potere ai soviet in cui emerse l’embrione del vulnus poi ineliminabile della degenerazione liberticida.
Non è stata la degenerazione di una mente perversa, la paranoia o la bramosia di potere di un uomo o di una castocrazia, a scatenare quella che ingenuamente era stata chiamata “la rivoluzione tradita”, ma il processo degenerativo naturale di un intero apparato ideologico. Un libro come questo apporta poca conoscenza in più, almeno per me, sui fatti storici, se non nelle particolarità soggettive vissute dal protagonista comunque sempre di grandissimo interesse. Non svela grandi segreti, non ci racconta fatti a noi sconosciuti.
Chi ha fatto seriamente politica a sinistra conosce a grandi linee la parabola iniziata con la rivoluzione del ’17 passata per le grandi purghe, il patto Molotov-Ribbentrop, il successivo grande contributo dato dall’URSS per la sconfitta del nazismo, con i suoi 20 milioni di morti, che sono stati giocati cinicamente sul piatto della spartizione dell’Europa, che sono stati giocati a copertura dell’infame repressione a Berlino nel ’53 e a Budapest nel ’56 fino ad arrivare a Praga nel’ 68, fino al suo tragicomico finale con le Trabant che in fila attraversavano il Muro nel ’89 e il disfacimento di quel gigante dai piedi d’argilla in cui si era ridotta l’Unione Sovietica.
Fine miserabile di un sogno; era lì il socialismo? Certo che no! Ma quando è venuto meno? Dove e quando è iniziato il processo degenerativo? Chi lo ha innescato e perché non è stato bloccato? Con Kruscev direbbe qualcuno o con Stalin direbbe qualcun altro? Coi processi del ’39 o con quelli del ’37? Con la NEP o ancor prima con la repressione fratricida della rivolta di Kronstadt?
Ecco, Victor Serge nel bilancio della sua vita di rivoluzionario spesi per il socialismo analizza quei vent’anni cruciali che vanno dal ’19 al ’40 passati a tu per tu con gli artefici di quel processo, da Kamenev a Bucharin, da Trotsky a Zinovev, e lì individua le radici della fine della sua utopia. Non solo nei fatti, di come si sono succeduti, ma nel come sono stati vissuti dagli uomini, nelle loro speranze e nei loro limiti, nei loro sogni intramontabili contro la durezza della realtà, nello sconquassamento ideologico e psichico nell’uso della violenza usata contro i presupposti nemici e financo contro sé stessi, con le assurde abiure e confessioni, al fine di raggiungere il fine ultimo: il socialismo.
Racconta della paura, la paura crescente di quelli che fucilavano in difesa dell’Idea ben consci che sarebbero prima o poi stati eliminati anche loro per lo stesso motivo calati tutti in un vortice perverso di autodistruzione in cui lo scopo finale qualunque fosse stato il percorso era salvare il Partito unico strumento per raggiungere il Socialismo.
È questo che mi ha fatto star male, la consapevolezza che uomini, con ideali di pace e di speranza per un mondo migliore per tutti, si fossero trasformati in carnefici e vittime; che la stessa sorte sarebbe potuta accadere ai nostri padri durante la Resistenza o a noi stessi negli anni che ci hanno visto protagonisti della lotta politica. Devo dire che sia in un caso che nell’altro alcuni segni premonitori si evidenziarono, per fortuna gli eventi della storia inibirono lo sviluppo di quelle nefaste tendenze.
Per una circostanza del tutto casuale della storia è da poco tempo che vede la luce il bellissimo Volevamo cambiare il mondo in cui ci siamo ritrovati con un salto nello spazio-tempo di 50 anni a crogiolarci nella nostra gioventù e nei suoi ideali. Non sarebbe il caso di rileggere quei fantastici brani non solo sulle ali della nostalgia ma anche finalmente con una consapevolezza dei limiti profondi di una ideologia profusa e vissuta con una veste di scientificità che invece non aveva?
Non basta dirci quanti errori!, eravamo giovani, eravamo ingenui!, ma sarebbe opportuno dirci quali errori e di che portata. Di questo facciamo ancora fatica a parlarne. Non per aprire inutili polemiche e di poco spessore, ma vorrei chiedere ai compagni che militarono nel Movimento Studentesco, che in questi giorni celebrano l’anniversario della morte prematura di Salvatore Toscano, che riflessioni fanno rispetto ad uno dei loro slogan preferiti gridati nelle manifestazioni dei primi anni ‘70: “W il compagno Giuseppe Stalin terrore dei fascisti, terrore dei borghesi” oppure quell’altro ad appannaggio del loro servizio d’ordine i Katanga che così mi sembra facesse: Stalin… Beria… Ghe-pe-u il trotkismo non c'è più” mi piacerebbe leggere qualche riflessione sul sito “Quelli di Piazza S. Stefano” al riguardo.