’68 – La selezione meritocratica – di Vittorio Sforza

Le persone che 50 anni fa si sono impegnate nella costruzione del Movimento Studentesco di Scienze (poi divenuto di Città Studi) all'Università Statale di Milano e al Politecnico, si ritrovano sabato 26 maggio all'Istituto di Fisica di via Celoria, nell'aula A dove tutto ebbe inizio.

Ci siamo ritrovati per la prima volta 10 anni fa in occasione del 40° e allora lo facemmo in maniera più solenne e formale, al punto che ci fu addirittura una relazione introduttiva di Franco De Anna dedicata al tema delle passioni tristi e quelle generose. Magari nei prossimi giorni la si ripubblica.

Dopo quell'incontro abbiamo tentato di mettere in piedi uno strumento di comunicazione e per un  po', seppur in maniera disordinata, la cosa ha funzionato con la stesura di post, articoli e riflessioni. Poi dal 2010 tutto si è fermato ma quel materiale che, nelle mie intenzioni, avrebbe dovuto servire a stendere un libro di ricordi-riflessioni, è ancora disponibile e mi è venuta l'idea di metterlo su Pensieri in Libertà e sulla pagina Facebook creata per pubblicizzare l'evento del 26 maggio.

Sono materiali datati, hanno 10 anni, ma sono comunque documenti e possono servire ad arricchirci e a rinforzare elementi di comunanza ed identità che sono rimasti, nonostante le scelte diverse fatte da ciascuno di noi in ambito culturale, professionale e politico.

Voglio ricordare qui due amici e compagni che si spesero per l'incontro del 2008 e che non ci sono più Giorgio Calzamiglia, di Geologia e Guido Paracchini (Pepè) di Chimica. Nei prossimi giorni pubblicherò anche il loro punto di vista.

Questa volta faremo una cosa in tono minore, con minor tempo per la assemblea e più tempo per coccolarci, per capire cosa ci ha accumunato e per salutarci visto che è molto improbabile ritrovarsi da ottantenni.

Il primo intervento è di Vittorio Sforza (Lupo) di Chimica e riguarda una cosa che contraddistinse il Movimento Studentesco di Scienze nel momento in cui altrove si faceva lotta ideologica: la lotta a quella che ciamavamo la selezione meritocratica. Buona Lettura

Claudio Cereda


di Vittorio Sforza

Intervengo sul tema della lotta alla selezione meritocratica che, ai tempi, era il nostro cavallo di battaglia, perché è un tema che è stato chiesto esplicitamente da diversi di noi e perché nel bene e nel male è un problema per molti aspetti aperto.

Per noi la selezione meritocratica era quell’insieme di pratiche didattiche caratteristiche sia dell’insegnamento universitario, sia dell’insegnamento in genere, che aveva come obiettivo quello di selezionare gli studenti non sulla base del merito ma su quello della loro disponibilità ad accettarne le regole. Queste regole sostanzialmente ci apparivano per niente finalizzate alla verifica di quanto era stato appreso dagli studenti e delle loro effettive capacità quanto piuttosto alla verifica meccanica delle nozioni apprese e della accettazione scontata dei carichi e dei tempi di lavoro imposti.

Sostanzialmente ai nostri occhi si trattava di una pura e dura verifica burocratica che non si poneva mai il problema della validità e dell’efficacia dell’insegnamento svolto ne’ tanto meno si poneva il problema di evidenziarne il senso, l’importanza e le criticità. Alla fin fine il successo o meno agli esami ci appariva (ed era così in larga misura) indipendente dalla bontà del lavoro del docente, esso era sostanzialmente funzione solo del lavoro dello studente che era, per il docente, un soggetto sostanzialmente anonimo (altra cosa largamente vera almeno nei primi anni di università) che veniva giudicato in un esame formalmente oggettivo tutto giocato sui contenuti.

Quali fossero i contenuti e il come erano stati sviluppati non era in gioco, essi erano definiti a priori e comunque adeguati. Il fatto che agli esami ci fosse un numero elevato di bocciati non era un problema, non indicava una criticità. Era così e basta, l’esame valutava solo il lavoro dello studente, non aveva altra funzione.

