1976 discussioni nella sinistra rivoluzionaria

Questo insieme di tre articoli, piuttosto lunghi e che risalgono al 1976, hanno un valore storico, per il momento in cui sono stati scritti: la riflessione nella sinistra rivoluzionaria dopo le elezioni del 20 giugno.

Per me essi costituirono l'ultima occasione per verificare lo spazio per raddrizzare barca. Le cose andarono diversamente; al rientro dalle ferie fui accusato in Ufficio Politico di aver infranto il centralismo democratico e alla direzione del Quotidiano mi fu affiancato Vittorio Borelli fatto arrivare appositamente da Verona.

Non c'erano spazi per far ragionare la maggioranza del gruppo dirigente di AO che aveva deciso di perseguire la via della grande AO, per me condannata al minoritarismo. Così decisi di lasciare il Quotidiano e di lì a qualche mese se ne andò, dopo qualche evento traumatico, la maggioranza della redazione.

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Quotidiano dei Lavoratori 4 agosto 1976


lo sono uno dei compagni che al Comitato Centrale hanno votato contro la mozione finale e hanno espresso il loro dissenso in una breve dichiarazione di voto.

Innanzitutto preciso che si è trattato di un voto contrario alla mozione conclusiva, alle caratteristiche del dibattito compresso in un tempo ridotto e svolto del tutto a ruota libera e con caratteristiche che non esito a definire burocratiche, e infine un voto contro la mancanza di conclusioni politiche cui è stata sostituita una ambigua mozione finale da riaggiustare a seconda dei gusti attraverso emendamenti.

Queste· potrebbero sembrare proteste di tipo metodologico e non è mio costume avanzarne di solito, ma in questa occasione avevano assunto sostanza politica sia per l'argomento all'ordine del giorno (il bilancio delle elezioni e di quali elezioni!) sia perchè costituiva l'avvio della macchina congressuale.

Visto che il giornale non lo ha fatto durante il mio periodo di ferie ritengo necessario premettere però alcune informazioni sullo svolgimento di tale dibattito.

Inizialmente erano previsti due punti all' ordine del giorno a) Bilancio delle elezioni e nostri compiti (relatore Campi. b) Situazione interna alla sinistra rivoluzionaria. costruzione del partito. congresso (relatore Biorcio).

Dico. che erano previsti perchè le cose non sono andate esattamente in questo modo. Ad un certo punto il dibattito sulla relazione Campi è stato interrotto e. senza che seguissero conclusioni, fatto seguire dalla relazione sul partito.

E qui sarebbe ingeneroso accusare il compagno Biorcio di genericità di proposte, ma il fatto è che la sua relazione non c'entrava quasi nulla con quella precedente per la semplice ragione che non esisteva una posizione unitaria in segreteria. Forse al dibattito politico preparatorio era stata sostituita la reticenza reciproca (sapete come succede quando i cacciatori si tengono le cartucce migliori per il Comitato Centrale e le sparano a sorpresa per potenziarne l'effetto).

Dunque il dibattito prosegue  stancamente sulla relazione mentre i compagni di Torino, con una serie di interventi, cercano di tirare il morso verso Lotta Continua.

Poi interviene Lanzone e in un breve quanto succoso intervento pone i problemi del rapporto con il Pdup in modo quasi provocatorio per l'aria che tira. Dice, c'è in comune l'analisi del terreno (rapporto con i riformisti. carattere della rivoluzione in occidente …. ) e propone una unificazione rapidissima a partire già da una stesura aperta del nostro materiale congressuale.

A Lanzone replica Vinci con un lungo intervento che, partendo dal rischio di mettere in piedi un partito di tipo centrista (e non più di opinione perchè questa ipotesi esce sconfitta dalle elezioni) spiega in questa luce il rinnovato interesse di tutto il Pdup per Ao.

Ecco allora le vaccinazioni e i macchiavellismi insieme (io li chiamo così): vediamo di arrivare al dunque e coniughiamo in italiano "lo stato borghese si abbatte e non si cambia"; vedremo che tra noi e loro c'è ben poco in comune (altro che uguaglianza del terreno!); anzi facciamo addirittura un congresso sulla concezione leninista del partito e sulla distruzione dello stato e vedremo che i nodi del Pdup verranno al pettine.

Mi sembrava di essere ritornato al 1971 quando Ao oscillava tra la presenza nelle lotte e i richiami al leninismo senza occuparsi di politica.

