Avanti – Matteo Renzi – recensione

Chissa se Matteo Renzi si è posto il problema nella scelta del titolo. Il giornale del Partito Socialista Italiano era l'Avanti! con il punto esclamativo che iniziò le pubblicazioni nel 1896 riprendendo il nome dall'organo dei socialdemocratici tedeschi. Si pensava allora all'ascesa inevitabile delle classi lavoratrici con una visione positivistico-ottimistica, mentre Matteo Renzi, più di un secolo dopo prende atto del fatto che il secolo breve ha cambiato il mondo, le dinamiche e le prospettive. Dunque Avanti è riferito all'Italia, Avanti con l'Italia, proviamo a dare una mano nella direzione giusta perché l'Italia non si ferma.

Matteo Renzi si racconta dopo la legnata del referendum e dalla lettura di questo libro esco con le stesse certezze e gli stessi dubbi che avevo prima di iniziare la lettura, però mi è piaciuto.

Le risposte ai denigratori del giorno dopo giorno, a quelli della serie è un contaballe, è uno sbruffone, è un pallone gonfiato, ci sono tutte, ma anche dopo il racconto-riflessione della sconfitta molti italiani continuano a vederlo come il nemico pubblico numero uno e a farci sopra l'ironia.

Il libro ci racconta le motivazioni di una politica, le pulsioni dell'anima che spingono a ricominciare, i riferimenti culturali eterogenei che ti consentono di dire che non è un cattolico democratico di derivazione democristiana, non è un figlio della socialdemocrazia, non è un liberal socialista, non è certamente un post comunista, non è un figlio di tanta famiglia destinato ad emergere per ragioni dinastiche, non è stato messo lì dai poteri di forti. Ci trovi dentro tante di quelle cose ma quella eterogeneità ti fa pensare a qualcosa di nuovo e basta riflettere sul fatto che, dopo tante chiacchiere a sinistra, è un segretario proveniente dalla Margherita a portare la scialuppa degli eredi del Pci nella famiglia del socialismo europeo.

Ecco, direi di partire dai poteri forti; questi gli sono estranei tanto quanto i salotti romani e le burocrazie giuridico-culodipietra di certi ambienti ministeriali. Quando ha incominciato gli era estraneo un po' tutto di ciò che i politici di lungo corso amano frequentare e il il suo carattere di rinnovamento (che ha avuto il suo culmine con il boom delle elezioni europee) nasce da qui. L'unica certezza che viene fuori ad ogni piè sospinto è l'eredità dello scoutismo, un modo di concepire la vita a partire dalle piccole cose e dagli stili di vita.

Il libro è formato da una premessa e cinque parti parti: Una storia strana 1. Ieri 2. I mille giorni 3. A testa alta nel mondo 4. Il futuro della sinistra 5. Domani – e ognuna di esse è caratterizzata da un mix di aneddoti, retroscena svelati, riflessioni, considerazioni strategiche. Per quanto riguarda gli aneddoti e i retroscena ho trovato particolarmente gustosi quelli che hanno a che fare con la rottura del Patto del Nazzareno in occasione della elezione di Mattarella (con gli accordi tra Barlusconi, D'Alema (rieccolo) e la sinistra del PD), quelli sui rapporti con i leader europei, i rapporti all'interno della famiglia e il ruolo della moglie Agnese, il rapporto controverso con il padre, i riferimenti al nonno Adone quando si ricostruisce la vicenda dello stai sereno ad Enrico Letta, o il primo ministro di uno dei paesi europei importanti del Nord Europa, quelli che ironizzano sul carattere un po' levantino degli Italiani che, dopo un buongiorno e buonasera, gli presenta la prima raccomandazione made in Consiglio Europeo.


Sono nipote di un sensale. Mio nonno Adone, orfano da quando aveva sei anni e dunque costretto a lavorare fin da bambino per mantenere i fratellini, vendeva animali nella Toscana contadina del primo dopoguerra. Il suo insegnamento resta scolpito nella mia testa: “Quando dai la mano a qualcuno, quello vale più di un contratto. Non c’era bisogno di notaio ai nostri tempi, Pippo”. Mi chiamava Pippo, mio nonno. E adesso che ci penso non ho mai saputo il perché.


