Sognavamo cavalli selvaggi (Luca Visentini) – recensione

Ero alla ricerca di un documento del MS di Scienze pubblicato su un vecchio numero di Avanguardia Operaia mensile, uno dei primi, del 1969. Ho messo un appello sul gruppo (ultimamente un po' asfittico) di "via Vetere al 3" e Luca Visentini mi ha risposto dal Friuli dove si è trasferito: ce l'ho, te lo mando. La ripresa di contatto è avvenuta così.

La notizia della pubblicazione di Sognavamo cavalli selvaggi (un titolo che è un programma) l'avevo vista su Facebook; Ennio Abate ne aveva fatto una lunga recensione su Poliscritture correndandola di qualche brano particolarmente spinoso. L'avevo vista ed Ennio, dopo avermene inviato il link, me ne aveva anche chiesto conto: perché non ti esprimi?

Avevo letto solo i brani riportati da Ennio, per me, troppo intrisi di spensierato volontarismo, quelle cose che mi commuovono ogni volta che ne leggo, ma che poi mi inducono a chiedermi ma cosa stavamo facendo?,  e lo chiedo in primo luogo a me stesso. C'è da andarne fieri ? E non parlo dell'omicidio preterintenzionale di Ramelli, perché la risposta sarebbe ovvia. Mi riferisco alla pratica perseguita per anni di alzare il tiro per fare la rivoluzione.

Ai tempi si diceva, mi par di ricordare, parafrasando Lenin, che il problema non è tanto il riconoscere l'esistenza della lotta di classe quanto il riconoscerne il ruolo essenziale per la realizzazione della rivoluzione socialista e della dittatura del proletariato. Due imperativi: sviluppare la lotta di classe, costruire il partito della avanguardia del proletariato. Lenin ce l'aveva con i socialisti riformisti. Una vecchia querelle.

Questa cosa la prendevamo sul serio, molto sul serio, mettendoci dentro una carica di volontarismo che consentisse, in ogni contesto, di far esplodere le contraddizioni. Certo, dal 74 in poi abbiamo mitigato, rispetto a certe letture esasperate del leninismo, con la strategia della lotta rivoluzionaria per le riforme (la variante AO della via italiana al socialismo); ma quella impostazione non fu indolore e terminò con una lotta serrata tra due linee, una che tentava di rivisitare le specificità della lotta per il socialismo nella società avanzata degli anni 70 e l'altra, duramente e inflessibilmente antirevisionista e filoleninista.

Fu una lotta interna al gruppo dirigente iniziata a fine 1975 quando incominciò ad essere chiaro che non si poteva andare avanti così con quattro organizzazioni rivoluzionarie in perenne concorrenza reciproca, con tre quotidianii, con una grande capacità di organizzare e coordinare lotte sociali ma con una scarsa capacità di capitalizzazione politica.

In AO si venivano a delineare due progetti divaricanti e il 1976, a mio modo di vedere, è stato l'anno in cui fu la storia a mostrarci che entrambe le ipotesi erano sbagliate; altro che critica e lotta al revisionismo: c'erano un sacco di cose da revisionare e noi eravamo largamente inadeguati.

Luca Visentini è uno dei pochi militanti e dirigenti di Avanguardia Operaia che ha scelto di raccontare. Oltre al suo contributo ho presenti due romanzi di Rino Riva (Partita Doppia e Se i muri potessero raccontare), alcuni capitoli della mia autobiografia on line e si annuncia un tentativo organico di scrivere una storia di AO (questa è una bella notizia). Luca ha raccontato i particolari del vivere quotidiano, la crescita di una generazione che arriva alla lotta rivoluzionaria senza una storia politica precedente, la generazione di quelli che hanno aderito alla sinistra rivoluzionaria da sedicenni. Lo fa attraverso una sequenza di racconti da flusso di coscienza, come se avesse avuto il bisogno di lasciarsi andare, come se il raccontare fosse una necessità che veniva da dentro: c'è lui con i suoi problemi, i suoi sentimenti e intanto c'è la Milano della fine anni 60 e degli anni 70.