Di fronte alla stretta del dopo venti giugno per la prima volta sentivo teorizzare esplicitamente una concezione della lotta politica nella sinistra rivoluzionaria come tattica di eserciti contrapposti. una concezione del partito che io chiamo dei "pochi ma buoni" o anche della grande AO che, nel suo richiamo al nazionalismo di piccolo gruppo, è poi in realtà la teoria del suicidio rivoluzionario.

A questo punto veniva fuori la mozione che abbiamo pubblicato e, se non ricodo male, siamo andati avanti per un giorno intero solo con interventi sulla mozione (di illustrazione di emendamenti aggiuntivi o correttivi, comunque a partire da essa).

L'intervento di Vinci aleggiava sulla sala come una spada di Damocle e intanto i 30 compagni iscritti facevano la melina sulla mozione. Infine è intervenuto Campi e ha detto il contrario di quello che aveva sostenuto Vinci (sul Pdup. sulla lotta politica, sul tipo di partito da costruire e di congresso da fare).

Ancora qualche intervento e poi si vota. Si arriva all'assurdo gesuitismo di presentare emendamenti contrapposti ma così ben contraffatti da farli approvare entrambi.

Il compagno Lanzone dichiarà che voterà contro per questa gaffe del Comitato Centrale; io che voterò contro, indipendentemente dagli emendamenti, per il tipo stesso di mozione e per la mancata conclusione del dibattito.

Si vota e il numero dei no e degli astenuti è inspiegabilmente alto. Come mai? Si sono astenuti o hanno votato contro la destra e la sinistra (ci sono sempre una destra e una estrema sinistra, per diana!) ; insomma gli insoddisfatti, quelli che si vogliono unificare con Magri (si dirà) e quelli che invece si vogliono unificare con Sofri (e ne hanno le palle piene del Pdup e dei suoi tentennamenti).

Hanno votato a favore della mozione tanto il compagno Campi che il compagno Vinci così come compagni che, con varie sfumature, ne avevano condiviso le controrelazioni.

Mi scuso con i compagni che ho citato se sono stato impreciso o cattivo nel tirare i sassi nello stagno, ma vorrei che questa prima parte fosse presa come una benevola provocazione (d'altronde necessaria, almeno a livello informativo, per il corpo del nostro partito).

A questo proposito occorre sfatare un nuovo vezzo che da un pò di tempo circola tra i compagni, quello del non pduppizzarsi (che brutta parola) almeno a livello dello stile di lavoro (dove per pdupizzazione si intende quella pratica di tipo frazionistico e denigratorio di cui parlava Rieser sul Quotidiano).

Di buone intenzioni sono lastricate le vie dell'inferno, ma io credo che ci si debba seriamente chiedere a chi giovano le false mediazioni e se non sono proprio queste, se non è il rifiuto pertinace di accettare la divergenza e lo scontro politico, a produrre in forma ancora moltiplicata certe degenerazioni.

C'è poi una variante di questa posizione che consiste nel fare lotta politica scegliendo bersagli anonimi oppure di comodo (fuori di Ao).

Tra tutti i compagni si respira aria di disagio; la rottura dei gusci protettivi del piccolo gruppo ci ha sottoposto nel giro di un paio d'anni ad una tempesta politica cui non eravamo abituati e di fronte alla quale non possiamo però cercare rifugio nel ripiegamento interno, nella logica del rinvio, nella elusione del dibattito.

Un modo di farlo è per esempio quello di dire che le divergenze non esistono (non sono mai esistite e dunque si tratta solo di incomprensioni!); non informare i compagni, anzi disinformarli; e infine assumere quello stile ipocrita e gesuitico che non c'entra niente con il leninismo che consiste nel gridare ai quattro venti che non è successo nulla mentre si continua a pescare nel torbido.

E vengo dunque ad alcuni problemi di sostanza che mi stanno a cuore e che vanno probabilmente al di là di quei compositi schieramenti che si sono formati nel partito:· il rapporto con il Pdup, quello con Lotta Continua, le tendenze alla grande AO, i rischi di ripiegamento economicista.

Incominciamo con l'ultima questione perchè per Avanguardia Operaia si tratta in una certa misura di un vizio di origine storica e che, se è servito a vaccinarci dal dottrinarismo in una fase poco onorevole per la sinistra rivoluzionaria italiana, rischia di portarci diritti alla morte politica in un momento in cui tutte le deviazioni che partano dalla incapacità di essere soggetto politico trasformatore della realtà convergono e si scambiano i ruoli reciproci.

Cè un brano delle Note sul Macchiavelli di Gramsci che mi sembra particolarmente significativo a questo riguardo sia per il modo con cui sottolinea il legame tra intransigenti ed economicisti, sia per le valutazioni successive sulla battaglia ideologica di massa.

