1968 la prima occupazione del Molinari – di Alvaro Ricotti

Apro le danze alle quali siete tutti invitati a partecipare. La danza della memoria. La memoria non è storia, ma concorre a ricostruirla. È fallace, è parziale, è personale, è emozionante. Nel passato ormai lontano consideravo le rimpatriate, in modo piuttosto scettico, un raduno di reduci, qualcosa che associavo inspiegabilmente a comportamenti vagamente di destra, quindi le respingevo ideologicamente ed ero nella convinzione che quelli che si identificavano nel popolo della sinistra la pensassero come me.

Poi, quando ho compiuto 50 anni, ho organizzato una serata tra vecchi amici e compagni; mi sono emozionato tantissimo, mi sono commosso al ritrovarsi così diversi e così uguali dopo tanti anni e mi sono detto quanto fossi stato stupido ad aver dileggiato quei sentimenti e rinunciato a quelle emozioni. Oggi sono passati altri vent’anni ed anche se ho desiderato, cercato, tentato di organizzare incontri di quel genere non ci sono riuscito e me ne dolgo, mi mancano.

Così ho pensato che forse potrebbe essere più facile realizzare quegli incontri in modo virtuale cominciando a raccontare quel che ancora sopravvive nei miei ricordi di quei momenti, di quegli sprazzi di vita che ci videro o ci parvero farci sentire protagonisti della storia. Ognuno coi suoi ricordi brevi o lunghi che siano può aiutare la ricostruzione di quei momenti importanti, se non altro perché capitarono negli anni più belli della nostra vita, il passaggio dall’adolescenza alla maturità.

Era una notte buia e tempestosa ….

No scherzavo, era novembre e non faceva neanche tanto freddo. Parecchie scuole milanesi erano in subbuglio trascinate dall’azione degli studenti universitari sia della Cattolica sia della Statale. A maggio era esploso il sessantotto a Parigi, qui da noi si viveva un po’ di riflesso, ma di sicuro, anche da noi,  molte cose, sia nella scuola che fuori non ci andavano bene.

Sentivamo un vento nuovo, i vecchi cliché erano diventati insopportabili e i rapporti con alcuni professori erano diventati non più tollerabili. Un esempio banalissimo: al primo banco a sinistra, proprio davanti a Licio Bianchi ci stava un compagno di nome Beccaria. Era un tipo cicciottello e un po’ pasticcione, ma il professore di disegno tecnico lo aveva preso di mira “Beccaria, fammi vedere il disegno” e invece di correggerlo e di impostargli la manualità “ah, ah Beccaria, beccati un altro due!” Veramente insopportabile.

Questo era il clima e si decise che necessitava un’assemblea generale di tutti gli studenti della scuola. Ma come organizzarla? Il preside prof. Ricca (mi sembra si chiamasse così) mai l’avrebbe concessa o forse sì, ma all’ultima ora così che molti studenti approfittando della sospensione delle lezioni anticipate se ne sarebbero andati a zonzo nei bar vicini a giocare a biliardo. Noi volevamo una partecipazione più ampia possibile, l’unica alternativa era un’azione di forza, un colpo di mano.

Decidemmo di occupare la scuola per poter garantire lo svolgersi di un’assemblea di tutti gli studenti senza il ricatto dei professori  (se ci andate perdete le lezioni, io vado avanti con il programma ecc.) o con un’autorizzazione in orari pomeridiani che ne inficiavano la partecipazione.

Ci trovammo verso le 21 in un bar di via Palmanova, nelle vicinanze della scuola. Nel pomeriggio era impossibile perché allora si faceva lezione anche nel pomeriggio… 36 ore settimanali. Avevamo lasciato socchiusa una finestra di un seminterrato  di un laboratorio nell’ala destra, la più lontana dagli alloggi del custode che risiedeva nell’ala sinistra della struttura.

Tramite mio zio, Giancarlo De Bellis, che gestiva la struttura del reparto fotografico dell’Unità, contattammo dei giornalisti della testata e se non ricordo male ci facemmo stampare anche dei volantini da distribuire il giorno dopo agli studenti per spiegare loro il motivo di quell’azione e per invitarli a partecipare all’assemblea  che proprio la nostra azione avrebbe garantito lo svolgersi.

Non mi ricordo esattamente i nomi di chi partecipò all’azione, non più di sei o sette , oltre a me c’era Pier Scolari, Guido Morano forse Leo e e Rudy, Loris di sicuro e forse qualcun altro che non ricordo. All’ora di chiusura del bar, circa mezzanotte, ci movemmo, attraversammo via Palmanova e attraverso il lato  del Parco Lambro che costeggiava il Molinari dopo aver scavalcato la recinzione della scuola, raggiungemmo l’obiettivo: la finestra socchiusa del laboratorio.

