premura – di Antonio J. Mariani
è una delle parole che esprime molto quel decadere valoriale a cui assistiamo quasi impotenti. Sì perché, se ci soffermiamo un attimo a pensarci, abbiniamo ad essa urgenza e fretta, mentre rimane in ombra l’altro significato che porta con sé: aver cura e sollecitudine verso una persona, una cosa, una questione.
Ecco, di fretta ne abbiamo tanta; di riguardo, poco. A questo fraintendimento, derivante da uno sguardo non al plurale, ha paradossalmente in parte concorso anche quello che io sostengo essere un falso (e modaiolo) rimirare interiormente, così in voga presso certi “guru/motivatori”, che hanno costruito una fortuna con la formula del (ri)trovare se stessi, come se fosse un oggetto smarrito all’interno di una sorta di tasca interna; i mental coach, per intenderci, sono quelli che, ogni due per tre, ti ricordano che, se sorridi, sei già a metà dell’opera (anche se non fai un belin di niente).
E, così, accade che, appunto, non pochi di noi sono talmente presi dall’immane patrimonio nascosto entro loro, d’aver scordato la valenza che il vocabolo “premura” porta con sé, oltre l’urgenza e la fretta. E’ nell’instaurare una premurosa dialettica con il mondo esterno che si va a definire la misura sempre variabile che consente di processare il nostro limitato sé rispetto all’infinito silenzio, e viceversa; è nell’immedesimarsi premurosamente nell’altro e nell’altrove che si evita quella scissione tra quel che si è rispetto al moto perenne, così motivo d’inquietudine.
E la prova di ciò l’otteniamo quando ci abbandoniamo al verde della natura. Essa ci acquieta proprio perché la sua peculiarità non conosce immobilità, non conosce singolarità: è salda nel suo trasformarsi di continuo, nel suo assumere forme eternamente nuove, non nell’appartarsi, bensì nel bel mezzo della pluralità. Ma, ad essa, all’ebbrezza che è in lei e a cui c’invita, riserviamo lo spazio di riserva, uno spazio domenicale: perché abbiamo abbiamo premura di tornare al rassicurante consueto.