Ma sentiamo cosa afferma Gramsci nello scritto in cui pone al partito rivoluzionario due compiti principali: quello di far crescere tra le masse una coscienza nazional-popolare e di operare nel senso di una riforma intellettuale e morale.


«Un elemento da aggiungere come esemplificazione delle teorie cosidette della intransigenza è quello della avversione di principio ai cosidetti compromessi. che ha come manifestazione subordinata quella che si può chiamare la paura dei pericoli.

Che l'avversione di principio ai compromessi sia strettamente legata all'economicismo è chiaro in quanto la concezione su cui si fonda tale avversione non può essere altro che la convinzione ferrea che esistano per lo sviluppo storico leggi obiettive dello stesso carattere delle leggi naturali con in più la persuasione di un finalismo fatalistico di carattere simile a quello religioso.

Poichè le condizioni favorevoli dovranno fatalmente verificarsi e da esse saranno determinati in modo alquanto misterioso, avvenimenti palingenetici risulta la inutilità non solo, ma il danno di ogni iniziativa volontaria tendente a predisporre queste situazioni secondo un piano.

Accanto a queste convinzioni fatalistiche sta tuttavia la tendenza ad affidarsi in seguito ciecamente e scriteriatamente alla virtù regolatrice delle armi, ciò che però non è completamente senza una logica e una coerenza, poichè si pensa che l'intervento della volontà è utile per la distruzione, non per la ricostruzione (già in atto nel momento stesso della distruzione).

La distruzione viene concepita meccanicamente, non come distruzione-ricostruzione. In tali modi di pensare non si tiene conto del fattore tempo e non si tiene conto. in ultima analisi. della stessa economia nel senso che non si capisce come i fatti ideologici di massa sono sempre in arretrato sui fenomeni economici di massa e come pertanto in certi momenti la spinta automatica dovuta al fattore economico è rallentata. impastoiata o anche spezzata momentaneamente da elementi ideologici tradizionali; che perciò deve esserci lotta cosciente e predisposta per far prendere le esigenze della posizione economica di massa che possono essere in contrasto con le direttive dei capi tradizionali.

Una iniziativa politica appropriata è sempre necessaria per liberare la spinta economica dalle pastoie della politica tradizionale. per mutare cioè la direzione politica di certe forze che è necessario assorbire per realizzare un nuovo, omogeneo, senza contraddizioni interne, blocco storico economico-politico».


Gramsci dal carcere protesta contro le posizioni catastrofiche dell'internazionale e ci fornisce un esempio di leninismo applicato alla rivoluzione in occidente, una concretizzazione già qui di alcuni principi generali della lotta politica.

Vedremo a nostra volta come certi principi generali espressi nel brano citato si leghino al nostro dibattito interno.

(continua)

2

Quotidiano dei Lavoratori 5 agosto 1976


I

Anche dopo il risultato del 20, giugno non si deve attuare la politica dello struzzo che consiste nel deresponsabilizzare i gruppi dirigenti e, affidandosi indistintamente alle masse (ma quanto poco si tratta poi di un affidarsi, e quanto poco si tratta delle masse), riproporre, a quattro anni dal '72, la lotta eroica, il bagno nel sociale, il rifiuto del programma, magari condito di giaculatorie contro gli errori di catastrofismo.

Questo non è leninismo! Ma paura dei pericoli, applicazione concreta di quel principio mille volte condannato da Lenin che consiste nel preservarsi incontaminati dal rischio di inquinamenti attraverso il rifiuto del rapporto politico pratico il cui primo assunto è quello di venire a contatto con l'avversario con cui si intende misurarsi.

Oggi più che mai noi abbiamo bisogno di misurarci (al nostro interno, ma soprattutto all'esterno) su programmi politici, su modelli comcreti di obiettivi e società che sappiano legare lotta per il comunismo e soggetto che la realizza.

Mi pare invece che troppo spesso ci ricordiamo del Lenin degli scritti e volantini sul tè agli operai e quasi mai del Lenin che propone prima un programma di rivoluzione democratica e poi quello del potere sovietico.

Quest'ultimo era in realtà molto scarno, adeguato alle caratteristiche della società russa, ma coglieva il nocciolo dei problemi (la guerra, la questione contadina, le forme del nuovo stato, le nazionalità … ).

Se questo è vero, io non ritengo adeguato il modo prettamente estremista ed economicista insieme con cui ci stiamo rapportando al dopo 20 giugno, e nel dire questo non intendo sottovalutare le gravi deficenze del gruppo dirigente del Pdup, come al solito tentato dall'idealismo illuministico.