Gli altri compagni, una decina, quelli che per età o per rapporti famigliari non potevano all’improvviso non tornare a casa di notte, si sarebbero presentati a scuola il mattino successivo molto presto, si stabilì verso le sei, per organizzare con cartelli e altro l’accoglienza degli studenti. Noi del commando ci calammo nel laboratorio attraverso la finestra e risalimmo le scale portandoci nell’atrio destro, quello dell’ingresso degli studenti.

beccati dal bidello Mao

Nonostante le precauzioni e l’attenzione prestata, data l’eccitazione del momento, facemmo troppo rumore e ciò insospettì il bidello-custode che chiamavamo Mao per via del suo faccione rotondo; sta di fatto che io e Pier Scolari ce lo trovammo improvvisamente di fronte nel primo corridoio del piano terra, quello che unisce l’atrio principale di sinistra a quello di destra.

Con gli occhi sgranati e assonnati ci fissò sorpreso Che ci fate qui ragazzi a quest’ora? Pier con sorprendente lucidità rispose coprendosi il volto con il collo del maglione per non farsi riconoscere “Non si preoccupi stiamo occupando la scuola, ma domattina tutto sarà finito”. Il buon Mao ci guardò stranito, lanciò lo sguardo oltre di noi vedendo solamente qualcuno che ci stava raggiungendo e ci guardò come per dire “ma voi quattro gatti che state facendo?”

Intervenni con voce autorevole “Gli altri cinquanta sono nell’altra ala.” “Va bene ragazzi non fate danni” ci rispose con sguardo tollerante di colui che non la beveva, si girò e se ne tornò nel suo alloggio. Il primo passo della nostra rivoluzione era compiuto, bisognava solo aspettare il domani e vedere che piega avrebbe preso l’assemblea degli studenti.

I primi compagni arrivarono molto presto e con loro organizzammo, anche logisticamente, come realizzare l’assemblea. L’obiettivo era quello di convogliare quanti più studenti in Aula Magna senza farli passare prima dalle loro classi per evitare che i prof potessero esercitare una qualsiasi forma di pressione. E fu così.

assemblea

L’Aula Magna era stracolma  già prima delle otto e il gran vociare cessò quando salimmo e ci sedemmo al tavolo della presidenza. Non mi ricordo chi parlò, forse Guido Morano o Loris, che era la mente più lucida fra tutti.

Ci facemmo interpreti delle esigenze e delle necessità degli studenti; i problemi sul tappeto erano tanti, l’esigenza del loro approfondimento non più rinviabile; il tempo e lo spazio era quello che era e per questo ce lo conquistammo proponendo l’occupazione della scuola per avere lo spazio e il tempo necessario per poter affrontare, nelle discussioni nei gruppi di studio, tutte quelle realtà che fino a quel momento erano rimaste fuori dal mondo della scuola.

Proponevamo una scuola nuova visto che quella vecchia non dava più risposte in un mondo che stava cambiando sotto i nostri occhi. Non filò tutto liscio, ci fu chi si contrappose a quel salto che pareva nell’illegalità o comunque fuori dagli schemi costituiti, intervennero anche alcuni docenti qualcuno a favore e altri contro, ci fu anche una mozione di contro-occupazione presentata da un gruppo di studenti auto proclamatosi Confederazione Studentesca. Noi prendemmo possesso di tutto l’istituto, loro occuparono la palestra.

L’eccitazione era profonda, la sfida ai licei era lanciata e proprio nel superamento di quel complesso di inferiorità che fino ad allora provavamo nei loro confronti, qualcuno di noi che aveva frequentato la scuola media non riformata, si lanciò, parafrasando Cesare che varca il Rubicone, nella citazione latina Alea iacta est in una sorta di riscatto della scuola proletaria nei confronti della scuola dei borghesi.

occupazione

Furono organizzati numerosi gruppi di studio sui temi più disparati dalla guerra in Vietnam ai costumi sessuali tra i giovani, dal coordinamento tra le varie scuole milanesi all’agibilità politica nella scuola, dal nuovo cinema e teatro come forme espressive di una cultura alternativa alle proposte di una nuova didattica con un nuovo rapporto tra studenti e professori, dall’individuazione di forme di lotta contro l’autoritarismo a rivendicazioni più materiali come la mensa o spazi di autogestione per studenti.