Mentre leggevo ho postato su Facebook alcuni passi che mi sembravano significativi e ci ritorno sopra incominciando con l'Europa insipida degli euroburocrati. E' del tutto evidente che non ce la farà Matteo Renzi da solo, che non ce la farà quel che resta della socialdemocrazia, ma è altrettanto evidente che bisogna ritornare ai princìpi ispiratori, alla forza e credibilità dei paesi che l'hanno messa in piedi e, se devo metterci un po' del mio, bisognerebbe avere un po' più di coraggio e di innovazione nel guardare alla Russia perché se ragioniamo in chiave mondiale c'è un problema di massa critica (ci siamo imbarcati i parenti poveri dell'ex impero sovietico in funzione di frenatori e non affrontiamo il problema della grande madre Russia con il suo terriorio, le sue risorse, la sua storia e la sua cultura).


La nostra posizione è chiara: siamo dalla parte dell’Europa, il più grande progetto mai realizzato nella storia delle istituzioni universali. Ma non ci piace un modo di procedere che sta rendendo il Vecchio continente più simile a una macchina burocratica che non al grande sogno dei padri fondatori. “Europa sì, ma non così,” diciamo sintetizzando.

Contrastiamo la visione euroscettica dei populisti, visione sbagliata e sballata. Ma siamo altresì persuasi che il principale aiuto ai populisti arrivi dagli eurodogmatici, quelli per cui se lo dice un funzionario di Bruxelles allora è la verità, punto. Capita a tutti i grandi progetti dispersi dopo anni nelle secche della quotidianità. E capita, come scriveva un esponente della Scapigliatura milanese, Carlo Dossi, in Note azzurre, che “l’utopia di un secolo spesso diviene l’idea volgare del secolo seguente”. Non è volgare l’Europa dei tecnocrati: è semplicemente insipida, perde il suo sapore. Ecco perché c’è un grande bisogno di occuparsi del rilancio continentale almeno quanto ci occupiamo del bilancio nazionale. Perché di qui passa il futuro.

Quando arrivo al primo Consiglio europeo sono reduce da qualche incontro con i colleghi del Partito socialista europeo, ma di fatto non conosco nessuno. Ho una visione incantata delle istituzioni europee, un amore profondo per i grandi statisti che hanno costruito l’Europa; ben presto, però, realizzo che se Adenauer, De Gasperi e Schuman potessero vedere il livello micragnoso delle discussioni sulla redazione del testo dei documenti, non dico che diventerebbero euroscettici, ma certo qualche domanda se la farebbero. Passiamo intere giornate a litigare sulle virgole di una dichiarazione finale che leggeranno meno persone di quante hanno contribuito a scriverla. Sono limature di testo che servono a orientare conferenze stampa post-riunioni del tutto inutili se non a giustificare il viaggio – doveroso – della stampa. Ma nel 99% dei casi la montagna non partorisce nemmeno il proverbiale topolino: produce solo aria fritta, che gira nella bolla autoreferenziale del Palazzo Justus Lipsius.


Renzi insiste testardamente nel difendere la necessità di stare dentro questo PD che crea, e gli crea, tanti problemi e lo fa pur nella consapevolezza che bisogna cambiare numerosi moduli e modelli organizzativi. Se ne è discusso in occasione del recente congresso e a suo tempo ho detto la mia Il mio congresso del PD.

Renzi è persona nata dentro le tecnologie della informazione e della comunicazione e dunque, con tutti i loro limiti, pensa ai social network come a qualcosa dentro cui bisogna stare e saperli utilizzare bene. Un partito che sappia riscoprire gli SMS ricordando che quell'acronimo significa anche la solidarietà delle Società di Mutuo Soccorso. Dunque il PD ci stia dentro, la partita è importante ma non la si gioca solo lì. La constatazione è fin troppo ovvia, ma la mia esperienza è che oggi quel grande elefante che si chiama PD ha bisogno di essere frustato, di imparare a correre, di saper leggere di più e meglio la modernità, di saper vedere che è giusto ciò ciò che è giusto e non che è giusto ciò che è targato con il marchio PD-DOP. Se si vuole vincere la sfida l'elefante si deve trasformare in un cavallo berbero e occorrono dei fantini che sappiano montare a pelo se occorre (stasera qui a Siena c'è il Palio).


Sull’organizzazione: il Pd ha un tessuto di relazioni sul territorio che è unico in Italia e ha pochissimi equivalenti a livello europeo. Sono migliaia di circoli, feste, eventi, volantinaggi. Sono migliaia di persone e volontari, perché la politica è fatta con il sangue e con l’anima, non con le alchimie di qualche addetto ai lavori che con le piccole polemiche quotidiane cerca di distruggere i sogni di milioni di persone. Tuttavia, dobbiamo essere capaci di coinvolgere di più e meglio la nostra gente.

