toccata e fuga al Manifesto – di Lorenzo Baldi

Dopo la dimissione in massa dal Quotidiano dei Lavoratori mi trovai così, di punto in bianco, trasferito a Roma, in via Tomacelli, nella redazione de Il Manifesto, insieme ad una pattuglia di redattori del quotidiano.

Una nuova avventura nella capitale della politica (Milano, si diceva allora, era la capitale morale), in una scuola di giornalismo dove i compagni di banco si chiamavano (anche) Lucia Annunziata e Gianni Riotta, per citare quelli che hanno avuto la carriera più visibile. E Stefano Bonilli che, più o meno 10 anni dopo, fonderà il Gambero Rosso, prima supplemento del “Manifesto” e poi testata autonoma e all’origine del movimento slow food.

Ero a Roma da pochi giorni, quando Luciano Lama fu contestato all’Università La Sapienza, dando il via nell’inverno del 1977, al movimento che da quell’anno prese nome. La vicenda produsse grande impressione e discussioni accese, in una redazione che stava a cavallo tra il mondo della sinistra riformista e quello dei movimenti. Quell’episodio mi rafforzò nell’idea che l’esperienza della sinistra rivoluzionaria si fosse esaurita e che bisognasse approdare ad una prospettiva esplicitamente democratica e riformista. Era stata la politica a spingermi verso il giornalismo, non il contrario, e nella nuova sinistra – così la chiamavano a “Il Manifesto” – non mi sentivo più a casa.

A Roma, noi ex del Quotidiano non abbiamo fatto gruppo a parte, penso per integrarci più facilmente con i nuovi colleghi. Abbiamo cominciato subito a scrivere e a firmare gli articoli e non ricordo particolari problemi di adattamento. Sono stato ospite di Lidia Menapace e Rina Gagliardi: Mi offrirono una stanza nel loro appartamento, in attesa di una sistemazione definitiva e le ricordo con affetto. Di Rina Gagliardi, qualche mese prima che  se ne andasse troppo presto (2010) ho letto un articolo d10 anni prima: raccontava dei primi giorni di raccolta differenziata a Roma e della differenza tra il teorizzarla, come aveva sempre fatto, e praticarla ogni giorno. Mi ritrovai in ogni dettaglio.

Ho partecipato alle dolcezze della vita capitolina, niente cappotto d’inverno, un invito a cena su un terrazzino sopra piazza Navona e scampagnate ai Castelli, la domenica. Ogni tanto, mi concedevo un pranzo da Cesaretto o, Fiaschetteria Beltramme, la trattoria, frequentata da artisti e intellettuali, che aveva quasi adottato gli squattrinati giovani redattori del “Manifesto". Nel 1980 rischiò di chiudere e per salvarla si mobilitò l’intellettualità italiana, con in testa Mario Soldati.

Il taxi era obbligatorio la sera, perché i mezzi pubblici si fermavano quando i romani non avevano ancora cenato ma, alla mattina, andavo in redazione con l’autobus ed era meno affollato di quelli milanesi. Ai miei occhi di giargiana, come direbbe il Milanese imbruttito (abitante della città metropolitana che risiede fuori dalla circonvallazione), svizzero per parte di madre, recentemente cresciuto alla scuola di un fisico brianzolo, il metodo di lavoro appariva un po’ strano: la riunione di redazione era un dibattito sulla grande politica, più che sul giornale di oggi, poi si scendeva al bar per un caffè: lì Valentino Parlato organizzava il lavoro. Fino a metà pomeriggio, nessuno scriveva una riga, finché il caporedattore non dichiarava lo stato di emergenza. E qualche collega, assai promettente, scriveva e ragionava benissimo, ma si paralizzava davanti al compito di estrarre dall’Ansa una “breve”.

Anche “il Manifesto” era all’avanguardia della tecnologia, più del Qdl. Si impiegavano tecnologie di riconoscimento ottico dei caratteri, per trasferire i dattiloscritti nella fotocomposizione (non sempre funzionava a puntino, ma era vero high tech, a quel tempo), le lastre venivano create quasi contemporaneamente a Roma e a Milano, con un processo di teletrasmissione delle patinate (un fax ante-litteram, di grandi dimensioni).

