Emilio Genovesi – intervista su AO

Qual’era il clima politico in cui sei cresciuto, nella famiglia o tra gli amici?

Sono nato nel 1952. I miei genitori erano insegnanti delle scuole medie inferiori. Mio padre era un dirigente locale della Dc. Mia mamma non era interessata alla politica, diceva di votare Psi ma credo lo dicesse solo per fare arrabbiare mio padre. Era di formazione sabauda, e quando cominciai a far politica si arrabbiò; una volta riuscì a litigare col preside della mia scuola, che era filo MSI, rimproverandolo “da destra” di essere troppo compiacente con i movimenti di sinistra. Noi a scuola facevamo le solite agitazioni studentesche di quei tempi e lui non aveva voglia di chiamare sempre la polizia e a volte lasciava correre, e mia madre lo rimproverò, considerandolo troppo permissivo.


Come e perché ti sei avvicinato ad Ao?

Mi sono avvicinato alla politica al liceo, quando iniziarono i grandi scioperi studenteschi del 1969-1970. Li facevano tutti, e quindi anche io. Inoltre ci furono due miei amici che cominciarono ad impegnarsi più attivamente e li seguii, più per curiosità e amicizia che per altro. Uno di loro era amico di Giorgio Semeria, uno dei fondatori delle Br. Si erano conosciuti in Gioventù Studentesca, entrambi erano cattolici. Uscì da GS ed entrò nel collettivo politico metropolitano. Si riunivano in via Curtatone, c’era anche Roberto Curcio. Io ogni tanto lo accompagnavo la sera a queste riunioni, ma capivo poco e mi annoiavo. Questo durò un annetto, appena capii l’indirizzo che stava prendendo la cosa, me ne andai, e convinsi anche il mio amico a fare altrettanto.

Frequentavo il liceo Beccaria. Nei licei era egemone il Movimento Studentesco (di seguito MS), negli istituti tecnici c’erano Avanguardia Operaia (di seguito Ao) e un po’ Lotta Continua (di seguito LC). Al Beccaria c’erano tutti, ma nessuno era egemone. A questo punto, abbandonate le cattive compagnie, frequentai il collettivo del liceo. Ogni occasione era buona per occupare. Dopo la maturità, nel 1971 mi iscrissi a Medicina. I miei amici stavano in Lotta Continua, ma a me non piaceva, mi sembrava una situazione confusa. Si vede che l’influsso di mia madre, incline alle situazioni ordinate, si faceva sentire.


Cosa ti attirava di Ao?

Fui accalappiato da uno del Molinari che cercava adepti per Ao nella mia zona; l’ho reincontrato anni fa a una riunione di lavoro in Regione Lombardia, era di Forza Italia. Aveva il compito di costituire Ao nei licei. Io mi portai dietro un po’ di gente del Beccaria perché avevo un po’ di seguito. Costituimmo la cellula Beccaria-Berchet, e anche la cellula del Parini, in cui conobbi Marco Garofalo. I pariniani erano ricchi, al Beccaria invece c’era gente abbiente e chi come me veniva dalla piccola borghesia. A quel tempo, nel 1972 o 1973, la responsabilità dei medi di Ao era di Giovanni Lanzone. Lanzone decise di concentrarsi sulla costruzione dei Comitati Unitari di Base (Cub) studenteschi.

Mia madre morì presto, quando avevo 18 anni. Con mio padre litigai ferocemente. A un certo punto ruppi definitivamente e me ne andai di casa; comunicai quindi ad Ao che se volevano che continuassi a fare politica dovevo fare il funzionario politico retribuito, ma siccome lo stipendio non bastava, integravo facendo il maestro di tennis. Andavo alle riunioni alla sera con la racchetta, tutti mi prendevano in giro dicendo che ero un borghese, ma lo facevo per vivere.


Che responsabilità avevi?

Io presi il posto di chi mi aveva reclutato e andai a costruire il Comitato di Agitazione degli studenti medi di Milano, che era l’unione dei Cub. Fui mandato a fondare i Cub in zona San Siro, dove c’era solo il Movimento studentesco. Dopo tre anni c’era solo Ao. Mi sbattevo molte ore al giorno, portavo risultati. Non ero un grande intellettuale, non lo sono neppure oggi, ma passavo le notti a stampare volantini. Il riconoscimento del mio lavoro venne formalizzato nel convegno nazionale dei Cub, quando io fui scelto per curare l’organizzazione dell’evento, vale a dire dare da mangiare panini a 3.000 persone al Palalido e trovare un letto per tutti nelle case dei compagni milanesi.

