Il bambino che sognava la fine del mondo – Antonio Scurati (recensione)

La lettura di questo libro mi è stata suggerita dall'intervento fatto da Antonio Scurati al TG1 a commento dei fatti di Lloret de Mar. Per giorni abbiamo continuato a rivedere, con la memoria, il filmato allucinante dell'uccisione a calci di Niccolò Ciatti circondato da una marea di giovani italiani che riprendono la scena con il telefonino e proprio all'inizio del romanzo (finalista al premio Strega del 2009) Scurati scrive:

Il XX è stato il secolo della violenza della Storia, il XXI sembra avviato a diventare quello della violenza della cronaca.

L’attentato dell’11 settembre 2001, di cui oggi ricorre il sesto anniversario, ha fatto da spartiacque tra queste due epoche della violenza. Appartiene per un verso alla violenza della Storia, per un altro a quella della cronaca.

Una delle caratteristiche della violenza della cronaca è proprio quella di ridursi a una congerie di fatti minuti e dispersi, di negarsi al pensiero, rendendo apparentemente impossibile un loro inquadramento dentro una visione del mondo, una comprensione che abbracci il passato, il presente e il futuro della nostra vicenda individuale e collettiva. La Storia, invece, colloca ogni singolo accadimento, per quanto apparentemente insignificante, dentro il quadro di un processo più ampio che lo accoglie, lo spiega e lo giustifica. La cronaca lo abbandona a se stesso, proibendo che la sua insulsa particolarità venga riscattata da un racconto più grande e, magari, anche da un futuro migliore.
Durante il Novecento, al tempo della Storia, milioni di militanti di diverse ideologie hanno agito e patito in prima persona per le loro convinzioni. Rispetto alla violenza della cronaca, invece, l’uomo è sempre passivo: o vittima impotente o spettatore inerte.


Io sono un figlio del XX secolo o meglio della sua seconda metà e le tragedie della prima metà le ho imparate dai libri di storia e dai documentari. Ancora oggi non riesco a stacccarmi da essi perché quel processo più ampio (che spiega e giustifica) mi affascina e mi sconvolge; si tratti del nazismo, del comunismo, della prima guerra mondiale o della storia italiana degli anni 70.

Poi è venuto il secolo della violenza della cronaca in cui le guerre sono piccole guerre e in cui sembra smarrirsi la distinzione tra realtà e finzione. Il romanzo di Scurati è dedicato a questo, alla manipolazione di massa e al rapporto tra la nostra razionalità e le strutture del profondo, quelle che hanno a che fare con la nostra infanzia e con l'inconscio.

Protagonista è una grande vicenda di presunta pedofilia, collocata a Bergamo, inventata di sana pianta ma piena zeppa di riferimenti a fatti realmente avvenuti altrove (come i coniugi assassini di Erba, o quella di don Gelmini o delle maestre di Rignano Flaminio) e in cui il protagonista fa il professore universitario a Bergamo e insegna le stesse cose (sul mondo dei media) che insegna Scurati, in cui ci sono il vicedirettore della Stampa Gramellini, Enrico Mentana e Matrix, la pedofilia dentro la curia e in cui c'è una descrizione perfetta dell'ambiente di provincia, di città alta e città bassa, del "quartiere degli immigrati", del mondo della scuola con le sue dinamiche.

Il bambino che sognava la fine del mondo è lo stesso Scurati che al termine di ogni capitolo ci racconta in corsivo ciò che emerge dai suoi ricordi di infanzia e, per non lasciare troppi dubbi, mette in copertina l'immagine di un bimbo che è la copia (traslkata nel tempo) dell'autore.

Leggendo avremo l'occasione per ragionare sui media, sul mondo dei docenti universitari, sui bar di provincia, sulle Dirigenti Scolastiche impegnate nella integrazione all'Istituto Comprensivo Rodari, sulla difficoltà di Scurati ad accettare l'idea di divenire padre.

C'è anche il come va a finire ma non ve lo racconto. Meglio inserire qualche perla di riflessione sul mondo pescata qua e là.


la temperanza

Anche noi laici, forse soprattutto noi, ci auguriamo che la Chiesa rimanga fedele a se stessa, alla sua più alta ispirazione, e custodisca la castità dei suoi preti, garantendo ai nostri figli e alle nostre figlie uno spazio preservato dalla furia travolgente della libido sessuale. Ci auguriamo che la Chiesa custodisca questo dono prezioso fin dove possibile e, quando anche la castità fosse un traguardo impossibile, salvi almeno la temperanza, antica virtù cristiana. Sarà allora una Chiesa con meno aspiranti santi e con più uomini probi. Una Chiesa ancora capace di scandalizzarsi perché memore dello “scandalo” su cui si fonda: Gesù Cristo, il Dio che si abbassa fino a incarnarsi nell’uomo, non l’uomo che pretende di innalzarsi fino a farsi Dio.


