Via Ripetta 155 – di Clara Sereni (recensione)

Mi sono avvicinato a questa autobiografia con un misto di rispetto sacrale e di curiosità: una coetanea, la figlia di un grande dirigente del Pci di ascendenza ebraica, il fatto che Clara Sereni è morta proprio quando iniziavo la lettura della sua autobiografia sessantottina, la scoperta di questi libro mentre mi apprestavo a leggere la sua storia dei tre fratelli Sereni (Enrico scienziato legato a Giustizia e Libertà morto suicida a 31 anni, Enzo militante sionista fucilato nel campo di Dachau nel 1941, Emilio dirigente del PCI e padre di Clara) nella temperie del Secolo breve e rievocata in Il gioco dei regni.

Ho così scoperto l'ennesimo buco culturale che mi contraddistingue e che Clara Sereni, insieme al marito Stefano Rulli (sceneggiatore di successo), si è occupata in questi anni di genitorialità e di tematiche legate all'autismo a partire dalla esperienza con il figlio Matteo.

Via Ripetta 155 è la storia di dieci anni di vita, quelli dal 68 al 77 (scanditi dai titoli dei capitoli), vissuti a Roma dentro il movimento, nel centro della città e a contatto con un ambiente particolare, quello dei cineasti di sinistra e dei cultori della riscoperta dei canti popolari, socialisti ed anarchici. Così troviamo nel libro Citto Maselli (l'amore non corrisposto), Paolo Pietrangeli (Contessa), Giovanna Marini, il Nuovo Canzoniere Italiano, una marea di aspiranti registi e sceneggiatori legati a Lotta Continua, Goffredo Fofi (Ombre Rosse) e i Quadeni Piacentini, Piergiorgio Bellocchio.

Ci spiega Clara che è proprio la passione per il canto e per quella tradizione che la spinge ad andarsene di casa e ad approdare a Via Ripetta.

La causa prima fu che sono snob. La casa mia la volevo proprio lì, nella porzione di Roma compresa fra Campo de’ Fiori e piazza del Popolo, delimitata da un Tevere cui non prestavo molta attenzione ma lungo i muraglioni c’erano gli alberi come in via Nomentana dove sono nata, e il fiume era comunque un punto di riferimento. 

In realtà il problema era quello del padre e me lo confermò, ai tempi del Quotidiano, una redattrice figlia di un dirigente comunista; padri grandi dirigenti comunisti, un po' temuti, un po' venerati e sicuramente ingombranti. Mi torna in mente questo problema quando nei filmati di repertorio vedo le interviste a Nilde Iotti che quando parla di Togliatti lo chiama per cognome. anche se mi rendo conto che Palmiro, si presta poco allo sdolcinature.

Non ero in grado di tenergli testa, per le sue capacità dialettiche, per i suoi saperi che mi schiacciavano, per il rispetto-paura che mi incuteva. Solo una volta riuscii a dirgli, e parlavamo di morale, che lui era certo il più forte e ferrato nelle argomentazioni, ma io non ero d’accordo lo stesso. Mi lasciò andare con uno strano sorriso, appena accennato: magari aveva ottenuto quel che voleva – tirarmi fuori il coraggio –, o forse si era solo stancato di critiche dalla scala cromatica noiosamente ridotta.

La mia impressione, sin dalle prime pagine, è stata quella della diversità rispetto alla mia esperienza di 68 e a quella milanese. Forse era la differenza di origine sociale, ma per me e per i miei amici di allora, c'era la consapevolezza di essere costruttori del proprio futuro; si andava alla università per realizzare un progetto di vita e le scelte di vita, proprio per questo, si costruivano con gradualità.

L'altra cosa che mi ha stupito è che il 68 in senso stretto, inteso come movimento organizzato, con i suoi obiettivi interni ed esterni alla Università e alla scuola, è poco presente e per certi versi del tutto assente. C'è nella rivoluzione del costume e nello stile di vita, c'è nei riferimenti alla lotta antiimperialista e nelle manifestazioni, c'è molto meno nella politica e negli obiettivi.

Clara è alla ricerca della sua autonomia, cerca, per sopravvivere,il distacco fisico dalla figura di tanto padre; andare a vivere da sola è la condizione per le altre scelte. Una casa nel centro, che non costi troppo di affitto (la metà di quello che riesce a mettere insieme nel corso del mese), la mancanza di un progetto di vita che non sia quella del gruppo e del cantare, la organizzazione di una casa scandita da eventi in successione. All'inizio in via Ripetta l'unica cosa che c'è è l'acqua corrente: le pareti e i soffitti sono da sistemare nascosti da strati e strati di carta da parati, mancano i mobili, si vive senza riscaldamento e a lume di candela, c'è un impianto elettrico che, quando l'Enel fa l'allacciamento, non verrà collaudato dal tecnico, per il pericolo di corti circuiti, ci sarà un boiler elettrico montato in orizzontale perennemente pazzerello. Le valvole fusibili, del vecchio tipo con i supporti in porcellana, saltano in continuazione e Clara diventerà una esperta nel dosare il calibro dei fili e nel prestare attenzione a cosa si collega (un solo elemento della stufetta, quando arriverà).

Negli anni la situazione logistica migliora: al posto dei materassi sul pavimento arriva un letto di ferro con le ruote in porcellana dallo studio dismesso di papà e trasportato a mano in via Ripetta, poi un fornello a gas recuperato tra le cose che si buttavano dalle finestre a fine anno (e così si passa dalla dieta cruda a quella cotta) e ad un certo punto (1975) compare persino una lavastoviglie che dovrà essere smontata per farla passare dal corridoio. I soldi arrivano in scarsa misura dalle attività legate al canto ma soprattutto, e sarà così sino al 77, dalle abilità in dattiolografia: per via delle lezioni di pianoforte di zia Ermelinda. Clara è molto precisa e veloce e negli anni in cui dai copioni, alle sceneggiature, ai comunicati stampa, si batte tutto a macchina, c'è un lavoro assicurato.

