Francesco – di Antonio J. Mariani
E’ da otto secoli che il poverello di Assisi affascina e conquista.
C’incanta e ci sorprende anche solo a pensarci un attimo. Qualcosa del genere ci accade quando guardiamo l’umore gioioso di un cucciolo (poco importa se d’uomo o di animale), oppure quando, senza rendercene conto, ci s’innamora (poco importa se di un paio di fossette o di un campo di lavanda).
Lui, Francesco, ha a che fare con il pigolio di un passero, con l'infinitamente piccolo, con l’impercettibile, con l’umiltà e la semplicità.
Il denaro, che entra ed esce, niente ha a che fare con lui; il superfluo, men che meno.
Prima di approssimarsi al lebbrosario, ripulisce e ripristina chiese abbandonate, perché valorizzare l’esistente è un imperativo. E lo si trova ai margini, non al centro. Noi diciamo d’amarlo, in realtà, lo amare-ggiamo.
- Lo amareggiamo ogni volta che a malapena tolleriamo (quindi, non rispettiamo) la presenza dell’altro (quello che non fa porte della schiera dei benvoluti), salvo, poi, opportunisticamente rivolgerci a lui al minimo bisogno;
- lo amareggiamo ogni volta che diamo prova di serrare dentro tutto ciò, compresi i fili d’erba (contati ad uno, ad uno), che il rogito ha stabilito essere di nostra proprietà (che s’accompagna all’aggettivo “privata”, per ribadire l’intento osceno di “privare”);
- lo amareggiamo ogni volta che, troppo presi dall’autocompiacimento, non c’impegniamo a comprendere, a togliere le pieghe, a rendere semplice;
- lo amareggiamo ogni volta che facciamo scempio della parola, che lui ha magnificato attraverso il “Cantico delle creature”, esente di forme metriche, ma ricco di andamento ritmico.
- Lo amareggiamo, infine, perché diciamo di ammirarlo, ma facciamo gli gnorri davanti al suo messaggio, interpretabile in quel che ebbe a dire Christian Bobin: egli non cerca la povertà. Cerca l’abbondanza che il denaro non può offrire.