II

C'è, in un certo modo di proporre il dibattito sullo stato e sul partito, il riemergère di tentazioni alla cancellazione dalla scena del nostro partito e del nostro lavoro delle grandi questioni nazionali (quella contadina, quella meridionale, quella cattolica vista dalle accezioni nuove determinate dal regime democristiano e che Gramsci non aveva potuto vedere se non in forma infinitesimale, guella del riformismo di origine comunista) per tuffarsi in cosa?

Da un lato in un dibattito per molti versi ozioso sui collettivi di Dp e dall'altro sulle grandi questioni di principio realizzando cosi quello che Gramsci chiama finalismo fatalistico di carattere simile a quello religioso.

Osserviamo il muro di silenzio caduto sui temi del blocco sociale anticapitalistico posti al centro della relazione Campi e che pure dovrebbero fare da supporto ad un'autocritica e a una correzione di rotta. Una volta tanto hanno ragione i compagni del Pci ad osservare su Rinascita come, dentro la sinistra rivoluzionaria, il nostro dibattito si configuri come il più povero.

III

Questa ventata di putchismo del tempo del mai che emerge ora, visto che il miracoloso 51% non è stato raggiunto, si tira dietro alcune posizioni che emergevano già in Avanguardia Operaia prima della scadenza elettorale nel modo sclerotico e miracolistico con cui veniva riproposto il discorso sulla instabilità politica.

La crisi di regime e il.governo delle sinistre vivevano in continuità all'insegna della dialettica stabilizzazione-destabilizzazione dentro cui ai rivoluzionari competeva il compito principale di affrettare le cose: affrettare la crisi dc, affrettare la crisi del riformismo, affrettare il passaggio dal controllo popolare al potere popolare.

Ora poi sembra addirittura poco rivoluzionario discutere di altro che non sia da un lato il domani e dall'altro la presa del potere come se quello che ci sta in mezzo non fosse il modo concreto di far politica oggi, e distinguere i rivoluzionari (che la rivoluzione la fanno) da quelli che vorrebbero semplicemente farla.

IV

Mi voglio ancora riferiere a Gramsci per porre una questione che sta al centro dell'analisi sulla crisi di regime e che mi pare sia stata mal posta da diversi compagni. In particolare da quelli di Torino che mi sembrano i più decisi a sottovalutare il carattere di regime della crisi e ad assegnare alla borghesia italiana capacità miracolistiche nel dominare, con la forza di volontà, la crisi sociale.

La spinta economica è impastoiata dalla politica tradizionale? I fatti ideologici di massa sono in arretrato sui fatti economici di massa? Lo stesso aumento elettorale del Pci fondato sulla linea della soliderità nazionale non è in qualche modo legato a questo ritardo?

Certo si tratta di un ritardo che non si colma con le prediche sul bisogno di comunismo (o solo con la lotta ideologica di massa) ma concepire lo stesso progetto di proletarizzzione del partito al di fuori di questi assunti vuol dire scontrarsi presto o tardi (e io penso che in una situazione come l'attuale sarebbe molto presto) con il minoritarismo cronico e con la proletarizzazione elevata al rango di ideologia.

Ci si deve rendere conto che da un'analisi sul carattere organico della crisi democristiana (con radici da ricercare nella crisi congiunta di tutti gli elementi caratterizzanti il blocco sociale dc) discende la necessità di una valutazione del recupero elettorale che distingue tra:

– la tenuta (frutto prevalentemente della mancata iniziativa politica. pratica e strategica) di tutta la sinistra che assegna alla Dc oltre il 30% dei suffragi confermandone il carattere di partito a base popolare arretrata

– il recupero a spese del centro laico e della destra politica o del ceto medio urbano in termini di classe che è frutto tanto della politica governativa quanto dell'iniziativa politica del padronato grande e piccolo, ma che è interessante per ora solo a livello dinamico. E' un 4% che rappresenta poco più di un milione e mezzo di elettori).

C'è un rovescio della medaglia che da comunisti dobbiamo cogliere in tutta la sua importanza per la rivoluzione italiana.

Il diritto della medaglia è rappresentato dalla capacità della Chiesa di continuare ad essere cultura di governanti, strumento di realizzazione di un consenso popolare non eversivo persino quando si colloca a livello sindacale in forme di rivendicazionismo esasperato, come in certi strati di sindacalismo del pubblico impiego.

La chiesa cattolica si fa apparato ideolgico di cultura o di sottocultura per la povera gente e non si scandalizza di scendere al livello dei diseredati se questo fatto le consente di avere una linea di massa che paga.