Divenni così responsabile d’organizzazione degli studenti medi. Una figura importante che incontrai fu Ezio Manzini, che poi divenne docente al Politecnico; ai tempi era docente in un istituto tecnico. Tra gli studenti che crebbero politicamente al mio fianco c’era Lionello Cerri, ora proprietario del maggior spazio cinematografico milanese e produttore cinematografico.

Quando Lanzone, credo a fine 1973, fu mandato a fondare Ao a Roma, assieme a Francesco Forcolini, fu sostituito da Manzini.


Com’era organizzata Ao? Quali le questioni importanti su cui era impegnata?

Per come l’ho vissuta io, in Ao c’era una segreteria nazionale e una cittadina, ma praticamente coincidevano, perché Ao era solo a Milano. La situazione cambiò quando entrarono i torinesi e si rafforzarono i veneti. Il grande salto fu quando si decise di sbarcare a Roma e di fondare il Quotidiano dei Lavoratori.

In quegli anni in Ao eravamo impegnati su tre questioni. Innanzitutto, Ao a Milano cercava di assumere un ruolo di protagonista in competizione con il Movimento Studentesco; la cosa riuscì solo quando loro si divisero, Mario Capanna andò col Pdup, Popi Saracino col gruppo Gramsci.

L’altra attività importante in Ao era quella nelle fabbriche; la questione era come utilizzare la nostra forza per incidere sulle scelte del sindacato.

Poi c’era lo sforzo di espandersi a livello nazionale. Ao inseguì un po' Lotta Continua, che era un gruppo nazionale, ma mentre LC procedeva per salti senza preoccuparsi delle salmerie, Ao quando faceva un passo, lo meditava di più.


Ti sei occupato del servizio d’ordine?

Io fui l’eroe dello scontro col Movimento studentesco. Il culmine della diatriba fu una manifestazione, non ricordo se del 1973 o 1974, in cui loro ci diedero un sacco di legnate. Anch’io le presi e nonostante le ferite alla testa fui anche arrestato; feci 15 giorni di galera, per cui diventai un po' il martire. Il famoso magistrato Viola, il magistrato con la pistola, ci mise in isolamento perché confessassimo, ma non aveva elementi. Infatti al processo fummo assolti dall’accusa di rissa aggravata perché non fu nemmeno dimostrata la rissa.

Un altro importante dibattito che ci attraversò nel 1972-1974 fu il tema dell’organizzazione e della violenza. Noi avevamo dirigenti che erano teorici politici, a differenza del Movimento Studentesco, dove diventavi dirigente anche perché non ti tiravi indietro se c’era da far andar le mani (tranne Turi Toscano). Dopo le botte col Movimento Studentesco si pose la questione dell’autodifesa, e si pose soprattutto tra gli studenti.

Essendo io affidabile volevano scegliermi per fare il capo del servizio d’ordine dei medi. A me non andava molto, fiutavo la fregatura, per fortuna fui salvato da Lanzone che disse che dovevo divenire dirigente politico e diventai il suo successore come dirigente degli studenti medi.


Quali ritieni fossero gli apetti positivi e negativi di Ao? Cosa ne pensavi allora e cosa ne pensi oggi?

Intanto nacque il Quotidiano dei Lavoratori. Questo significava che se fino allora la linea la dava la segreteria nazionale e veniva riportata top down da riunione in riunione, ora la dava l’editoriale del Qdl. A quel punto ci fu la divaricazione tra il livello nazionale e quello milanese.

Ao era ormai diventata un soggetto nazionale, anche se, tranne che a Milano, a Roma e un po' a Torino, eravamo poco radicati negli altri territori. Nella dialettica tra destra e sinistra di Ao, Vittorio Rieser e Franco Calamida (che divenne amico di Rieser) rappresentavano il centro. Ricordo che c’era sempre un documento della destra, uno della sinistra e uno di mediazione di Rieser che diceva di non radicalizzare le posizioni.
Spesso Ao andava all’inseguimento di LC, ma non sulla questione della casa. A Milano l’esperienza fu differente, il capo era Aurelio Cipriani detto Cippino, che era il capo delle occupazioni; assieme a Sandro Barzaghi costruirono un movimento per l’occupazione delle case, che nelle altre città era invece prerogativa di LC.


Come ricordi l’esplosione del femminismo?

Alla fine anche in Ao esplose il movimento femminista. In LC accadde prima e coinvolse di più tutta l’organizzazione. In Ao, che era un gruppo più rigido di LC, le donne che si autorganizzavano e denunciavano il loro sfruttamento, erano percepite come un pericoloso elemento di rottura, perché Ao era cresciuta sulla classica cultura comunista per cui la contraddizione principale era tra proletariato e capitale.


