la morte di papà morto mangiando
Sono passati 25 anni dalla morte di mio padre e mi è venuta l’idea di raccontare come andò. Nella estate del 94 uno dei miei fratelli organizzò il pranzo al ristorante per gli 80 anni di papà e, anche se con qualche mese di ritardo, quello per i 50 anni di matrimonio.
Era una domenica, il 14 agosto del 94 e andammo a mangiare in un ristorante tra Montesiro e Villa Raverio. Papà e mamma erano reduci da qualche giorno di vacanza in Alto Adige, stavano proprio bene, avevano anche un filo di abbronzatura e portarlo al ristorante era il regalo più bello che gli si potesse fare.
Quando era più giovane e più indipendente non perdeva un’occasione per andà a fa una bela majada (l’associazione amici di qualcosa, quelli del bar, quelli della assicurazione, i coscritti, i compagni di collegio…). Poi erano venuti fuori i primi segni del diabete e la mamma l’aveva messo a stecchetto negandogli persino il secondo bicchiere di vino, poco pane, niente dolci … una tristezza. E lui quando era fuori casa cercava di trasgredire in tutti i modi.
Basta chiedere a mia figlia come e quanto si arruffianassero di nascosto; lui le dava le mancine e lei gli comperava i dolcetti. Mi ricordo che, pochi anni prima, lo trovammo in garage con la portiera della Bianchina aperta. Aveva la gamba sinistra giù e quella destra su. Si era addormentato mentre si apprestava a ruotare per scendere dalla macchina.
Papà ci vedeva sempre di meno per questioni di glaucoma e avrebbe avuto bisogno di fare il secondo intervento all’anca. Il primo era stato fatto una decina di anni addietro ed era andato bene, salvo per una complicanza tipica del nostro sistema ospedaliero; gli ortopedici sanno tutto di ortopedia e per il resto amen. Si accorsero che non urinava da più di 24 ore dopo l’intervento perché si lamentava per un dolore addominale. Quando si decisero a mettere un catetere buttò fuori quasi 3 litri di urina e per fortuna non ci furono danni ai reni.
La displasia dell’anca aveva un origine familiare visto che la sua mamma, la nonna Elisa Viganò, morta nel 63, era una donna piccola, molto grassa e con la displasia bilaterale che la faceva camminare ondeggiando. La displasia dell’anca era diffusissima nelle cascine-mulino lungo il Lambro e lei veniva dalla Folletta (tra I Spaditt e il Taboga ma sulla sponda destra del Lambro).
Mamma dal Taboga, nonna materna dalla Folletta e così la displasia dell’anca, il diabete (e anche una piccola vena di follia) sono entrati a far parte del mio patrimonio genetico avendo avuto modo di radicarsi e consolidarsi attraverso l’abitudine ai matrimoni tra parenti (primi e secondi cugini) come si usava per non disperdere il piccolo patrimonio del mulino e delle attività collaterali.
La nonna Elisa aveva il diabete e due o tre volte al giorno veniva a casa una infermiera (Ginetta) a farle le iniezioni di insulina. Bollitore di alluminio, siringhe di vetro blu. Mi ricordo di questo enorme culo che veniva scoperto per l’iniezione e che era in realtà il portato duplice del diabete e della displasia dell’anca. Per me l’immagine di quel culo è un ricordo simile a quello di Fellini con la Saraghina di A’marcord.
Le patologie della nonna Elisa (inclusa la bassa statura) se le è prese il mio papà e sono poi passate ai Cereda successivi (incusa mia figlia che avendo una madre ospedaliera è stata guardata controluce sin da piccola e si è fatta alcuni mesi bendata al divaricatore nel primo anno di vita perché prevenire è meglio che curare).
Ma torniamo a quel 14 agosto, ce ne tornammo a casa e poco dopo, mentre papà cercava di andare in bagno, cadde in avanti e la sua gamba destra che faceva corpo unico con il bacino fece crack; si spezzò il femore a livello del trocantere. Io e Bruna eravamo i più vicini e così fummo chiamati per primi per tirarlo su. Sulla coscia si vedeva una cosa dura che spingeva verso l’esterno, aveva un male boia e lo portammo al San Gerardo con l’ambulanza. Mi ricordo l’attraversamento del Parco lungo il viale Cavriga con il fondo abbastanza dissestato e ad ogni buca o avvallamento un grido di dolore.
Fatte le lastre fu subito chiaro che c’era da operare e così fu nei giorni successivi. Al secondo o terzo giorno di ricovero saltò fuori un dolore lancinante al tallone e dopo qualche giorno una bella piaga da decubito; probabilmente quel dolore lancinante era frutto di una ischemia periferica.