Il rovescio della medaglia è rappresentato dal potenziale esplosivo che la cultura dell'interclassismo contiene.

Il solidarismo cattolico può diventare la pietra su cui si fonda il passaggio alla solidarietà comunista sconfiggendo tutti i tentativi della borghesia di sostituire ad un tipo di rappresentanza politica fondata sull'interclassismo, un partito di massa di tipo tecnocratico, scientista e individualista sul modello delle società a bipartitismo perfetto.

Ecco espresso in poche parole il motivo per cui la questione cattolica rappresenta una questione nazionale, non nel senso limitato che senza risolverla non si riesce a disgregare il blocco capitalistico, ma in quello molto più ampio del'effetto moltiplicatore in senso socialista che può venire dalla crisi del movimento cattolico organizzato. rispetto al progetto di riforma intellettuale e morale.

I richiami alla necessità di considerare la questione democristiana in tutta la sua complessità mi sembrano giusti: rapporto tra partito e frazioni borghesi, meccanismi economici .e culturali di aggregazione del blocco sociale democristiano, stato di avanzamento della crisi di determinati valori che saldavano la società contadina e morale reazionaria e loro parziale sostituzione con embrioni di ideologie da società del benessere laicizzata quanto basta. Ma non mi pare che un partito come il nostro abbia finora peccato di eccesso di sovrastrutturalismo, anzi.

E' impressionante vedere come buona parte dei nostri militanti, anche dopo quasi due anni di esistenza del giornale, sia ancora largamente diseducata a prestare attenzione alla realtà in tutta la sua complessità (e le responsabilità sono di tutto il gruppo dirigente) e scelga piuttosto di ragionare per schemi, il mito della linea, quasi che il partito fosse una sorta di società nella società.

Ecco allora il modo rozzo e schematico di concepire la lotta politica e prima ancora di essa l'analisi della realtà che viene vista attraverso le lenti deformanti di quella logica da piccolo gruppo che consiste nel considerarsi. al centro dell'universo e, peggio ancora, motore principale del suo movimento.

V

Ho citato l'esempio della questione cattolica, ma anche altri nodi che stanno al centro della costruzione del blocco anticapitalistico con identica potenzialità moltiplicatrice e con delle forme singolari di connessione con la questione cattolica, e cioè la liberazione della donna attraverso l'autonomia, la separazione, il femminismo, e la questione giovanile come rifiuto di massa del vecchio mondo e dei suoi sistemi di integrazione-irregimentazione. costituiscono secondo me le premesse per un corretto modo di porre la stessa proletarizzazione.

O riusciamo ad essere veramente alternativi al riformismo, ad essere credibili nella proposta di lotta per il socialismo e dunque sappiamo guardare lontano, farci carico di tutti i problemi del blocco anticapitalistico, oppure lo stesso progetto di conquista degli operai di avanguardia diventa un fatto di volontarismo basato sulla logica del reclutamento uno per uno.

Si uniscono così volontarismo e minoritarismo e si rischia. di limitare il concetto di operaio di avanguardia a quello spontaneista di operaio incazzato.

Si introduce, qui di sfuggita, il problema del dislegame tra la nostra pratica di lotta e la riflessione e gestione politica di essa. Rispetto ad un anno fa mi pare che siamo andati piuttosto indietro che avanti.

Prendiamo l'esempio delle lotte sul terreno dei bisogni sociali delle masse. anche di quelle gestite in prima persona dal nostro partito. Siamo stati forse migliori degli altri sul piano sindacale nel costruire forme di vertenzialità cittadina e in qualche momento addirittura nazionale, ma non abbiamo saputo gestire queste lotte come momenti di crescita politica di massa.

Ci sono settori consistenti di masse popolari e di strati democratici che ci hanno negato il voto dopo aver lottato con noi e lo hanno dato più spesso ai radicali o al Pci.

Si tratta di una mancata adesione che non può assolutamente essere addebitata alla sfasatura temporale tra il livello delle lotte e la sua traduzione elettorale.

Il rifiuto è stato cosciente (e al di là di certi aspetti disgustosi di gestione della campagna elettorale) credo sia riconoscibile al fatto che i proletari e i giovani ci hanno giudicato per quello che siamo e abbiamo saputo contare.

Lungi da me ogni forma di giustlficazionismo proletario alla Lotta Continua, qui siamo in presenza di ritardi ed errori da parte dei rivoluzionari.