Tutto questo era la forma esteriore dell’occupazione, la sua giustificazione politica, il suo scopo dichiarato sui Tat-ze-bao che cominciarono da subito ad essere appesi sui muri e sulle ringhiere dove si aggiornavano gli studenti dei risultati raggiunti nei vari gruppi di studio, dove si annunciavano proclami e appuntamenti assembleari.

Tutto il corpo docente si volatilizzò esclusi tre o quattro di loro che parteciparono a pieno titolo a tutte le iniziative dell’occupazione. Ma la cosa più importante, più profonda fu quel senso di libertà che cresceva dentro di noi, quell’adrenalina che ci prendeva nel aver superato la soglia del consentito, del lecito e averci fatto compiere i primi passi verso la nostra rivoluzione.

mamma e papà

Fin dal primo giorno si aprì un conflitto, il conflitto generazionale che sconquassò tutte le famiglie, gli studenti da una parte e i genitori dall’altra. Alla sera del primo giorno molti studenti si resero disponibili a difendere l’occupazione proponendosi di dormire in scuola, vennero attrezzati di tutto punto, zaini con maglioni, pigiamoni pesanti e sacchi a pelo, ma non avevano fatto i conti con la reazione delle proprie mamme e dei papà.

Molte mamme si presentarono all’ingresso della scuola alla ricerca disperata dei propri figli, qualcuno venne letteralmente preso per le orecchie e portato via, qualcuno oppose vana resistenza, qualcuno pianse per la vergogna, qualcun altro l’ebbe vinta e restò conquistandosi il primo gradino d’indipendenza. Tra questi il mio fraterno amico Alberto Garlandini, il più giovane tra noi del gruppo organizzativo, aveva al tempo appena sedici anni.

Seppe opporre una fiera e argomentata resistenza alla madre che era una tipa tosta. Lei seppe riconoscere nel figlio una maturità e serietà da meritare il rispetto per le sue scelte. Il problema del rapporto con la famiglia per quelli che gestivano la propria indipendenza tranquillamente era stato sottovalutato, ma su sollecitazione e consiglio dei pochi docenti che apertamente ci sostenevano, fu posto all’ordine del giorno che avremmo a breve organizzato una serata di incontri con i genitori per spiegare loro le motivazioni della nostra lotta.

Quelli, come me, che passavano la notte a scuola vennero di fatto riconosciuti come i leader del movimento, gli studenti ci chiedevano cosa far e come farlo, invidiavano e aspiravano alla nostra libertà. Delegazioni di studenti di altre scuole presero contatti con noi, questi rapporti erano gestiti tendenzialmente dai più vecchi, come Morano o Loris, io ed altri invece avevamo il compito inverso, quello di recarci noi presso altre scuole e promuovere là iniziative sul nostro esempio.

i gruppi di studio, il cinema, il teatro e il sesso

Le ore più interessanti , quelle che ci coinvolgevano di più erano quelle dedicate ai gruppi di studio su quegli argomenti che ho citato prima. Io tenni un gruppo dedicato al rapporto cinema e società, la filmografia impegnata, e si spaziava dal neo realismo alla Rossellini  al rapporto ambiguo tra l’intimismo frustato e il sociale di Ingmar Bergman, fino ad arrivare ai classici della cinematografia sovietica con Eisestein con il suo “La corazzata Potemkin” o “Ottobre”.

Devo dire la verità era un compito molto più ampio delle mie capacità, improvvisavo parecchio, e di questo mi scuso a posteriori, ma perlomeno promossi il concetto che il cinema non era solo divertimento e svago ma un potente mezzo di lotta politica, uno strumento per veicolare idee, per disvelare verità nascoste.

Licio Bianchi, quello che tra noi probabilmente aveva il tasso di testosterone più alto, guidava un gruppo di studio sui comportamenti sessuali tra i giovani, forse era stato colpito dall’inchiesta promossa qualche anno prima dagli studenti del liceo Parini e pubblicato sul loro giornale la zanzara; sta di fatto che mitico fu il suo intervento in assemblea generale, ad illustrazione del lavoro svolto dal suo gruppo, sulla promozione dell’uso del profilattico tra i giovani per una sessualità sicura e consapevole.

Ebbe grande successo e il suo tasso di gradimento sulle fanciulle crebbe a dismisura, ma per una sua innata timidezza, che lui chiamava onestà, non seppe approfittarne e tutto rimase sul piano del platonico. Indubbiamente quella ventata di libertà che vivevamo nello spazio dell’occupazione favorì amori e filarini, ma tutto si mantenne entro i canoni dettati dai costumi dell’epoca. Effusioni in pubblico non me ne ricordo, al massimo passeggiate mano nella mano nei corridoi.