Quali sono state le lotte politiche a cui hai partecipato?

Io a questo punto ero responsabile degli studenti medi. Amo dire che nella vita il mio massimo momento di potere l’ho avuto allora a 24 anni. Con una sola telefonata la mattina potevo bloccare le scuole di Milano con uno sciopero e portare in piazza da 10 a 30 mila studenti. Entrai così nella segreteria provinciale e nella commissione scuola nazionale. Roberto Biorcio era responsabile della commissione scuola nazionale, finché l’organizzazione nazionale era ‘milanese’, poi Biorcio divenne segretario di Milano.

Mi ricordo invece bene gli appassionati e anche duri dibattiti politici a cui partecipai. Oltre a quelli già ricordati sulla violenza e il femminismo, importante fu quello sulle nuove culture giovanili. Su quest’ultima questione, io e Lanzone capivamo che se avessimo continuato a fare i leninisti duri e poco più saremmo rimasti in assoluta minoranza tra i giovani. Organizzammo così il famoso festival del proletariato giovanile a Licola, sul litorale campano.

Come in tutti i concerti, giravano un po' di droghe leggere. Fummo attaccati, il regista dell’attacco fu Luigi Vinci, l’attacco fu condotto da Giampiero Rota. L’attacco fu diretto contro di me, perché attaccare Lanzone era più difficile. Fui accusato di deviazione borghese. Quel giorno capii che la politica è anche cattiveria. Lanzone mi difese e alla fine mi salvò; non ero un eretico. Questo epilogo della discussione significava che anche in Ao un minimo al passo dei tempi si era.

In LC questa discussione non sarebbe nemmeno iniziata, perché anche gli operai usavano droghe leggere. Ao, in quanto organizzazione seriamente leninista, aveva l’idea della purezza dei militanti; in realtà dopo qualche anno ci si rese conto di come andava il mondo. La discussione animò un paio di riunioni a Milano, i famosi ‘attivi’. Ao a Milano nella fase di massima espansione aveva forse 3.000 iscritti, tutti militanti, e agli attivi venivano 500-600 persone.

Gli attivi venivano convocati per sentire gli umori della gente. Negli attivi in cui discutemmo della questione dei giovani anche alcuni operai erano dalla nostra parte. Io ho sempre amato discutere di questi temi di politica quotidiana, non di dibattiti teorici. Anche quando a un certo punto sono diventato responsabile di una zona, in cui c’erano anche cellule operaie, discutevamo di politica sindacale, di cose concrete.


E il servizio d’ordine?

Intorno al 1975 il servizio d’ordine cominciò a diventare, come nelle altre organizzazioni, un corpo separato. Nelle cellule operaie il servizio d’ordine era trascurato, nessuno voleva occuparsene. Tra gli studenti fu diverso, tutti i ragazzotti un po' fanatici volevano farne parte. Io ero il riferimento politico dei medi. C’era un responsabile del servizio d’ordine dei medi che teoricamente doveva rispondere a me. C’era un servizio d’ordine dei medi ed uno degli universitari. Teoricamente i servizi d’ordine non avrebbero dovuto prendere iniziative autonome, ma lo fecero e in maniera autonoma, perché era inutile raccontare a noi politici queste attività. L’omicidio Ramelli nasce credo in questo contesto, anche se io non ne ho mai saputo nulla.


Come proseguì l’iniziativa politica nelle scuole?

Nel 1974-1975 la Federazione Giovanile Comunista e Comunione e Liberazione cominciano a organizzarsi nelle scuole. Io e Lanzone ideammo i Consigli degli Studenti, da contrapporre alla rappresentanza prevista dai decreti delegati. Nei consigli dovevamo starci tutti, ci stettero anche Fgci e Cl, perché il movimento degli studenti a Milano era così forte che se non ci fossero stati si sarebbero tagliati fuori.


E quali altre battaglie poitiche ricordi? Quali dirigenti?

Io ero responsabile della commissione scuola milanese ed ero entrato nella segreteria milanese; eravamo in nove: ricordo Michele Randazzo e Basilio Rizzo, e Giuseppe Alberti, un impiegato della Laben. Iniziava il percorso di avvicinamento con il Partito di Unità Proletaria: ricordo Guido Pollice e Giuseppe Liverani. Ricordo come figura decisiva a Milano Emilio Molinari, all’epoca consigliere comunale.