Se ci mettiamo a fare solo o principalmente i sindacalisti e non diamo a questa attività uno sbocco concreto di programma politico, la gente continuerà ad occupare le case, a trovare interessanti i mercatini, a consegnarci le bollette per pagare meno il telefono . . a considerare i rivoluzionari dei Cub o nei Cdf dei bravi compagni di cui ci si può fidare, ma al momento di operare una scelta più globale continuerà a scegliere per il Pci.

Darci una identità politica, al nostro interno, ma soprattutto verso l'esterno significa smettere di auspicare la soluzione di questi problemi e agire in un'ottica e con forme di organizzazione diverse da quelle che abbiamo avuto finora. In altre parole imporre nei fatti la propria presenza politica. E il primo passo consiste nella critica pratica dell'economicismo.

3

Quotidiano dei Lavoratori 6 agosto 1976


Vengo infine ai problemi di costruzione del partito (e in particolare ai rapporti con il Pdup e Lc) e alla polemica che ritengo debba essere spietata contro ogni logica da grande AO.

Mentre comincio a scrivere questa terza parte è comparso sul Manifesto l'articolo del compagno Magri e, visto che lo condivido in larga parte, ciò mi consente di abbreviare alcune considerazioni.

Preciso inoltre che non ho potuto seguire con sufficiente completezza il dibattito in Lotta Continua ma ritengo che alcuni obiettivi sui compiti che ci dobbiamo porre nei confronti di questo partito debbano essere considerati validi indipendentemente dalle conclusioni della loro assemblea nazionale, stante il livello di crisi di trasformazione in cui si trova tutta la sinistra rivoluzionaria.

Volendo forzare un po' voglio dire che oggi esiste dentro i tre partiti rivoluzionari una componente numerosa di compagni che vede il processo di unificazione-trasformazione di essi come possibile già ora e non in termini moralistici (di richiamo all'unità). Ma andiamo con ordine.

La tendenza a forzare i caratteri di identità politica propria attraverso un arretramento di elaborazione e la sottolineatura degli elementi di differenziazione dagli altri è un dato costante ed emergente dei momenti di crisi, ma nondimeno si tratta di un elemento negativo.

La sinistra rivoluzionaria italiana nata e cresciuta in una lotta costante per l'affermazione della propria esistenza e ne è ampiamente contaminata: patriottismo di gruppo, culto della linea, utilizzo della ideologia in sostituzione dell'iniziativa politica, concezione strumentale della lotta per l'unità.

Questo dello strumentalismo nel modo di rapportarsi alle altre forze politiche è purtroppo una costante che ritroviamo nei nostri rapporti interni alla sinistra rivoluzionaria. L'arretratezza nel processo di costruzione del partito diventa fattore di potenziamento dei meccanismi di autodifesa del potere dei gruppi dirigenti, della superiorità presunta o reale delle proprie esperienze politiche.

Avanguardia Operaia. a partire dal quarto congresso, ha affermato pubblicamente di voler abbandonare questo modo di far politica, ma mentre le è stato facile affermarlo e praticarlo in una fase ascendente, lo stesso non credo si possa affermare in un momento come questo.

Ora ci sono certamente dei limiti oggettivi in una certa misura insuperabili finchè permangono la debolezza e la frammentazione della sinistra rivoluzionaria (per esempio tutta la vicenda della formazione delle liste o dei protocolli segreti che hanno accompagnato l'accordo elettorale).

Ma accanto a questi prezzi che le organizzazioni pagano nei confronti del movimento ce ne sono altri che possono contare. Si tratta della logica da intergruppi che troppo spesso guida gli organismi unitari e di cui ho avuto modo di discutere ampiamente con i cosiddetti cani sciolti dell'area di Dp semplicemente terrorizzati dall'idea di rimanere ancora a lungo in organismi troppo spesso estraniati di potere e ridotti a luoghi di organizzazione della lotta rivendicativa.

Ancora ho avuto modo di cogliere questo distacco tra militanti delle organizzazioni e compagni e compagne del movimento durante la campagna elettorale. I primi sono ancora disposti ad ascoltare giustificazioni, a capire; tra i secondi c'è solo la speranza che il limbo di Dp si esaurisca il più presto possibile per far spazio al partito della rivoluzione.

A Milano c'è persino un modo di dire per esprimere questo stato d'animo: «non se ne può più di … ».

Credo che un modo scorretto di fare del nazionalismo e di non autocriticarsi da parte nostra consista nella pratica comunemente applicata di costruirsi dei bersagli di comodo dentro la sinistra rivoluzionaria. Sta qui la base del centrismo politico e di schieramento che ci viene attribuito.