Un altro stupefacente intervento in assemblea fu quello di Antonello Catacchio, che da attore qual era, declamò dei pezzi dalla piece teatrale “La Prigione” di Brown che invitava i docenti a gettare la maschera sul loro ruolo repressivo, funzionale al sistema scolastico, e gli studenti a ribellarsi e rompere gli schemi della scuola borghese visti e vissuti, per analogia, come una prigione.

i prof che stavano con noi e le famiglie

Tre erano gli insegnanti che appoggiavano apertamente l’occupazione e partecipavano attivamente ai lavori organizzati, tre giovani insegnanti di lettere, la Vaccaro, Pozzolini e la Pucci come amichevolmente veniva chiamata da noi studenti.

Come ho detto al terzo o quarto giorno di occupazione venne organizzata in alula docenti un’assemblea aperta ai genitori. L’aula, quella sera si riempì in fretta. I padri e le madri erano preoccupati per l’andamento scolastico, per le ripercussioni che l’occupazione poteva avere sul profitto. Noi studenti fuori dalla retorica usata tra di noi facevamo fatica a contrastare la pressione delle richieste di un ritorno alla normalità avanzate dalla più parte dell’assemblea che prese ad un certo punto una deriva di scontro generazionale.

Voi non capite,… siete giovani… la vita è più complessa,… che c’entra la rivoluzione, … che c’entra il “Che”, … non avete voglia di studiare e impedite a chi ne ha voglia di farlo, … contestate l’autorità, ma è l’autorità che garantisce la libertà, … ma quale libertà, tornate a studiare, ecc”.

Chiese di parlare la Pucci, silenzio in aula, “quella è una professoressa” bisbigliarono tra loro le mamme e i padri.

Voi dite che questi ragazzi sono troppo giovani per capire, che le loro richieste non hanno senso. Pensate voi questa sera siete qui per libera scelta, avete potuto mandare i vostri figli in una scuola superiore e molti di voi, certo con sacrificio, pensano di mandarli dopo all’università. Voi, molti di voi, che non avete potuto studiare proiettate quelli che erano i vostri sogni nei vostri figli. Ma perché potete farlo? Perché ragazzi come loro, diciottenni, diciassettenni  e anche più giovani hanno dato la vita, hanno combattuto nella Resistenza per un mondo migliore, più giusto. Allora hanno scelto, hanno scelto per tutti voi, anzi per tutti noi, rispettate le scelte di questi ragazzi, lo fanno come quei giovani sulle montagne lo fecero, lottano per un mondo migliore”.

All’istante mi innamorai perdutamente di lei, mentre le madri e i padri se ne andavano via mugugnando e poco convinti. L’occupazione continuò.

un mini-attentato

Il giorno dopo, o il giorno dopo ancora, verso le dieci di sera stavamo bighellonando nel corridoio centrale, alcuni seduti a terra, accompagnati dalle note della chitarra di Olanda, un semi anarchico chiamato così perché aveva il mito di Amsterdam. E' da lui che imparai le canzoni di Ivan Della Mea e di tutto il repertorio delle canzoni di protesta.

All'improvviso sentimmo un botto e uno schianto provenire dall’atrio principale dove comunque avevamo provveduto a chiudere con catene e lucchetti le grandi porte vetrate d’ingresso.  I fascisti gridammo, un attacco temuto , ma mai preso in seria considerazione.

Una o due macchine si erano fermate in via Crescenzago proprio davanti all’ingrasso principale del Molinari, erano scesi alcuni individui e avevano lanciato un petardo e un mattone contro la porta a vetri della scuola. Ci precipitammo nel tentativo di un inseguimento, ma la porta, come dicevo, era chiusa con catene e al momento nessuno trovava la chiave del lucchetto.

Presi un manico di scopa, che Mao, il custode, aveva lasciata con il secchio contro un muro e con quello mi feci furiosamente largo spaccando i vetri pericolanti che ancora erano attaccati alla portafinestra e mi lanciai all’inseguimento coi compagni che mi erano vicini.

