Sanguepazzo – film di Marco Tullio Giordana

Quando questo film è uscito (2008) ero in tuttaltre faccende affacendato e così, nonostante avessi fortemente apprezzato La meglio gioventù (2003), il passo successivo di Marco Tullio Giordana mi è sfuggito e l'ho scoperto scorrendo la sua filmografia mentre scrivevo di Nome di donna.

Giordana dopo aver raccontato 37 anni di storia italiana del dopoguerra ha scelto di parlare di fascismo e di resistenza scegliendo un argomento affine al suo lavoro (il mondo del cinema) e scomodo (gli effetti tragici della guerra civile).

Il film è bello, rigoroso, con una grande interpretazione di Luca Zingaretti e una buona presenza di Monica Bellucci che riesce ad essere molto di più di una bella mora e inizia con una bimba che raccoglie una pizza cinematografica tra le macerie di una Milano semidistrutta, davanti a due cadaveri, per terminare con la stessa bimba che, dopo aver riavvolto il nastro di celluloide, se ne va in bicicletta.

In mezzo, attraverso un alternarsi di va e vieni nel tempo c'è la storia d'amore e la vita di due attori dal loro primo incontro sino alla fucilazione: l'esuberanza e l'istrionismo di Valenti, la Ferida che ama due uomini molto diversi per cultura e origine sociale, iul secondo è un regista immaginario e nobile (Visconti?), la cocaina, la scelta di Valenti di non essere nè accomodante nè voltagabbana, il rapporto con quelli della banda Kock procacciatori di morfina, la X MAS e l'incontro con Junio Valerio Borghese.

Luisa Ferida (Luigia Manfrini) e Osvaldo Valenti sono stati due importanti attori del cinema italiano tra gli anni 30 e 40 del novecento e, a differenza di chi rimase a Roma inaugurando il filone neorealista, dopo lo smantellamento di Cinecittà scelsero di andare a Venezia a seguire le sorti del fascismo cadente e della RSI.

Da Venezia andarono a Milano (l'ultimo film è del 44) inseguendo l'approvvigionamento di droga (di cui Valenti era fortemente dipendente), ma se si va a cercare tra i documenti si trova quello che nel film non c'è e cioè il suo lavoro nella X MAS in alcune azioni di contrabbando organizzato con la Svizzera con sede a Lanzo d'Intelvi per procurare valuta pregiata alla RSI.

Sanguepazzo è una ipotesi di film dissacrante che Valenti sogna di fare e che non si farà mai: "E' un film che sto girando da 10 anni e che non finirò mai; sanguepazzo è la mia merda, la merda, i soldi, il sangue, il sesso; quello che vogliamo nascondere, quello che non vogliamo sapere …". Così si racconta, prima di lasciare Venezia a chi gli propone di diventare il capo della cinematografia della RSI, avere un passaporto diplomatico e scappare in Spagna. Invece lui si arruola nella X MAS e si trasferisce a MIlano.

Il responsabile della brigata Pasubio cui si erano consegnati spontaneamente riferì che l'ordine di fucilazione arrivava direttamente dal CLNAI e in particolare da Pertini e, come per molti episodi della primavera 45, ci fu poi, nel dopoguerra, un processo da cui emerse che non dovevano essere fucilati. Se volete saperne di più trovate in rete un sacco di materiale incluse due biografie.

Ma il film è un racconto di vita e di ambienti con una serie di dettagli della loro vita, del mondo del regime, del mondo dei semplici e di quello dei privilegiati. Alcuni di questi dettagli, se si va a scavare, si scopre che corrispondono alla verità storica. Per esempio c'è l'amante di Pietro Kock , una subrette fanatica ammiratrice della Ferida che si dilettava ad imitarla con sceneggiate presso gli antifascisti detenuti e torturati e che, nel processo sommario del 45, fu probabilmente scambiata per la Ferida.

Dura oltre due ore e mezza ma la sceneggiatura, la interpretazione di Zingaretti e la bravura di Giordana nel ricostruire e documentare fanno scorrere il tempo senza far pesare la lunghezza del lavoro. Ho trovato singolare, alla fine del film, che a comandare il plotone di esecuzione sia stato scelto Luigi Lo Cascio, il protagonista della Meglio Gioventù, quasi a stabilire un nesso ideale e sottile tra i due film: "abbiamo messo il cartello … giustizia è stata fatta", mentre il partigiano cui si rivolge lo guarda con aria perplessa.


dichiarazioni di Marco Tullio Giordana alla uscita del film

Non erano colpevoli delle cose di cui furono accusati. Valenti frequentava, è vero, Koch, ma perché quello gli passava la droga che gli era necessaria.

Non avrei mai voluto trovarmi nei panni di chi ha dovuto decidere del lo­ro destino. Probabilmente anch'io, date le circostanze, avrei scelto la condanna a morte.Si era nella fase in cui punire alcuni simboli aveva la funzione catartica di sal­vare tutti gli altri.

Ebbi I'occasione di parlare con i testimoni diretti, compresi alcuni del plotone d’esecuzione. Da alcuni silenzi, da certe esitazioni, da un modo di abbassare gli occhi, cioè da dettagli che nessun libro potrà mai restituire, mi convinsi del disagio di molti protagonisti.

Se gli eccessi, quando cui furono, fossero stati resi noti nel momento di massima efficienza del mito della Resistenza, cioè nell’immediato dopoguerra, il mito stesso non ne sarebbe stato intaccato e avremmo potuto più velocemente voltare pagina senza portarci dietro per troppo tempo i veleni che ci hanno costretto a vivere in una perenne guerra civile

Il film è un viaggio nella biografia individuale di due attori baciati dal successo e ruota attorno a una domanda inespressa ma assillante: perché aderirono a Salò? Avrebbero potuto imboscarsi, come altri colleghi. Invece decidono di andare fino in fondo per quella maledizione scritta nel carattere.

Ma non si può pretendere che esista una memoria uguale per tutti, è un atro di prepotenza. Per questo esistono gli artisti, per dare vo­ce alle memorie più diverse, per racconta­re le storie. Non la Storia. Quello è compito degli storici.

Mio padre e mio nonno sono stati eroi della Resistenza, e non vorrei incontrandoli nell'aldilà, dovermi sentire in colpa. È stato Pavone nel 1991 a infrangere il tabù sulla guerra di Liberazione e sulla Resistenza, parlando di guerra civile, quindi mi sono sentito autorizzato a uscire anch'io dal mito.