l’estate del ’66 – di Rino Riva
Non ci mettemmo molto a decidere sul da farsi. Era un’impresa impegnativa ma due sagome come noi, non del tutto a piombo con il suolo calcato, non se ne curavano affatto. Gianni non stava nella pelle e ripeteva all’infinito: «Remo, ci pensi? Né, ci pensi?». Hai voglia a rispondergli: «Sì che ci penso, sarà una vacanza memorabile». Dopo un attimo ricominciava la litania: «Remo, ma ci pensi? Come sarà, dì, come sarà? Quando torniamo ne avremo di cose da raccontare, non è vero? Li faremo schiattare tutti dall’invidia».
Di questo ne dubitavo. Non vedevo l’ora di partire per una buona dose di motivi: per metterci alle spalle molte questioni irrisolte, per sancire la tratta del dado, per fare in modo che cessasse la quotidiana solfa. Era l’estate del 1966, l’estate prima del servizio militare.
Antonello Venditti la racconta su in questo modo: “Era l’anno dei mondiali / quelli del ’66 / la Regina d’Inghilterra era Pelè…” Il mio primo e ultimo viaggio da giovanotto. La mia prima e ultima vacanza da scapolo.
Sarebbero venute altri estati e non sarebbero state così lievi. Certo, non avrei potuto immaginarmelo in anticipo. Avevamo deciso di fare il giro d’Italia in… Lambretta: una peregrinazione “on the road” senza che avessi letto il libro di Kerouac. Figurarsi Gianni la cui consuetudine con la carta stampata era saldamente ancorata ai fumetti e alle riviste porno.
Il mio amico era stato un bel portierino ma aveva appeso le scarpe al chiodo perché era già fuori quota per l’età. Ricordo una formidabile partita che giocammo in un campo parrocchiale sotto il ponte dell’Ortica. Era una delle sfide ricorrenti fra la U.S.Arpesani e la U.S.Pasini. Gianni ed io ci affrontammo su fronti diversi: lui portiere della U.S.Pasini, io mediano fluidificante della U.S.Arpesani. Ho netta la memoria di uno slalom che inscenai a un certo punto della gara. Fra finte e dribbling, feci fuori tre avversari come birilli e mi affacciai in un’area di rigore libera come un deserto davanti a me.
Ho tirato mirando al sette ma Gianni mi tolse la soddisfazione di un magnifico goal con una incredibile parata alla “Giorgio Ghezzi”, indimenticato portiere del Milan di cui non a caso indossava i colori. Si allungò distendendosi verso destra e levò la palla – con la punta delle dita – dall’angolo alto di porta a cui era destinata.
Un viaggio organizzato con poche lire e con un telone da camion. Eravamo matti? Non c’era alcun dubbio, almeno per quei tempi. Sebbene, prima di noi, erano state commesse ben altre imprese pazzesche: il Passaggio a Nord-Ovest, la scoperta delle sorgenti del Nilo, la scalata del K2, il primo uomo nello spazio e così via.
Ho sempre avuto in testa altri itinerari a piedi, in bicicletta, in vespa o con qualsiasi altro motociclo. Come quello di realizzare, camping per camping, l’intero periplo del Lario. Oppure, effettuare la traversata, dall’alto dei monti, partendo da Como per finire a Colico. O ancora, fare il giro della Liguria – da Ponente a Levante, da Ventimiglia a La Spezia – con bici o motocicletta a livello del mare, con il trekking su e giù dai cucuzzoli.
Imprese che richiederanno un certo tempo a disposizione. Prima di andarmene per altri lidi, so che soddisferò le mie fantasticherie. Avevamo ognuno dei due un motivo specifico per andare via per un mese e oltre. Io per castigare la mia ragazza che aveva esagerato a bearsi della sua libertà. Gianni perché desiderava avvalorarsi al cospetto della sua improbabile fiamma, flirt di una sola estate, a cui si ostinava a restare incollato come un francobollo appiccicoso pur non vedendola da un sacco di tempo.
Tormentava gli amici più intimi affinché gli dessero una mano a scriverle lettere su lettere cui lei non si era mai degnata di rispondere. Si era messo in testa di spedirle una cartolina da ogni luogo significativo da cui saremmo transitati. Un’idea che in corso d’opera farò mia.