Il libro è dedicato alla vita, ai sentimenti, al tema della autonomia personale anche all'interno dei rapporti affettivi. Colpisce, particolarmente raccontato da una donna, la distinzione tra sesso e sentimento.

Tutti andavamo a letto con tutti, cercando affetto o amore o un antidoto alla solitudine o forse una briciola di potere (1970); è la fase dell'innamoramento per Citto Maselli (il grande amore che la tratta come le altre, sempre cortese ma sempre un po' distante e preso dai suoi progetti).

Siamo al 1971, è la sera prima di un viaggio, che poi non ci sarà, verso la villa fiorentina di una nobildonna di Potere Operaio:

Nessuno programmò, successe. Tutti stesi sul pavimento, neanche del tutto senza vestiti. Non un’orgia, neanche fare l’amore, solo uno strofinarsi di tutte e di tutti. Difficile anche definirli abbracci. Singolarmente, nella maggior parte dei casi, era già successo. Rimasi a occhi chiusi la maggior parte del tempo, quando li aprivo non vedevo granché di interessante, né allegria, né tantomeno baldoria.

Nel 71 c'è anche un tentato suicidio figlio della solitudine.

Esaminai accuratamente le cose che mi tenevano attaccata alla vita, una per una, e nessuna che ne valesse lo sforzo. Rami eliminati via via, e alla fine il tronco nudo basta una piccola spinta e viene giù. Niente lettera d’addio, non avevo niente da dire a nessuno. Mi addormentai tranquilla, né affranta né impaurita: libertà era anche finirla con una vita che non avevo capito ancora se fosse brutta o bella, ma di certo era troppo faticosa e piena di dolore.

Riporto un brano abbastanza lungo, siamo al 1975, e ormai l'amore con Stefano si è stabilizzato nel senso della continuità; Clara Sereni descrive in maniera esplicita la sua concezione del rapporto tra amore e libertà:


Ci fu qualche ammissione, qualche briciolo di confessione. A me interessava una rete di relazioni, nessuna esclusa. Purché fosse reale ogni volta la disponibilità all’altro e all’altra, purché ci fosse il desiderio di condividere un pezzo di strada, non importa quanto breve. Insomma, purché si fosse fedeli a se stessi: che ci si scambiasse un po’ di pelle in un letto oppure no.
Lo dissi, lo dichiarai. Stefano non la prese affatto bene: la fedeltà era per lui un valore indiscutibile. Credo di aver detto che la fedeltà come possesso non mi piaceva proprio, non potevo condividerla in alcun modo. Traendo le sue conclusioni, arrabbiato e addolorato Stefano mi chiese davanti a tutti se da quando stavamo insieme ero andata a letto ancora con l’uomo che tanto avevo amato.
Non era successo, ma sarebbe potuto succedere, continuavo a desiderare che potesse succedere: non tanto un letto, quanto la ripresa di quel rapporto intenso e speciale (...)

Fino a quel momento mi ero sentita libera di quelli che chiamavo i «pensierini», di assegnare a ogni uomo che mi capitava di incontrare una categoria: li dividevo fra quelli con cui ipoteticamente avrei fatto l’amore e quelli che mai nella vita.
Non mi sognai di mettere a parte Stefano di quell’abitudine: per non fargli male inutilmente, mi dissi, mentre la frattura con la mia vita di prima si andava approfondendo.


Il 68 ha ormai virato verso gli anni 70, ci si avvicina ai 30 anni e anche Clara Sereni vira verso la stabilizzazione, stabilizzazione della coppia con la scelta della festa di non matrimonio per farsi fare i regali come se …, sostegno verso la famiglia di papà, verso le sorelle e le sorellastre, verso papà che inizia a non essere più lo stesso in termini di lucidità.

Sono interessanti le pagine dedicate agli incontri tra consuoceri, diversi per estrazione sociale, storia ed abitudini. I genitori di Stefano sono abruzzesi, di origini comuniste, ma vengono dal popolo, e del popolo seguono tutte le tradizioni comprese quelle delle feste natalizie all'insegna di cene e pranzi a ripetizione, mentre la famiglia Sereni originaria della alta borghesia ebraiaca capitolina non festeggia il Natale e nascono così momenti esilaranti.

Si arriva al 77 alla morte di Emilio Sereni e sarà la ristrutturazione della famiglia a determinare la fine di via Ripetta e il trasferimento a Monteverde. Chiudo con un riferimento simpatico agli anni della lotta al terrorismo; siamo nel 76 e Sandro Petraglia, il sodale di Stefano Rulli (entrambi militanti di Lotta Continua) riceve un mandato di comparizione, bisogna trovare un avvocato:


a me venne in mente Eduardo Di Giovanni, un amico che avevo anche amato un po’, e che in quel periodo faceva parte di Soccorso rosso, la piccola organizzazione che forniva assistenza legale ai compagni. Ma c’era lo slogan che lo riguardava, «Di Giovanni, Di Giovanni, non so’ mesi ma so’ anni», con lui si entrava in tribunale imputati e se ne usciva eroi, però in genere con la condanna peggiore prevista dalle normative.


Via Ripetta 155
Clara Sereni

Giunti Editore, 1995 208 p. 14 € versione epub 5 €