«Empirista come Lotta Continua», «Filorevisionista come Magri», «idealista come la destra Pdup», «inesistente nelle lotte come la sinistra sindacale»; «estremista ed economicista come Lotta Continua».

Ora certamente il fatto di appartenere ad una organizzazione politica piuttosto che ad un'altra indica una scelta di giudizio sulla linea di questa organizzazione e su quella delle altre, ma in un momento come questo non mi sembra giusto operare delle schematizzazioni artificiali visto che il dibattito passa largamente all'interno degli stessi partiti e che la base di partenza è costituita da una generale arretratezza di tutta la sinistra rivoluzionaria.

Un'altra posizione da grande AO è, per esempio, quella di chi si scandalizza della rimessa in discussione del ruolo dei Cub o scambia la necessità di conservare uno spazio per la organizzazione della autonomia operaia con problemi di sigla, forma organizzativa e cose simili.

Assistendo al dibattito che si è sviluppato sulla questione dei collettivi di Democrazia Proletaria ho avuto la netta impressione che da parte nostra, come da parte del Pdup, si fosse spesso in presenza di fenomeni di reciproca strumentalizzazione.

Avanguardia Operaia che sembrava affermare: qui vi attendiamo a piè fermo. O accettate di confrontarvi con questo aspetto della partecipazione delle masse al processo di costruzione del partito oppure qui ne va di mezzo l'unificazione.

Il Pdup che sull'altro versante ne tirava fuori una peggio (o meglio) dell' altra per giustificare i freni alla pratica unitaria: la confusione con i consigli, le differenze che tali organismi assumono a seconda delle realtà sociali in cui si sviluppano il modo di concepire la presenza del partito dentro le fabbriche.

Devo dire con tutta franchezza che ancora oggi non ritrovo su questo tema delle divergenze di organizzazione. Mi pare piuttosto che i collettivi di Dp rischiano di diventare una specie di coperta buona per praticare la lotta politica dentro e fuori di esse a suon di documenti, ma che siamo ancora abbastanza lontani dalla sperimentazione di quell'ossigeno che può venire a tutti da una pratica di movimento realmente unitaria.

Noi con il nostro vizio di mettere il cappello su tutte le cose (ecco la grande AO che rispunta!), il Pdup con quello complementare di trascurare i problemi dell'unità dei rivoluzionari come condizione necessaria a praticare una linea di massa che non dimentichi il problema della lotta tra le due linee nel movimento operaio,

A settembre, oltre che i problemi di verifica pratica dell'unità tra i due partiti, avremo di fronte quelli del confronto strategico e del nostro congresso.

lo penso che sia stata sbagliata la scelta di porre al centro di questo congresso partito, stato e strategia congressuale in modo separato.

Così facendo rischiamo di compiere delle scelte metodologiche che affidano il processo di unificazione con il Pdup in larga misura al gruppo dirigente. Questi viene chiamato ad un'elaborazione e ad un confronto estremamente impegnativi ed in tempi strettissimi.

Inoltre la separazione della tematica rischia di rendere a maggior ragione protagonisti i gruppi dirigenti che, stante le differenze di origine storica, non sono certo i più indicati a risolvere in tempi rapidi dei nodi strategici che vedono posizioni di partenza oggettivamente molto diverse.

Il Pdup deve fare i conti con il togliattismo e non si tratta di conti che si esauriscano nel giro di pochi mesi.

Avanguardia Operaia deve ancora costruire e coniugare politicamente il nesso Lenin-Gramsci, gradino indispensabile per superare quella separazione tra pratica immediata e riferimenti generali che indicavo nella seconda parte dell'articolo.

Quello che dobbiamo tirame fuori (insieme) sono un po' le tesi di Lione della sinistra rivoluzionaria. Per tutto questo avrei preferito un congresso che fosse esplicitamente di scioglimento e che fosse tutto politico, rinviandolo magari di un mese per separarlo da quel lavoro di convergenza reciproca sulle grandi questioni di strategia che implica necessariamente qualche mese di preparazione e di digestione.

La nostra esperienza di approfondimento sui temi della rivoluzione italiana si è incentrata al IV congresso sul rapporto con il riformismo. Se allora abbiamo prodotto un lago ora abbiamo di fronte un mare: esame del blocco capitalistico e di quello anticapitalistico in termini di classe, forze sociali e politiche, affinamento e approfondimento della natura del Pci.

Emergono allora come temi del congresso da un lato le questioni, nazionali e il programma e dall'altro il progetto di governo delle sinistre come stadio della via al socialismo.

