per Ida – di Lorenzo Baldi

Forse in tanti non lo sanno e, con il passare degli anni, certe cose si dimenticano; ma se il Quotidiano dei Lavoratori è esistito è anche grazie alla generosità con cui Ida si è spogliata delle sue case in nome di un progetto in cui credeva. Lo hanno fatto anche altri, ma lei in maniera particolarmente importante.

Ho chiesto a Lorenzo Baldi, che ieri è stato presente al suo funerale, di raccontarcela per come tutti noi che abbiamo lavorato al suo fianco l'abbiamo percepita, con il suo modo di essere fuori dalle efficienze e dal volontarismo con cui facevamo politica. Se c'era lei potevi star sicuro che l'ordine del giorno sarebbe saltato perché c'era qualche cosa di importante a cui non avevamo pensato.(c.c.)

Ho saputo della morte di Ida Farè da Facebook. Le esequie si sono tenute presso la chiesa di San Pietro in Sala, a Milano. Un’antica parrocchia, a 5 chiilometri da Sant’Ambrogio, sorta nell’ XI secolo, periferica e contadina. È stata ricostruita e ingrandita cinque volte – per le crescenti esigenze del culto – fino all’assetto attuale che data del 1924. Ida, che abitava a poche decine di metri, recentemente la frequentava.

Da laico non anticlericale non mi sottraggo ai riti religiosi ed ho sviluppato una curiosa sensibilità liturgica, apprezzando così la cerimonia di addio (candele di cera, scelta delle letture, canti non tradizionali e non banali, un’omelia rispettosa dei fedeli come dei molti laici convenuti). Da apprendista sociologo, come tutti siamo in queste occasioni, ho condiviso il rito con persone di ogni età, femministe storiche e giovani ex studenti, signore eleganti e streghe in eterno ritorno, addette alla cura colorate, intellettuali nella loro età migliore.

Ho conosciuto Ida Farè nel 1975, quando cominciai a scrivere sul Quotidiano dei Lavoratori, alla cui nascita diede un contributo decisivo e molto, molto concreto. Ero un pischello di provincia e lei una gran donna, milanese e adulta, con dei figli non più nella culla. Mi metteva un po’ di soggezione.

Avanguardia Operaia mancava del guizzo surreale degli emme-elle, sognanti sulla copertina de “La Cina” (roba che neanche Photoshop); e mancava anche di quel radicalismo sfrontato e, perchè no, spontaneo, che rendeva simpatica Lotta Continua. Mi vien da dire che è il destino del riformismo ambrosiano, tanta concretezza e poco glamour, tolta la parentesi della Milano da bere. Fatto sta che, con molte lodevoli eccezioni, si tendeva un po’ al compito ben eseguito, al commento che sovrasta la notizia (anche per ragioni di organico: gli inviati costano), ad una stretta correlazione tra la “linea“ e la cronaca politica.

Ida no, lei non rischiava mai di essere noiosa o, men che meno, scontata: faceva irruzione nella riunione di redazione con un gonnellone lungo, con le calze a striscie colorate, con una proposta di articolo, (quasi mai un argomento canonico con un approccio normale) e, con il suo entusiasmo e la sua capacità di comunicare, alla fine quell’articolo, quel taglio, sembravano assolutamente necessari, anche a Claudio Cereda.  Il giorno dopo, quando si commentava il lavoro fatto, il suo articolo era invariabilmente tra le parti meglio riuscite del giornale.

Al QdL c’era un’isola di tendenza freak: Giovanna Pajetta, che nel settembre 75 scrisse memorabili report dal festival del proletariato giovanile di Licola, Mario Gamba che si occupava seriamente di esteri e coltivava un privato amore per la musica jazz (possibilmente free, lo ringrazio ancor oggi per avermi introdotto all’ascolto di Muhal Richard Abrams e Anthony Braxton).  Ida, a prima vista, apparteneva a questo quadrante antropologico, ma non si lasciava ingabbiare in valutazioni semplificate: giovanilisti vs. tradizionalisti, avanguardia vs. pop, classe vs. genere. Forse, per l’esperienza di una vita più matura, per una soggettività che non accettava di essere analizzata (e, quindi, suddivisa), tirava dritta per la sua strada, rispondendo ai fatti che la interrogavano.

Anche se la “Fenomenologia di Mike Buongiorno” di Umberto Eco data dal 1961, credo che Ida Farè sia stata tra i primissimi giornalisti italiani a coniugare, sul campo, “alto” e “basso”, cultura accademica e cultura popolare, scienze umane e vita quotidiana, raccontando i fatti della vita in  chiave politica, illuminata dalla cultura della differenza.

Era facile vedere in lei, in modo iconico e riunite in instabile equilibrio, la Pasionaria e la Femminista: spesso, però, ti spiazzava con un solidissimo principio di realtà, sostenendo tesi ardite, non per estremismo e complessa costruzione intellettuale, ma perché teneva fermo un buon senso decisamente ancorato alla terra e non sempre compatibile con lo spirito dei tempi.

L’ultima volta, ci siamo visti nella redazione milanese del Manifesto, mentre io scrivevo le mie ultime righe per la nuova sinistra e lei stava per intraprendere una professione diversa dal giornalismo, al Politecnico di Milano. Seguendo a distanza i suoi libri, le sue interviste e le sue ricerche, mi è sembrato di re-incontrare ogni volta quel fantastico equilibrio tra radicalismo e realtà, che tanto ci manca, soprattutto oggi.