Ho detto: poche lire. Erano davvero poche decine di migliaia di lire, infime nonostante il potere di acquisto non roso dall’inflazione di là da venire. Gianni che lavorava come fattorino in un grosso negozio di drogheria ci metteva la parte preponderante, io i pochi spiccioli che papà decise di scucirmi. Con noi, i cambi essenziali di biancheria e vestimento e la mia fida chitarra.
Partimmo una sera, non appena Gianni smontò dal servizio. La prima tappa sarebbe stata Genova, dal passo dei Giovi. Vi giungemmo che era buio pesto con il didietro malridotto per le ore di viaggio a cui lo costringemmo. Demmo fondo alle provviste, bevemmo qualcosa in un bar e… spedimmo la nostra prima avvelenata cartolina. Ora, avremmo dovuto trovare un posto per dormire. Fatico un po’ a fare mente locale: sono passati tanti anni da quell’estate.
So che ci siamo addormentati in un sacco di posti inusitati ma mai in un letto, salvo le volte che siamo stati ospiti a casa dei miei zii di Grosseto e di Taranto. Abbiamo ristorato le nostre stanche membra in un chiosco abbandonato (Latina), in un palazzo in costruzione (Capua), nel sottoscala pieno di residui di piastrelle e di mattoni (vicino a Bari), in un prato all’aperto (Eboli) dove non si fermò solo Cristo ma anche Gianni e… Remo. Stavo per dire Pinotto.
La prima volta, appena fuori Genova, ci fermammo in un bosco. Stendemmo, per la prima e unica volta, il telo – dalla lambretta al terreno – a mo’ di tenda sotto cui ripararci. In seguito, lo usammo solo come giaciglio e come coperta. Non piovve mai salvo la volta in cui ci rifugiammo, bagnati fradici, sotto quel sottoscala: un temporale di fine agosto, intenso ma passeggero.
Sostammo a Castiglioncello dove facemmo il bagno. Da lì fino a Grosseto fu tutta una tirata. Il nostro viaggio si ingrippò a questo punto. Eravamo riveriti ospiti di mio zio Peppino e della sua famiglia: dormivamo sopra un materasso steso sull’impiantito della cucina e divoravamo le prelibatezze cucinate da Nonna Vera.
Gli zii avevano già quattro figli: due femmine, le cugine Laura e Caterina, di 11 e 10 anni e due maschi: il cuginetto Claudio di 4 anni – maschiaccio viziato dalle terrificanti orecchie a sventola – e l’infante Cesare, nato da pochi mesi, che la zia Anna ancora allattava. Laura era bellina ma stava sulle sue come la Principessa Taitù, Caterina portava gli occhiali correttivi, una lente delle due coperta da un cerotto, era invece affettuosa e socievole.
Andavamo di giorno al mare ispezionando le spiagge del litorale maremmano: da Follonica a Orbetello, transitando per Riva del Sole, Punta Ala, Castiglione della Pescaia, Marina di Grosseto, Marina di Alberese, Talamona. Visitammo luoghi esclusivi come Porto Ercole e Porto S. Stefano. Cercavamo di sdebitarci, offrendo noi almeno lo zuccotto serale che acquistavamo al vicino bar tabacchi.
Dopo cena, andavamo al cinema. Altre volte stavamo a casa e scendevamo nel giardinetto sottostante dove altri inquilini uscivano a godersi il fresco degli alberi portandosi la sedia da casa. A volte, suonavo la chitarra e cantavo qualche canzone sotto lo sguardo serio e affascinato di zio Peppino.
Lui era di quelle idee là: nel portafoglio custodiva con rispetto il santino del duce e non si curava di tirarlo fuori e mostrarlo a chicchessia. Non mi riusciva di volergli male: era mio zio, il fratello di mia madre. Aveva il suo carattere, epperò era un generoso. Tarantino di nascita e di crescita fin verso la maggiore età, nel dopoguerra entrò nella Polizia. Venne distaccato a Grosseto – città rossa – dove gli scontri di piazza erano frequenti e autentici.
Lì conobbe zia, se ne innamorò e la impalmò. Fu accolto senza ostilità dalla famiglia di lei che era rossa come la città. Abbandonò la Polizia e si mise a fare il mestiere che gli aveva insegnato mio padre: l’autista sulle autolinee. Spettacolare il suo uso “h-orretto della lingua tos-h-ana, madonna h-agnolina”.