In quest’ultimo periodo una delle grandi questioni, come già ricordato, fu il femminismo, che a Milano non determinò una frattura come in altre città forse anche perché in fondo con le compagne c’eravamo comportati bene, mentre a Roma nelle riunioni c’erano accuse pesanti agli uomini. A Milano il gruppo dirigente (tutto maschile) riuscì a governare il dibattito, recependo il femminismo e contenendo gli aspetti dirompenti che aveva avuto da altre parti.

Milano era luogo di tradizione operaia moderata, a Torino invece c’era Maria Teresa Battaglino, futura responsabile delle donne di Ao, e il femminismo divenne una componente importante dell’ideologia di Ao torinese, che da gruppo operaista, divenne anche movimentista e femminista.


Cosa ricordi dello scontro politico all’interno di Ao nell’ultimo periodo?

Poi iniziò lo scontro tra destra e sinistra che portò alla frantumazione di Ao. Il dibattito per la fusione col Pdup portò, anziché all’unione tra le due organizzazioni, a una situazione frammentata: un pezzo di Ao andò col Manifesto, la sinistra di AO con gli ex psiuppini. Lucio Magri, Silvano Miniati e Vittorio Foa divergono pesantemente sulla prospettiva politica. Era una divisione nel Pdup-Manifesto. Ao non gioca un ruolo suo, si spacca come una mela: la minoranza dice che ha ragione Magri, la maggioranza dice che hanno ragione gli altri.

La divergenza fondamentale era il rapporto col Partito Comunista Italiano. Il Manifesto si basava sulla non rottura con la tradizione del Pci. Per noi fu diverso. Ad esempio per me e Lanzone, che era gramsciano, occorreva un passo verso il riformismo, se vogliamo, mentre gli altri erano rimasti rivoluzionari. Per far capire la differenza: qual è oggi la differenza tra Bersani e Renzi? Si tratta di diverse sensibilità nella relazione col riformismo.

La differenza era che gli psiuppini, che erano di cultura socialista, dicevano che bisogna costruire un’altra formazione politica alternativa al Pci, noi dicevamo che bisogna restare nella dialettica del popolo comunista. Questa era la divergenza, anche se nei congressi discutevamo di cose più concrete, come entrare o no nelle segreterie sindacali. La sinistra era per il no, anche se il Psiup contava tanti segretari di numerosi sindacati confederali. Magri e Rossana Rossanda, dicevano che volevano essere la coscienza critica della tradizione comunista, mentre la sinistra era per fare un altro partito, alternativo.

Dal punto di vista della cultura politica, secondo me tutta Ao avrebbe dovuto aderire alle posizioni della sinistra. Ma ci furono fortunatamente alcuni che non erano d’accordo. Chi, come Lanzone, per un ragionamento intellettuale. Altri, come Aurelio Campi, perché forse si erano anche stancati e volevano entrare nell’alveo politico normale, lavorare, guadagnare, fare una vita normale. Il Manifesto attirava perché era un gruppo di intellettuali; dopo lo scioglimento di Lotta Continua rappresentava l’unico argine teorico al terrorismo.

Noi, il gruppo cosiddetto di destra, ritenevamo che la fase rivoluzionaria fosse chiusa. O meglio, non la fase rivoluzionaria, ma un ciclo. Campi teorizzava un percorso di continuità, ma in realtà non fu così, la cultura di Ao era troppo diversa da quella del Manifesto.


Come si è concluso l’impegno con Ao?

Mi rendevo conto che lottavo contro il mio passato. Io non avevo cambiato le mie idee, ma ero convinto che il mio impegno politico dovesse prestare attenzione al sindacato. Infatti nel Pdup inizierò ad occuparmi di sindacato.
Io poi avevo toccato con mano Autonomia Operaia, a differenza degli altri, cioè della sinistra di Ao, ed avevo intuito il pericolo della diffusione della cultura filoterrorista. La parte giovanile di Ao era affascinata dall’Autonomia Operaia, gli altri non se ne rendevano conto, perché nelle fabbriche non c’era, c’era solo tra i giovani. Per me non tanto le Br ma il terrorismo diffuso non fu una sorpresa, lo temevo.


Quali gli aspetti positivo o negativi dell’esperienza di Ao?

L’aspetto positivo della mia militanza in Ao è che ho imparato a gestire le persone e le cose, poi ho rifinito la mia esperienza nel sindacato. Però devo dire che probabilmente se fossi stato figlio di un imprenditore, sarei andato in fabbrica e lì avrei imparato a gestire le persone comunque.