il rigore e il pasto di polvere

Ero un cattivo professore? Me lo chiedevo in continuazione e non sapevo rispondere. Quel che sapevo era che la mia indulgenza era conseguenza di un’abdicazione collettiva. Se avessi dovuto applicare i miei personali criteri di rigore alla valutazione degli allievi, ne avrei dovuti bocciare nove su dieci. Quotidianamente laureavamo in Lettere studenti che non avevano mai letto né Foscolo né Gadda, in Scienze della comunicazione studenti che non sapevano chi fosse Hitchcock, e in tutte le discipline studenti che non riuscivano a esprimersi in un italiano corretto, né per iscritto né oralmente. Quel che sapevo è che non soltanto i nostri diplomati, ma perfino i nostri laureati in molti casi erano semianalfabeti di andata e di ritorno. Mezzo secolo di benessere non era bastato. A sessant’anni dalla fine della guerra eravamo ancora un Paese culturalmente arretrato. Tutti i dati lo confermavano. Al giro del millennio, in Italia aveva il diploma appena il 42% della popolazione adulta, contro una media europea del 59%; solo il 9% degli italiani adulti possedeva una laurea, mentre nel resto d’Europa si arrivava al 21%. Sentendosi personalmente vilipeso dalla situazione, di tanto in tanto qualche mio collega s’eccitava alle dichiarazioni di questo o quel ministro che prometteva di raddoppiare il numero delle bocciature, di reintrodurre i grembiuli nelle scuole, di rieducare i docenti fannulloni. Allora il collega, tentato dal demone reazionario, si concedeva brevi orgasmi di rancorosa soddisfazione insultando gli studenti più impresentabili. Ma in questo modo si masticavano illusioni. Illusioni e bile gialla. Un pasto di polvere.


le vittorie che sanno di sconfitta

Non ci si poteva congedare da tutto ciò senza malinconia. Gente come Barbieri, come me, chiedeva soltanto che ci fosse riconosciuto per legge il diritto a praticare una vita affettiva sul modello della connettività di rete. Volevamo il contatto, il congiungimento e l’unione, ma senza vincolo. Pretendevamo di poterci unire e disunire sessualmente, affettivamente, socialmente, e in pieno diritto, a un altro essere umano, con la facile immediatezza con cui ci si connette o disconnette da Internet. La chiedevamo, questa libertà, la pretendevamo, e l’avremmo ottenuta. Presto o tardi l’avremmo vinta, questa battaglia, noi laici, progressisti e materialisti, noi atei, edonisti e nichilisti. L’avremmo vinta ma, come si diceva nel finale di un vecchio film hollywoodiano, ci sono vittorie che sanno di sconfitta. Questa sarebbe stata una di quelle.


la Tv dal tragico all'osceno

Da una quindicina d’anni a quella parte, l’ideologia di un nuovo realismo si era impossessata della televisione, e di lì era dilagata ovunque. Si trattava, però, di un realismo di fuochi fatui su tombe scoperchiate: in esso trionfava non ciò che si fingeva reale ma ciò che c’illudeva di esserlo, e per farlo sostituiva l’osceno al tragico. Una iperfinzione che per darci prova della sua autenticità sprofondava sempre più nei toni crudi della vita, nel sangue, nello sperma, rimestava nel torbido, nell’abietto. Era un’orrida rappresentazione del mondo che per farci credere di essere il mondo ce ne gettava in faccia il cadavere, che per provarci di essere viva, di essere vita, ci esibiva continuamente certificati di morte.


la pedofilia e il contagio dichiarativo

La ricerca aveva così dimostrato in maniera inequivocabile che, se interrogati ripetutamente, i bambini, per sottrarsi all’angoscia da interrogatorio, cercano di rispondere in modo da soddisfare le attese degli adulti, anche quelle inespresse. Poi, nel corso del tempo, diventano sempre più convinti della veridicità di ciò che hanno raccontato. Non diversamente da come noi adulti, troppo spesso, diventiamo l’uomo o la donna che immaginiamo di essere. Nel caso di Bergamo, così come in altri casi precedenti, poteva essere avvenuto un “contagio dichiarativo”. I genitori, dopo essersi scambiati informazioni assunte come vere, terrorizzati da immagini di stupro, potevano aver innescato nei figli fantasie allineate con le proprie aspettative, piuttosto che con la realtà degli accadimenti. In questo modo, in totale buona fede, la piaga della suggestione diventava autosuggestione. Il cerchio onirico si chiudeva. L’effetto, rinculando, produceva la propria causa.


disorientamento

Quei ragazzi che blateravano per qualche secondo di un possibile soggiorno all’estero, per poi accennare subito dopo, e senza la minima convinzione, a un improbabile corso di specializzazione, a un lavoretto part-time, oppure a un impiego all’aeroporto di Orio al Serio e via dicendo, quei ragazzi che, ostentando un cinismo di cui non erano affatto all’altezza, biascicavano formule insensate come “esperto di marketing”, “ideazione, programmazione e organizzazione di eventi culturali”, che si affidavano a programmi minimi di vita riducibili a insulsi protocolli linguistici, del tipo “conoscere qualcuno”, “entrare nei giri giusti”, “avere una piccola dritta” – quei ragazzi, purtroppo per loro e per noi, non si sentivano più, romanticamente, precari nell’esistenza. Si sapevano, ben più prosaicamente, precari nella società. E la prosaicità a vent’anni, io mi ostinavo a trovarla francamente delittuosa.
Il loro precariato era un Paese straziato, dove nessuna croce mancava, ma ognuna stava accanto all’altra come il frantume di una totalità perduta. La vita di ciascuno di noi era divenuta oramai un fatto privato. Ci si poteva girare attorno, ma il guaio era questo.


Antonio Scurati

Il bambino che sognava la fine del mondo

Bompiani, 2009, 300 pag. 12 € disponibile anche in ebook