Troppo tardi, i vigliacchi erano fuggiti, si sentiva solo l’eco delle marmitte scoppiettanti che si smorzavano in direzione del Parco Lambro. Dalla mano destra usciva abbondantemente del sangue; nel tentativo di farmi largo tra i vetri spezzati mi ero ferito, un profondo taglio a V si era aperto all’altezza della nocca del dito indice. Era  una ferita che politicamente fu ascritta dai compagni al fallito attacco fascista, una ferita che fu enfatizzata da una vistosa fasciatura bianca che portai per alcuni giorni, una ferita che mi procurai per una reazione esagitata al lancio di un petardo; una cicatrice a forma di V che ancor oggi si evidenzia sbiancandosi quando chiudo il pugno.

Dopo cinquantadue anni i fotogrammi di quei fatti sono per lo più sfuocati, molti completamente illeggibili, qualcuno sforzandosi è decifrabile e non sono necessariamente i fotogrammi politicamente più importanti, ma quelli che lasciarono il segno nelle pieghe dei sentimenti e nelle emozioni.

il vicepreside

La scuola, in stato di occupazione non era preclusa agli insegnanti, anche se quasi tutti ne approfittarono per farsi i fatti loro e starsene a casa; era stata la mediazione con il preside onde evitare lo sgombero forzato ad opera della polizia. Il prof. Aristarco, con funzioni anche di vice preside, gironzolando per le aule dove si tenevano gruppi di lavoro capitò in quello in cui io e Alberto Garlandini coordinavamo la discussione su Marcuse e il suo Uomo a una dimensione.

Il libro lo avevamo letto insieme a voce alta proprio durante le vacanze estive, quindi pochi mesi prima, che trascorremmo in campeggio a Laigueglia. Il prof. Aristarco interruppe la nostra discussione e cominciò una filippica sull’educazione e la tutela del bene comune accusandoci di devastare il patrimonio scolastico per via delle scritte sui muri.

Devo dire, con il senno di poi, che non aveva tutti i torti, ma sbagliò il momento e il modo; le pareti delle aule erano piene di scritte, di slogan, tratte dalle prime letture politiche che facevamo, citazioni di Mao, di Marx, di Lenin, del Che e così via, passi di poesie di Allen Ginsberg confinavano co quelle di Prevert. Insomma era il nostro modo di marcare il territorio sia fisico che culturale.

Quelle scritte erano la conseguenza di spazi di discussione troppo a lungo negati e che avevano trovato nell’occupazione la loro possibilità di espressione, ma tutto ciò era allora per noi troppo difficile da esprimere e restammo ammutoliti dai rimproveri al limite degli insulti che l’Aristarco ci rovesciava addosso. Garlandini fu il solo che si alzò e si contrappose con forza argomentativa eccezionale a quei rimproveri.

Il muro, le pareti in generale delle aule avevano una funzione strutturale, quella di tenere in piedi l’edificio, le scritte, i disegni e quant’altro scarabocchiato su di esse non minavano minimamente tale funzione quindi la posizione del prof. Aristarco era da respingere duramente perché rappresentava maldestramente la volontà di reprimere la creatività, la necessità di espressione che le masse studentesche esprimevano.

Così si espresse il “Garlanda”, ricevendo applausi scroscianti. Ero orgoglioso del mio amico Alberto, il più giovane tra noi e quella notte nei nostri sacchi a pelo vicini ci facemmo delle grasse risate scimmiottando l’avvenimento.

dopo una settimana

Non mi ricordo se fu al sesto o al settimo giorno di occupazione, ma quel giorno comparvero le camionette della polizia fuori dalla scuola. Lo sgombero era nell’aria.

Quella sera cominciammo a portare via le nostre cose più importanti, io facevo la spola tra l’uscita secondaria e il mio vecchio maggiolino, lo avevo acquistato da un demolitore per centomila lire, per salvare la documentazione prodotta in quei giorni lotta.

Ero fuori quando la polizia irruppe tranciando le catene all’ingresso principale. Spostai la macchina di un centinaio di metri, al limite del parco, poi tornai indietro di corsa scavalcai una finestra all’ingresso secondario e un celerino sbucato dall’interno mi afferrò per il colletto della giacca a vento trascinandomi all’interno “Ma tu che fai?” mi chiese “Sto con i miei compagni” risposi.

Saremo stati una cinquantina, tutti seduti a terra nel corridoio centrale con i poliziotti in piedi che ci sovrastavano mentre ci identificavano uno a uno. Olanda e Melodia attaccarono a suonare la chitarra e il canto sommesso del brano dei Gufi aleggiò per l’aria… “Non spingete, scappiamo anche noi. Alla pelle teniam come voi. Meglio esser vivi e figli di troia. Che far gli eroi per casa Savoia…

La prima occupazione del Molinari si concluse così. Altre ne sarebbero seguite.