Gianni uscì una notte in mare aperto sul motopeschereccio dei cognati di mio zio. Non so dire perché non ci andai anch’io, ero di luna storta. Ne provo rimpianto, tuttora, sia sul piano umano che per l’insolita esperienza: non era alla portata di tutti degustare il pesce alla griglia pescato al momento.
Visitammo Nomadelfia, la città comunitaria di Don Zeno. Arrivammo sino a Siena, dove bevemmo una birra seduti a un tavolino di Piazza del Campo. Lo zio ci volle con sé, sulla corriera da lui guidata fin sul Monte Amiata. Ci portò a mangiare in una trattoria dove Gianni gustò una succulenta bistecca fiorentina alta due dita.
Stavamo benissimo, Gianni era entusiasta. Ci stavamo però fermando da troppi giorni in un unico posto e il nostro progetto si era arenato in… “maremma maiala”. Fu dura convincere Gianni e, nel medesimo tempo, superare le resistenze di zio Peppino che non acconsentiva a farci partire. Domandava accorato: «Ma non state bene qui?». Difficile rispondergli che stavamo fin troppo bene ma che dovevamo realizzare la nostra idea iniziale.
Con gli accorgimenti idonei affinché nessuno potesse sentirsi offeso, levammo le tende e ripartimmo. Civitavecchia, Roma, dove pranzammo perfino in un ristorante in collina: la città era ai nostri piedi e là rimase. Latina, Terracina, Formia, Gaeta e Sperlonga, un luogo magico e incontaminato. Un elevato sperone di roccia bianca che si protendeva sul mare, sul cui alto pianoro aveva trovato posto un tipico paesino del sud con le sue case chiare e i suoi vicoli stretti.
Sperlonga doveva il suo nome alle spelonche: grotte entro cui uomini primitivi avevano eletto il proprio habitat. Su entrambi i lati della rupe, due spiagge dal diverso colore si estendevano deserte per centinaia di metri. A nord, una spiaggia dal colore marroncino; a sud, invece, una lunghissima spiaggia di colore chiaro al cui termine si stagliava la celebrata grotta di Tiberio. Qui, sì, sarebbe valso fermarsi. In uno di questi luoghi avevamo sostato per bere qualcosa. C’era un sole alto e chiaro, una luce che riverberava sui muri delle case bianche. Ai tavolini attigui, sedevano altri giovani e uno di questi aveva la chitarra da cui, suscitando in me un imperioso moto di invidia, estraeva con maestria i limpidi accordi di “Michelle” dei Beatles:
Michelle, ma belle
Sont trois mots
Qui vont très bien
Ensemble
Ci spingevamo nel mezzogiorno. A pranzo e a cena ci arrangiavamo: il pane era buono e il formaggio costava poco. Delibammo una strabiliante mozzarella alla bufala che entrambi non avevamo mai assaggiato prima. Riprendemmo a spedire cartoline.
Tuttavia, si assottigliavano con rapidità i nostri fondi. Eravamo a un bivio: tornare a Grosseto dicendo addio al progetto originario oppure rischiare e, pur ridimensionando di molto le idee iniziali, procedere comunque verso sud. Per giungere quantomeno a Taranto e lì chiedere un prestito allo zio Franco e ritornarcene a casa senza angustie.
Scommettemmo sulla seconda ipotesi. A Salerno, esponemmo le nostre difficoltà al gestore di un distributore di benzina e riuscimmo a convincerlo a erogarci il pieno di miscela a credito, lasciandogli in pegno la mia carta d’identità: saremmo tornati a saldare il dovuto e a riprenderci il documento.
Deviammo lasciandoci sulla destra uno dei nostri primari obiettivi: la Calabria, Tropea, Paola, Amantea. Nomi che evocavano ambienti paradisiaci e mari di favola.
Ci fermammo in ora tarda a Eboli, come il “Cristo” di Carlo Levi. Stendemmo in un pratone il nostro telo, sdraiammo i nostri corpi spossati e ci ricoprimmo con il telo restante. Faceva freschino, agosto volgeva al termine. Ci addormentammo di schianto senza nemmeno levarci gli occhiali da sole.