La pratica didattica centrale nelle università (ma per molti aspetti non era diversa la situazione nelle scuole superiori), se non unica, era la lezione cattedratica, ovvero un contesto in cui gli studenti potevano solo ascoltare il docente che dalla cattedra faceva la sua lezione più o meno teatrale o più o meno divertente. Era impossibile fare domande o comunque interagire con il docente. Sostanzialmente lo studente doveva ascoltare e (soprattutto) prendere appunti.

Non era importante che capisse, questo diventava importante solo dopo, cioè quando lo studente studiava. Di fatto lo studente era una specie di autodidatta e infatti questa era la conclusione a cui arrivavamo nei nostri documenti sulla didattica universitaria. Non mi meraviglio quindi che per noi la selezione realizzata sulla base di tali pratiche apparisse ingiusta e che, visto che veniva chiamata selezione in base al merito, fossimo contro la selezione meritocratica. Più complesso invece è spiegarsi perché tale selezione fosse considerata da noi anche selezione di classe.

Ci portavano a tale conclusione le seguenti considerazioni:

  • Quel tipo di processo didattico non sollecitava assolutamente alcuno spirito critico, anzi abituava semplicemente ad eseguire senza farsi domande.
  • Quel tipo di processo didattico era estremamente penalizzante per gli studenti provenienti dagli strati sociali inferiori. Questi infatti non potevano contare su un contesto sociale-culturale di sostegno indiretto (potevano contare solo su se stessi) e, soprattutto, dipendendo da presalario e borse di studio, per riuscire dovevano necessariamente adeguarsi a quella pesantissima situazione, ovvero accettare di non interrogarsi mai su quello che stavano facendo diventando copie dei formatori, oppure essere selezionati

L’insieme di queste considerazioni unitamente alla consapevolezza che queste si accompagnavano ad una evidente e pesante selezione sociale ci portava a definire quella selezione meritocratica una selezione classista. Vista a posteriori è innegabile che questa analisi risente di notevoli elementi di forzatura perché, nella realtà delle cose, quel tipo di pratica didattica era molto spesso semplicemente il modo meno faticoso per il docente (e probabilmente anche l’unico noto) .

Come mi ha fatto notare il Prof. Ragusa, direttore del dipartimento di fisica in uno dei tanti incontri che abbiamo avuto per preparare il nostro incontro, si trattava di un metodo di insegnamento per il docente più che per gli studenti. Ciò non toglie tuttavia che, al di la della forzatura, quel tipo di pratica aveva un suo senso dal punto di vista della selezione di classe e degli assetti di potere universitari, ma questo non vuol dire che ogni selezione meritocratica è di per se classista. Da questo punto di vista sono d’accordo con Claudio Cereda quando dice che noi non eravamo contro il merito di per sè ma tuttavia una qualche ambiguità l’abbiamo avuta (e non solo perché in diversi casi sono spuntate richieste di voti di gruppo e simili).

Alla selezione meritocratica noi contrapponevamo quella che chiamavamo una preparazione tendenzialmente egualitaria e ovviamente per realizzare questo obiettivo avevamo articolato tutta una serie di proposte e di tattiche. Ancora oggi, ogni qual volta ci ripenso, rimango meravigliato dalla grande conoscenza che avevamo delle diverse situazioni didattiche e dalla creatività con cui indicavamo soluzioni alternative a quelle istituzionali. La più importante proposta o meglio obiettivo di lotta era disarticolare (e al limite eliminare) la lezione cattedratica che volevamo sostituire con quelli che chiamavamo gruppi di studio.

Nei gruppi di studio gli studenti e il docente dovevano interagire in modo da garantire che tutti, o la maggior parte degli studenti partecipanti, apprendessero gli argomenti affrontati; da qui preparazione tendenzialmente egualitaria. Ciò era possibile se erano assicurate le seguenti condizioni:

  • Il numero di studenti non doveva essere troppo elevato (max 25)
  • Gli studenti potevano far domande durante le lezioni (anzi dovevano fare domande!)
  • I ritmi con cui dovevano essere sviluppati gli argomenti dovevano tener conto delle capacità di apprendimento degli studenti (cioè non si va avanti se un argomento non è stato capito dalla maggior parte degli studenti)
  • All’esame si portava solo quanto effettivamente svolto e non quanto previsto dal programma (con la lezione cattedratica spesso si portava quanto previsto dal programma indipendentemente da quanto svolto durante le lezioni).