Ne è venuta fuori una storia bellissima, che vale la pena di leggere, sia per come è scritta, sia per quello che racconta: la sua famiglia, il suo quartiere, il rapporto importante con una coetanea, i lavoratori studenti, il rapporto con l'Organizzazione (così si diceva allora OCAO), il servizio d'ordine, i rapporti con i militanti degli altri gruppi rivoluzionari presenti sulla scena milanese, il servizio militare, lo sradicamento rispetto alla società del lavoro-scuola-patria-famiglia che gli rende impossibile fare l'impiegato, la violenza, l'ambiente del Ticinese dalle colonne di San Lorenzo a piazza XXIV maggio intorno alla sede di via Vetere (dal fortilizio alle trattorie del Corso, a Rattazzo e i suoi panini), il ruolo da funzionario tecnico, la intermittente e periodica fuga tra le montagne e tra le rocce (dall'Alpe Veglia alle Dolomiti).

Nel raccontare, Luca si è lasciato andare e devo anche dire che ha una memoria buona, molto migliore della mia. Si ricorda i dettagli, in particolare quando si tratta di manifestazioni e di scontri con gli apparati di polizia. E' orgoglioso di aver fatto parte in quella che considera la organizzazione più seria tra quelle allora presenti e lo dimostra attraverso tanti piccoli episodi.

Mentre leggevo mi è venuta voglia, invece di fare il riassunto, o di citare, di fare a Luca delle domande; e queste sono le mie insieme alle sue risposte.


Cosa rappresentavano per te le parentesi montanare rispetto al quotidiano della lotta rivoluzionaria?


Andavo in montagna già prima del Sessantotto, con mio padre e poi con gli amici del quartiere. Anche in AO ho incontrato dei compagni che scalavano, tra i lavoratori-studenti soprattutto, ci siamo individuati per certi capi di abbigliamento, le giacche a vento per esempio. Così, durante le ferie estive andavamo ad arrampicare insieme nelle Dolomiti o le domeniche sulla vicina Grigna.

Per il grosso dei compagni dell’organizzazione sembravamo dei marziani, ci rivolgevano battute umoristiche ma in fondo ci volevano bene anche per questa nostra strana passione. Recentemente ho partecipato dopo tanti anni alla manifestzione del 25 aprile a Milano e l’ex senatore Guido Pollice, riconoscendomi, mi ha subito apostrofato: “Luca, la montagna!”.


Perché sei finito in AO e non in un'altra organizzazione rivoluzionaria, per esempio Lotta Continua?

Lotta Continua mi stava simpatica, avevo alcuni amici che erano suoi simpatizzanti, ma ne coglievo i limiti d’improvvisazione e di spontaneismo. Nel libro parlo di un particolare stato d’animo del popolo di LC, e infatti due di quei miei amici del quartiere li chiamavamo Sensation (Sensescion) e Folkloristic. Approdai ad Avanguardia Operaia perché i più, tra i compagni del mio stesso quartiere, già vi militavano e mi contattarono, e perché mia sorella maggiore me ne parlava.


Mentre stavi in AO ti sei mai chiesto se eri nel posto giusto? Se le cose che stavi facendo erano quelle da fare?

Sì, mi sono sempre mosso con coscienza e cognizione e proprio AO, con la costante discussione interna e quella che chiamavamo azione di massa, sempre ridiscussa e rilanciata, mi teneva con i piedi per terra.


Nel libro, quando si arriva al 1976, liquidi la spaccatura in AO come una faccenda da una trentina dei dirigenti massimi che ci mollarono, come certi morosi, brutalmente. Credo di essere uno di quelli, anzi l'unico ad aver fatto un bilancio radicale, al punto da considerare finita la storia della sinistra rivoluzionaria ed essermi iscritto al PCI dalla base ed aver cambiato vita e mestiere. Tu ti sei chiesto se era finito il progetto iniziato nel 68 o ti sei limitato a stringere i denti per altri due anni?