Lo ricordo poiché, il mattino seguente, mi svegliai sollecitato da qualche rumore e non vedevo nulla: gli occhiali erano appannati. Era ancora buio: il prato luccicava per lo strato di brina che l’escussione notturna aveva provocato. D’un tratto vedo avvicinarsi, al galoppo, un cane enorme. D’istinto mi è venuto di stendermi di nuovo, di coprirmi sotto il telo, di dire a Gianni di non muoversi e di non fiatare: le spiegazioni a dopo. Il cagnone arrivò, girò intorno al nostro misero talamo, annusò alla grande. Immobile, fra me e me, pregavo che al bestione non gli venisse lo schiribizzo di espletare lì – come spregio – i suoi bisogni. Gli dei accolsero le mie preghiere.
Il cane-cavallo, così come si era materializzato all’improvviso, seduta stante scomparve a caccia di ben altre emozioni. Attraversammo terre aride e interminabili cave di tufo: dalla materia prima si ricavava una sorta di grosso mattone con cui edificare le case. Oramai viaggiavamo con l’unico scopo di approdare a Taranto.
A Tricarico facemmo sosta e mangiammo del buon pane e formaggio con pochi spiccioli. Chiedemmo, ormai in Puglia, a un contadino se ci vendeva dell’uva: dalle vigne penzolavano dei grappoli divini di uva bianca dagli acini grossi come albicocche. Ci rispose di prenderne quanta ne volevamo e gratis: «Mangiate, mangiate figli miei che ne avete bisogno».
Ringraziammo con calore e non esagerammo nel servirci di quell’imprevisto ben di dio. Gettammo l’ancora nel Mar Piccolo di Taranto vecchia, davanti al ristorante “Pesce fritto” dove mio zio svolgeva le mansioni di capocuoco. Saranno state le 15.30. Avevamo fatto l’ultima manciata di chilometri con il cerchione della ruota anteriore reso storto da una buca la cui pericolosità Gianni aveva sottostimata.
Mio zio ci venne incontro, contento ma anche preoccupato. Gli spiegai in breve i nostri problemi e lui, in quattro e quatr’otto, fece venire a prendere la lambretta da uno dei lavoranti di una officina dei vicoli vicini perché fosse riparata come si deve e poi andò a cucinare qualcosa: pesce e patate fritte.
Rimanemmo a Taranto un paio di giorni. Dormimmo in uno dei quarti di Nonna Caterina e per i pasti fummo ospiti di zio Franco e zia Giuseppina. Telefonai ai miei a cui dovevo spiegare che avrei chiesto un prestito allo zio da restituirsi non appena fossimo tornati a Milano. La prima cosa che mi disse mio padre fu: «Non ti sembra sia arrivato il momento di smetterla di andare in giro come un vagabondo?».
Né più né meno. In effetti, un mese era bell’e e passato. Tornammo sui nostri passi, saldammo il benzinaio di Salerno e ritirammo il documento. Ci fermammo di nuovo a Sperlonga, perla di questo viaggio. Sostammo per qualche giorno a Grosseto. Non senza aver dovuto subire le rampogne dello zio Peppino.
Il dolce far niente e i buoni manicaretti avevano prodotto uno degli effetti rituali sul mio metabolismo ballerino. Avevo messo su un certo numero di chili tanto che non stavo più nei pantaloni. Lo zio me ne diede un paio dei suoi di un assurdo color ruggine e una sua camicia.
Tornammo a casa. Un mese e sei giorni dopo la partenza. Non facemmo il giro d’Italia come ci eravamo prefissi ma attraversammo 7 regioni: Lombardia, Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Lucania, Puglia. Ci bagnammo in mari diversi: Ligure, Tirreno, Ionio. Peccato non aver segnato il quantitativo di chilometri percorsi o forse lo facemmo e me ne sono dimenticato.
Lontana la eco dei mondiali di calcio e le polemiche per la sconfitta della nazionale italiana con la Corea. Pelè sarà stato pure la Regina d’Inghilterra ma i tedeschi e gli inglesi sembravano marziani. La Regina dei Mondiali non fu Pelé e il suo Brasile ma l’Inghilterra di Bobby Charlton. Il loro calcio totale e senza pause era inimitabile mentre noi eravamo una squadra di abatini.
Era l’estate del sessantasei che si avviava a lasciare il testimone al subentrante autunno carico di piogge che avrebbe provocato, per restare in Toscana, eccezionali straripamenti dell’Ombrone e dell’Arno e inondazioni catastrofiche di Grosseto, Pisa e Firenze: il peggior evento alluvionale dal 1557. Gianni tornò a Grosseto da solo per alcune estati. Ci perdemmo di vista. Io? Beh, per me iniziava la salita