L’insieme delle condizioni sopra indicate permetteva al docente di poter conoscere il reale livello di preparazione e capacità degli studenti del suo corso e di questo si doveva tener conto in sede d’esame (il tenerne conto in alcuni casi, pochi è vero, è però scivolato nella richiesta del voto di gruppo).

Questo era per noi l’obiettivo fondamentale nella lotta contro al selezione meritocratica e per una preparazione tendenzialmente egualitaria. Non siamo mai riusciti a raggiungerlo. Abbiamo lottato, occupato, abbiamo ripetutamente interrotto lezioni, discusso etc. Non l’abbiamo mai spuntata in modo significativo.

Certo abbiamo ottenuto tante cose (i corsi serali per i lavoratori studenti in diversi corsi di laurea, la sessione continua d’esame, l’abolizione di alcuni assurdi catenacci, un maggior rispetto agli esami, anche in diversi casi i gruppi di studio, ma mai in sostituzione della lezione cattedratica (sempre i gruppi affiancavano la lezione cattedratica ovvero li si voleva considerare come esercitazioni) e comunque li avevamo ottenuti praticamente solo a fisica e qualcosa a chimica. Per il resto niente.

Eppure se uno riflette su quella nostra richiesta essa tutto sembra essere tranne che una proposta rivoluzionaria. E in effetti di per sè non lo era, era solo una proposta di innovazione riformatrice (e infatti per molti dei gruppi studenteschi dell’epoca noi eravamo una specie di riformisti) che però aveva il grave potenziale difetto di distruggere con la lezione cattedratica anche l’assetto di potere allora vigente in università.

Quindi, niente non se ne parlava nemmeno! Nel ’71, nonostante tre mesi di occupazione, hanno preferito mandarci la polizia ad occupare la facoltà piuttosto che cedere su questo terreno. Purtroppo noi non eravamo pienamente consapevoli della portata della nostra richiesta, ne’ eravamo consapevoli del nostro pesante isolamento e così siamo andati a sbattere la faccia contro una realtà che era molto ma molto più forte di noi.

Ma quella nostra parola d’ordine della preparazione tendenzialmente egualitaria conteneva anche una ambiguità che non casualmente si sposava perfettamente con le tendenze egualitariste del periodo. L’ambiguità è che volevamo che tutti gli studenti avessero le stesse opportunità di poter capire gli argomenti affrontati, ma non si prendeva in considerazione il fatto che non tutti avevano voglia di farlo o erano in grado di poterlo fare. In altri termini non si prendevano in considerazione le diversità individuali.

Quest’ambiguità la si poteva probabilmente sciogliere solo stando dentro ai gruppi di studio, intervenendo in essi, anche proponendo metodologie adatte. Noi questo non eravamo in grado di farlo (e nemmeno ci pensavamo a farlo perché era una metodologia troppo riformista) nè abbiamo avuto la possibilità di farlo. Perciò capitava che la preparazione tendenzialmente egualitaria venisse interpretata in modo molto estensivo. Da qui gli scivolamenti verso il voto di gruppo che però sono stati complessivamente marginali.

Non così però è stato per gli studenti delle scuole medie dove invece l’aspetto di rifiutare la valutazione dell’insegnante in quanto tale ha avuto un peso per niente marginale e profondamente negativo con strascichi che si sono propagati anche per molti anni successivi.

Avevamo ragione sulla meritocrazia? Secondo me si era una lotta giusta contro le eccessive disuguaglianze sociali e contro un criterio selettivo di merito profondamente sbagliato!

Avevamo torto? Si su alcune questioni siamo stati ambigui e comunque non siamo stati capaci di articolare proposte adeguate allo scopo, ovvero abbiamo assecondato una tendenza egualitarista eccessiva che andava al di la della giusta esigenza di ridurre le disuguaglianze sociali e, che perdeva di vista il fatto che gli individui sono diversi e questa diversità di cui si deve tener conto, pone un problema di merito da valutare.