I contrasti, lo scontro e la divisione nel gruppo dirigente passarono sopra le teste di noi compagni di base. Fino al giorno prima di “Rocca di Papa” io non mi perdevo una parola di quel che diceva Aurelio Campi, che ritenevo il nostro compagno più intelligente e illuminante. E allo stesso tempo seguivo Luigi Vinci, al quale attribuivo più di tutti gli altri la tenuta dell’organizzazione. Nel mio piccolo, per me non era finito il progetto del Sessantotto, tanto che mi sento ancora e in positivo un sessantottino e quelle idee, ovviamente sviluppate e maturate, mi guidano tutt’oggi.


Perché hai lasciato Milano?  Nell'ultimo capitolo, la guardi, ti impressioni, ma alla fine ... meglio il paese, la montagna, la comunità, ...

Ho lasciato Milano essenzialmente per motivi economici, in seguito a un rovescio famigliare. Nei paesi alpini del Friuli dove sono andato ad abitare gli affitti sono molto meno cari. In più, in montagna ci lavoravo da tempo durante i mesi estivi e così ne ho anche guadagnato logisticamente. Ciò non toglie che ogni volta che torno sporadicamente in città mi entusiasmo.


Nel tuo libro c'è il racconto di tanta passione, la politica come somma di tanti accadimenti. C'era anche una riflessione generale?

Passione, certo, perché volevo raccontare una storia, non redigere un saggio di cui peraltro non sarei stato capace. E ho così preferito descrivere la mia esperienza politica nel susseguirsi, appunto, degli accadimenti. Per quanto riguarda la riflessione generale, beh, eccome se c’era, ricordo i perenni ordini del giorno, nelle varie riunioni, che cominciavano con l’analisi della situazione politica”.


AO ha sempre curato la linea e la formazione quadri. Qual era il tuo rapporto con la linea?

Leggevo tutto, tesi, documenti, opuscoli, rivista e QdL, feci la scuola quadri con Rota, Vinci e Forcolini, partecipai al seminario di studi ad Agape e certe parole di Oskian/Aurelio sono tuttora scolpite dentro di me. Ma ho studiato ragioneria e sono sempre stato schematico, non ho mai avuto particolari capacità dialettiche o teoriche. Mi occupavo perlopiù, in AO, di cose organizzative.


Cosa ricordi del Quotidiano dei Lavoratori del periodo 1974-1976?

All’uscita ne fummo entusiasti. Lo diffondevo. Poi lavorai anche nella sua distribuzione, al turno di notte. Nel complesso penso che ci sopravvalutammo, tutti quanti, e che sarebbe bastato un unico giornale della nuova sinistra che riassumesse i ben tre quotidiani di allora. Troppi.


Cosa ti è rimasto del femminismo?

Il femminismo ci ha cambiati, e in meglio, irreversibilmente.


Cosa pensi oggi della violenza?

La violenza credo sia nello stato delle cose, non è che il mondo ce la risparmi. Sono pacifico ma non pacifista, come si diceva allora. Nel senso che l’uso della violenza è per me ancora una forma di lotta e che va di pari passo con la comprensione della stessa da parte delle masse. Il potere non lo scalzi nemmeno con la democrazia, perché se anche vai al governo con libere elezioni ci pensa lui a violentarti subito dopo.


Sono passati 50 anni dall'inizio. Si poteva fare meglio?

Senz’altro, si poteva fare meglio. I nostri errori di analisi, il primitivismo, lo schematismo, eccetera, a rileggerli con gli occhi di oggi fanno addirittura tenerezza. Se fossimo andati al potere, con quelle inadeguatezze, avremmo molto probabilmente combinato dei disastri. E lo scrivo pure, nel mio libro. Mi ripeto: ci sopravvalutammo. D’altro canto, facemmo anche troppo come generazione. Vorrei che anche i giovani di adesso si ribellassero e lottassero con quella forza e quella passione.


Luca Visentini

Sognavamo cavalli selvaggi

Edito in proprio – ordinabile su Amazon – 13 € in formato Kindle 4.50 €

100 racconti brevi, 280 pagine


Luca Visentini, nato a Milano nel 1954, è stato un militante di Avanguardia Operaia dal 1972 al 1977. Ha lavorato poi in montagna, pubblicando guide escursionistiche e alpinistiche delle Dolomiti. Fino a quest’ultimo romanzo, politico; il resto lo scoprirete leggendo Sognavamo cavalli selvaggi.