Come per tutte le persone anziane l’esperienza dell’ospedale, con lo straniamento sommato agli effetti della anestesia generale, fu devastante. Papà entrò in ospedale in grado di intendere e di volere e ne uscì messo molto peggio: non più autosufficiente, con un netto deficit cognitivo, peggioramento della vista e impossibilità a camminare. Si dice che negli anziani le anestesie generali finiscono con delle mini ischemie e così ai tessuti del cervello arriva sempre meno sangue e i processi degenerativi accelerano.
Letto ospedaliero con materasso ad acqua, sollevatore per farlo salire e scendere dal letto, carrozzina, pannoloni e le normali operazioni di assistenza che si fanno con i non autosufficienti. La più sgradevole è il lavaggio con successiva accurata asciugatura dopo la cacca. Sul corpo dei genitori fai delle cose che non ti saresti mai sognato di fare.
Ottenemmo un paio di interventi giornalieri di infermiere e assistente sanitaria (tramite ASL e Comune) per dare una mano a mia mamma la mattina e poi il pomeriggio e la sera si faceva noi figli e nuore, a turno, con un ruolo speciale per la mia famiglia, l’unica rimasta a Villasanta.
Visto il cambio della situazione diedi quasi subito le dimissioni dal Consiglio Comunale; non riuscivo a guardare avanti con serenità. Ho ancora un peso sullo stomaco che non è mai sceso perché nessuno mi chiese mai scusa. In tempi di polemiche politiche i miei vecchi compagni del PCI scrissero su Il Punto che mi ero dimesso per questioni legate alla politica comunale e alla crisi del Gruppo Riformista di cui ero capogruppo.
Eravamo presi da due cose: far guarire la piaga da decubito, evitare il peggioramento dello stato fisico anche se era chiaro che non ce l’avrebbe più fatta a camminare, impedire il peggioramento del deficit cognitivo. Ci andavo di pomeriggio a leggergli le notizie del giornale, a fargli le domande pretendendo che rispondesse. Anche con gli occhiali vedeva ormai solo qualche macchia e gli scrivevo su grandi fogli bianchi singole parole con il pennarello affinché si tenesse in esercizio e ogni tanto, per via della sua fede politica mai rinnegata, gli disegnavo la fiamma tricolore chiedendogli e questo cos’è?
Della sua storia politica, o meglio del suo processo nel 1945 ho scritto un racconto dettagliato nella mia autobiografia spiegando come io sia figlio di quel processo. Se non lo avete mai letto fatelo perchè serve a capire chi fosse mio padre e quale sia poi stato il mio rapporto con lui (1943-1945: mio padre, il suo processo e qualche ricordo del poi).
In questo modo è passato l’inverno, è venuta la primavera del 1995; la piaga sul tallone a furia di medicazioni, massaggi e tanto Iruxol si era quasi chiusa e si incominciava a tentare di metterlo in piedi.
Il 24 aprile era un lunedì; io allora insegnavo matematica e fisica allo Zucchi e nella tarda mattinata venni chiamato in segreteria. Mi venne detto: prof. ha chiamato sua moglie e ha detto di andare subito a casa che papà si è sentito male.
Queste telefonate sono tutte uguali, dice che servono a non allarmare; il paziente è morto ma non te lo dicono. E’ capitato così anche con mia madre morta di notte in terapia intensiva qualche anno dopo. Non bisogna farsi prendere dal panico; ti hanno detto in maniera soft che il papà è morto. Scesi in piazza Trento, inforcai la mia bici che stava nel parcheggio custodito di fianco al monumento e me ne andai a casa loro. Arrivato fuori dal condominio incrociai il medico di famiglia, un mio ex alunno; Claudio fai con calma perché è morto.
Papà era sul suo letto ospedaliero ancora caldo e in posizione rialzata. La mamma piangeva disperata con accanto mia moglie. Si era convinta di averlo ucciso ingozzandolo con il risotto giallo che, a suo dire lo aveva soffocato. Stava mangiando con gli occhi semichiusi e lei lo imboccava. Una specie di singhiozzo e poi più nulla; il cuore si era fermato. Faticammo a spiegarle che non era morto soffocato dal suo risotto, anzi che era morto come aveva sempre sognato. Mangiando.
Lo stomaco venne svuotato dopo un’oretta dai necrofori; era pieno di risotto giallo. Papà era morto felice. Era pure il 24 aprile e il giorno dopo avremmo festeggiato il 50° della Liberazione. Mi venne da dire che aveva deciso di non dare quella soddisfazione ai compagni morendo il giorno prima.