Ma questo stesso elemento non può essere distinto da un'ulteriore riflessione sul Pci, oggi non più rinviabile. La nostra analisi si fonda oltre che sulla natura operaia di questo partito sulla sua debolezza strategica. Il 15 e il 20 giugno, la capacità del Pci di essere protagonista dello scontro sociale, il suo essere stato nello stato, esigono una riflessione di tendenza.

Le nostre ipotesi sono ancora valide? Se sì allora forziamo al massimo i momenti unitari e costruiamo un tipo di partito adeguato al governo delle sinistre.

Se no incominciamo ad attrezzarci per una battaglia di lungo periodo e per una battaglia di rifondazione radicale del movimento operaio. La stessa tattica immediata e il volto del partito ne dovranno risentire.

Resta infine il problema,di Lotta Continua. Su questo punto. come su altri relativi ai caratteri del blocco anticapitalistico, si è molto equivocato in Avanguardia Operaia.

Noi non solo non dobbiamo avere concezioni punitive e ghettizzanti nel processo di costruzione del partito (e proporre a Lc solo l'unità d'azione significa averle)  ma non credo che non potremmo accettare la linea (un tempo maggioritaria nel Pdup) del «o noi o loro».

Non si tratta tanto di riequilibrare a sinistra una deriva che con l'unificazione con il Pdup e con il rapporto aperto ai riformisti ci porterebbe troppo a destra.

Il problema è un altro e riguarda la necessità di sintetizzare nel partito nascente tutte le energie. le esperienze. il meglio dei quadri e dei gruppi dirigenti che 9 anni di sinistra rivoluzionaria hanno selezionato.

Sull'argomento del rapporto con Lotta Continua hanno invece pesato contemporaneamente sia la concezione da grande Ao che il condizionamento del Pdup e oggi ancora l'argomento Lotta Continua semhra essere più una merce di scambio in funzione del nostro dibattito interno che un problema di prospettiva.

Quelli che con più forza volevano l'unità con il Pdup (con tutto il Pdup) erano i più disponibili a battersi per non ghettizzare Lotta Continua e viceversa.

Poi dopo le elezioni le posizioni sembrano essersi rovesciate e anche questo è un segno del fatto che la divisione che ci travaglia (non quella espressasi nella votazione) non è quella classica, o comoda, destra sinistra ma piuttosto bisogno di un ulteriore dibattito politico, di liberarsi della contrapposizione personalista  e infine di sboccare con un'elaborazione in avanti.

Solo un atteggiamento estremamente umile (al limite prevalentemente negativo sul proprio partito) può consentire alla sinistra rivoluzionaria di dibattere liberamente i propri problemi.

Da parte nostra esistono certamente esperienze pratiche e convergenze politiche più avanzate con il Pdup e sarebbe assurdo far finta che il fattore tempo non esiste, per cui il problema dell'unificazione con esso va mantenuto non solo attuale ma deve essere al centro del congresso in due sensi (come determinazione nostra a fare del V congresso quello di scioglimento e come presenza attiva del Pdup nel dibattito congressuale).

Ma questa coscienza del fattore tempo deve anche inaugurare una fase nuova di rapporti con Lotta Continua già in fase di elaborazione di materiali congressuali. Se ci si muove a partire da questo punto si riesce a sfatare il mito di un'equazione che se risulta vera in generale non mi pare soddisfacente per l'Italia: quella che suona cosi «costituente dei rivoluzionari uguale minoritarismo».

Il problema dell'identità politica del partito è certo importante a determinarne la forza e la credibilità, ma quanto valgono ancora oggi in pieno ripensamento autocritico gli schemi usuali?

Sugli altri, noi abbiamo la possibilità di trasformare tutta la sinistra rivoluzionaria sintetizzando e trasformando quello che già esiste (ed è poco, ma prezioso) con quello che sta fuori di noi.

In questo processo ognuno· dei tre piccoli partiti ha dei patrimoni importanti di esperienze da portare. Il nostro è forse quello della natura di combattimento del partito e della presenza più ampia di dirigenti intermedi.

Le remore sono molte, ma si tratta appunto di remore e proprio questo nostro tipo di patrimonio può essere fondamentale nel rendere tutto il partito protagonista del processo di unificazione.

Non ho accennato volutamente al problema dei marxisti-leninisti non perchè non contino ma perchè è mia impressione che dopo aver giocato un ruolo importante nel primi anni '70 nello stimolare la sinistra rivoluzionaria all'attenzione politica, stiano vivendo ora uno dei momenti peggiori della loro storia e non esistono le condizioni di una convergenza finchè non muta il tipo di approccio ideologico alla realtà di cui le reminiscenze socialiste sono solo un aspetto.