Ao non ha contato nulla nella politica italiana; ha invece avuto influenza nella formazione di quadri politici e sindacali a Milano, questo sì. Tra il destrismo ispirato a Lucio De Carlini e l’estremismo di riferimento tiboniano (Pergiorgio Tiboni della FIM), i quadri di Ao nel sindacato formarono una propria linea. Un altro ruolo storico di Ao a Milano è stato far vivere il movimento degli studenti. Altrove muore nel 1972, a Milano continua, grazie a noi. La lotta tra noi e il MS per la supremazia fa sì che il movimento continui. Non a caso il movimento del ‘77 a Milano non c’è, perché noi controllavamo la situazione e questi estremisti non avevano spazio. Ricordo che vinsi un’assemblea in Statale contro Autonomia Operaia; altrove era impensabile.

Ao era una organizzazione di persone normali. In LC un sacco di dirigenti sono diventati famosi; in Ao no, eravamo persone normali. Io sono sempre stato convinto che non c’erano palazzi d’inverno da assaltare ma occorreva modificare i rapporti di classe con un duro lavoro quotidiano. Con gli occhi di oggi penso di essere sempre stato riformista; ero per cambiare determinate cose, per esempio nelle scuole.

Io sono entrato in Ao per caso, perché il MS mi stava antipatico e consideravo un po' pericolosi quelli di LC. Noto una differenza tra chi come me è entrato in Ao successivamente alla fondazione, e i fondatori di Ao. Molti di loro sono rimasti sempre uguali, cristallizzati; in qualche modo pensano alla rivoluzione, ai movimenti, sempre alla ricerca di questo percorso a sinistra, che non è proprio rivoluzionario, ma in un certo senso sì. Secondo me si tratta di un certo pensiero antistituzionale.

Anche io non ho una forte cultura istituzionale, ma loro ancor di più, secondo me è questa cultura comune che ha unito e ancora unisce i fondatori di Ao. Forse solo noi della commissione scuola eravamo diversi; riconosco questo merito a Lanzone, che ci ha spinto sempre al ragionamento autonomo e alla lettura di Gramsci. Io non rimpiango nulla di quello che ho fatto, però ora non mi sento un rivoluzionario.


Che cosa ha significato per te l’esperienza di Ao e cosa ha cambiato nella tua vita?

Certo per chi non l’ha vissuta, è difficile da spiegare. Io avevo una giornata piena, un sacco di amici, ragazze, esperienze continue che vivevi, se non ci fosse stato tutto ciò, magari sarei stato uno sfigato. Mia madre era morta quando avevo 18 anni, magari avrei potuto rimanere traumatizzato; invece quel vento mi ha impedito di farlo, ed il buon senso che mia mamma aveva fatto in tempo a instillarmi mi ha impedito di fare grosse corbellerie.

Non ci si pensava neanche alla rivoluzione, avvenivano così tante cose da fare e da vivere; poi, quando sei capo, alcuni obblighi ti toccano per avere un ruolo. Per esempio, quando uccisero Miccichè a Torino, non potevamo certo dire che era stato in seguito ad una rissa tra ubriachi, ma agli studenti dicevamo che si era trattato di un attacco fascista. Il cinismo della politica è questo, tu stai facendo la rivoluzione e devi dire certe cose perché ti è utile, come avevamo appreso dagli scritti di Lenin.

Il passaggio al Pdup rappresentò anche una cesura col cinismo. A me sarebbe convenuto rimanere nella sinistra Ao, visto il ruolo e la stima che i giovani avevano in me; invece sentivo che si era esaurito in quel momento un ciclo politico, era una cosa che avevo maturato nel tempo. E ruppi con tante amicizie. Fu anche traumatico.
Volevo anche una vita più normale, dai 18 ai 26 anni avevo fatto solo politica; fare il funzionario nel Pdup era già una vita più normale.

Quando Magri riprese, con l’occupazione della Fiat, a fare l’estremista, me ne andai anche da lì, andai nella Cgil, pur rinnovando l’iscrizione al Pdup. Ricordo che la rottura avvenne quando organizzai come Pdup a Milano un convegno sul tema dei quadri, dopo la marcia dei 40.000 alla Fiat. Nell’introduzione dissi che bisognava dare un taglio all’egemonia operaia, ragionare sull’impresa in maniera differente. Magri nelle conclusioni mi diede più o meno del venduto.

Anche quando lasciai la Cgil ci fu un episodio simile. Firmai un accordo sulla produttività nel pubblico impiego al Comune di Milano, dove si riconosceva un pezzettino di salario in base alla produttività del lavoro misurata sulla presenza. Beh, venne niente di meno che Trentin a sconfessarlo. Devo dire che il mio cambio di vita fu segnato con uno scontro su temi concreti con due grandi pensatori della sinistra italiana che ho sempre stimato (Lucio Magri e Bruno Trentin): forse era giunto il momento di non pensare più alla rivoluzione.