Esercizio di fantasia – di Roberto Ceriani

Immaginiamo una società in cui le contraddizioni e i gruppi di appartenenza sono più o meno riconducibili a due grandi classi sociali:

  • la classe A: proprietari di beni e capitali, eredi di famiglie importanti, dirigenti di vario genere, ecc.
  • la classe B: lavoratori dipendenti, piccoli artigiani, contadini, ecc.

In questa ipotetica società ognuno conosce quali sono i propri interessi e cerca di capire quali partiti politici li difendono meglio. Alle elezioni c’è un vincitore che va al governo e un perdente che va all’opposizione. Il vincitore fa scelte che favoriscono gli interessi della sua classe a discapito di quelli dell’altra.

Queste righe forse hanno generato qualche lacrimuccia di nostalgia in chi le ha lette. Anch’io, come molti di voi, questa società l’ho vista o forse ho creduto di vederla. Anch’io penso a questa società con la nostalgia di un tempo in cui gli schemi erano semplici e le decisioni chiare.

Oggi non so dire se questo mondo sia veramente esistito, ma so che certamente non esiste più. Oggi i gruppi di appartenenza sociale sono molteplici e spesso uno stesso individuo si autodefinisce pluriappartenente.

Di quella società semplice oggi sopravvivono solo alcuni residui di scarsa rilevanza, mentre le contraddizioni di classe sono molto diverse da quelle associate al tradizionale ruolo sociale.
Le sfumature di appartenenza sono così articolate in una enorme complessità sociale che non solo risulta difficilissimo capire quale rappresentanza politica esprime meglio i propri interessi, ma risulta estremamente complesso persino riconoscere quali sono veramente i propri interessi (o vogliamo ancora meravigliarci degli operai che votano Berlusconi o accanirci contro il successo elettorale del PD nel centro di Milano?).

Ci mancano ancora solidi strumenti culturali per interpretare questa realtà nuova, ma vediamo già molti spregiudicati fare scelte convenienti sul breve periodo. Non so se fanno bene, ma forse sono le uniche scelte razionali oggi possibili. Di sicuro sono scelte più razionali di quelle di chi ragiona in base a un’idea naif di società, analoga a quella immaginata nelle prime righe.

Oggi non ha più molto senso pensare a chi vince e chi perde le elezioni perché alle rappresentanze politiche dei gruppi A e B andrebbero aggiunte quelle dei gruppi C, D… Z e nessuna forza può più rappresentare una qualsiasi maggioranza sociale in una società complessa e frantumata. Non è un caso se sempre più frequentemente in tutta Europa nessuno vince le elezioni.

Oggi, più che lavorare per fare vincere una proposta generale di società, ha più senso sforzarsi di capire in quale mondo nuovo ci troviamo e rendersi conto che vincere o perdere è ormai una questione secondaria. E’ molto più importante sforzarsi di sedere attorno a un tavolo con chi rappresenta decine di interessi sociali diversi, in reciproco conflitto nelle stesse persone, per tentare una ricomposizione accettabile che non danneggi troppo le sorti della maggioranza.

Oggi occorre il coraggio di fare una politica di piccolo cabotaggio, basata su compromessi, contraddittoria…

E’ questo il motivo per cui sostengo la necessità di un accordo fra PD e CinqueStelle. Un accordo per affrontare alcuni problemi affrontabili e ridurre lo sbandamento e l’emarginazione di un Paese ormai alla deriva in un mondo globalizzato. Non sarà un grande risultato, ma sarebbe almeno un tamponamento del precipizio in cui ci siamo cacciati.

I CinqueStelle non mi piacciono e non mi piace il loro continuo cambiare idea, però riconosco che non sono tutti uguali e che i continui cambiamenti di posizione hanno un elemento in comune: sono cambiamenti unidirezionali, progressivamente verso scelte più realistiche. Sarà poco, ma non mi piace negarlo.

Non mi interessa parlare di assurde alleanze e non mi interessa fare calcoli politici sulle convenienze elettorali future. Mi interessa di più capire un po’ meglio il presente e cercare di immaginare a grandi linee il futuro.

Credo però che prevarranno altre logiche che ci porteranno solo a rinviare l’ingovernabilità alle inutili elezioni d’autunno. Peccato che nel frattempo il mondo sarà andato avanti, in un’altra direzione, e ci ritroveremo in autunno a scoprire solo di avere perso un anno. O forse qualcuno si accontenterà di guardare con la lente qualche variazione percentuale di un elettorato ormai privo di prospettive in cui credere?