In questo modo il giornale poteva “chiudere” più tardi e i percorsi stradali dei fattorini addetti alla distribuzione erano più corti. I giornali dell’estrema sinistra furono all’avanguardia delle tecnologie, forse perché era più facile investire una grossa donazione che sostenerne le spese giorno per giorno; e anche perché non avevano problemi sindacali in redazione e pochi in tipografia.

A “Il Manifesto”, per la prima volta, toccai con mano cosa fosse la politica parlamentare, con l’infaticabile Luciana Castellina che, quando non viaggiava, andava avanti e indietro dalla Camera dei deputati alla redazione per tenerci al corrente. Si dedicava anche a smussare gli spigoli tra le forti personalità del gruppo dei fondatori, soprattutto tra Lucio Magri e Rossana Rossanda. Quest’ultima impersonava bene la differenza tra intellettuali che avevano traversato un bel pezzo di storia del movimento comunista e il nostro tentativo impossibile di ricostruire da zero attraverso un ritorno alle origini. Lucio Magri, invece, in quel momento, era abbastanza lontano dal quotidiano, impegnato sul fronte del Pdup.

Ricavai anche l’impressione che, umanamente, i fondatori del “Manifesto” avessero lasciato organizzativamente il Pci ma, anche per ragioni generazionali, umanamente appartenessero ancora al mondo dei militanti comunisti più che alla “nuova sinistra”.

A differenza del Quotidiano dei Lavoratori, “Il Manifesto” faceva parte dell’establishment giornalistico romano e aveva dei doveri di cortesia istituzionale, anche su argomenti del tutto irrilevanti dal punto di vista politico-culturale: non si poteva mancare, per esempio, alla presentazione di una nuova moneta coniata dalla Zecca di Stato per il mercato collezionistico.

Mi colpirono molto, nel mio spirito un po’ puritano, anche i salotti romani che rappresentavano bene il concetto di ceto politico, da “Il Manifesto” fino all’estremo opposto dell’ “arco costituzionale”; e uno stile mondano simile a ciò che Tom Wolfe, già da qualche anno, chiamava radical-chic. Una percezione che, non molti anni dopo e in tutt’altro contesto, comincerà a circolare nel discorso politico.

Insomma, con la testa già nel Pci e la pancia che faticava ad ambientarsi, dopo un mese circa, presi il treno e tornai a Saronno. Dove mi attesero due genitori disorientati dal mio percorso a zig-zag e l’ostracismo dei vecchi compagni di AO: circolava in città un documento scritto, di molte cartelle, che mi attribuiva, in perfetto stile emme-elle (un vizio dal quale AO era, generalmente, immune), deviazioni piccolo borghesi contratte fin da piccolo e la pretesa di occuparmi in modo intellettualistico (ohibò!) di troppi argomenti diversi. In modo più fastidioso, molti, per anni, traversarono la strada per non incontrarmi. Ormai, ci siamo perdonati reciprocamente e c’erano quasi tutti quando, un anno fa, gli amici saronnesi hanno organizzato, loro invitando noi, la festa per il mio matrimonio con la stessa compagna di allora.

Scrissi ancora qualcosa su “Il Manifesto”, da Milano, dove la redazione era coordinata da Michelangelo Notarianni e i redattori erano Tiziana Majolo, Lidia Campagnano, Ida Farè, Sandro Ruotolo e Mario Gamba. Mario, dopo aver lasciato “Il Manifesto” nell’82, si occuperà professionalmente di critica musicale e, dal ’95, lavorerà poi al Tg3. Ma, per me, era ormai venuto il momento di chiamare il capogruppo del Pci saronnese e proporgli la mia domanda di adesione, di assolvere il servizio militare e inventarmi un altro lavoro, fuori dal giornalismo e dalla politica professionale. E questa è un’altra storia che, in parte, vi ho già raccontato.


Questo articolo è il seguito di: da Avanguardia Operaia al Quotidiano dei Lavoratori – di Lorenzo Baldi