I nostri circoli devono essere le bocciofile del Ventunesimo secolo: luoghi di incontri e relazioni umane. Perché poi, alla fine, questo è ciò che conta davvero. Viviamo un’epoca in cui siamo connessi con tutti ma rischiamo di non essere amici di nessuno. Del resto, l’emergenza di dover combattere “la solitudine del cittadino globale” era una delle più interessanti riflessioni di Zygmunt Bauman all’inizio di questo secolo. Siamo così vicini sui social, ma le grandi città hanno sempre meno spazi fisici che permettano di incontrarsi. Abbiamo bisogno di luoghi che diano gambe all’anima, dove ci si possa parlare, non solo scambiare file. Abbiamo bisogno di recuperare il patrimonio delle Sms, acronimo che, per i più giovani, sta per messaggino telefonico (a dirla tutta già sorpassato), ma che per molti della vecchia guardia indica le Società di mutuo soccorso.

Abbiamo bisogno di iniziative sul territorio: dalle tradizionali Feste dell’Unità alle magliette gialle inventate dal Pd milanese per ripulire la città, e poi esportate in tante altre città, a cominciare da Roma e Napoli, abbiamo bisogno di fare volontariato, di segnare una presenza in mezzo alla gente. Abbiamo bisogno di stare insieme, condividendo non solo gli status altrui sui social ma soprattutto gli stati d’animo reali, vivendo le stesse esperienze degli altri compagni di strada. Riportare i cittadini ad avvicinarsi alla politica e riportare la politica ad avvicinarsi ai cittadini: questo il compito dell’organizzazione di un partito pensante del Ventunesimo secolo. Di un partito chcerchi di tenere insieme non i capicorrente sempre più lontani dalla realtà, abituati a comandare nel modello partitico asfittico degli ultimi anni, ma i cittadini. Che scelga di uscire dal recinto dell’autoreferenzialità per immergersi nei problemi reali delle persone.

E questo deve essere fatto coinvolgendo il mondo del sociale, del terzo settore, in un processo osmotico che Tom Benetollo, storico presidente dell’Arci, descriveva così in uno dei suoi ultimi interventi: “Il cuore pulsante del processo di rinnovamento della politica deve stare nel sociale. I soggetti centrali devono essere sociali. Quando sottolineate che da bocciofila abbiamo fatto diventare l’Arci motore del movimento per la pace e contro il liberismo è come se sottovalutaste il ruolo importante delle bocciofile come luoghi di socialità”.

Era il 2004, io avevo appena lasciato l’esperienza associativa dentro lo scoutismo cattolico per il primo impegno diretto in politica alla guida della Provincia di Firenze. Quel dibattito, così forte allora nel mondo sociale, è più vivo che mai oggi, quasi quindici anni dopo.

Ma nel frattempo – fuori – è cambiato il mondo. E soprattutto il mondo della comunicazione digitale. I social cambiano la modalità di gestione della comunicazione politica lasciando spesso scatenare gli istinti peggiori di singole persone, che vivono il commento sulla piazza virtuale di Facebook o Twitter come il proprio sfogatoio personale, o veicolando addirittura raffinate strategie di comunicazione gestite da realtà straniere. Dopo il primissimo entusiasmo per internet siamo entrati in una fase nella quale sembra che i social network siano la causa di tutti i mali della democrazia, della quale minerebbero le basi a colpi di gruppi chiusi e fake news. Ovviamente, nessuno sottovaluta questi rischi e noi stessi avremmo dovuto denunciare per tempo l’incredibile sfilza di attacchi ricevuti, non solo dall’Italia, durante la campagna elettorale per il referendum. Ma prima di fasciarsi la testa e di rassegnarsi all’inesorabile declino della civiltà così come l’abbiamo conosciuta finora, però, a me sembra valga la pena di fare qualche ragionamento in più e avere una reazione meno superficiale.

Innanzitutto va detto che il lamento per i danni irreversibili che una nuova tecnologia è destinata aintrodurre nella società non è un fenomeno nuovo, ma ha alle spalle almeno duemila anni di storia. Quando la scrittura iniziò a propagarsi nelle città-stato dell’antica Grecia, Platone – tra gli altri – si preoccupò per il declino della cultura orale e per gli effetti sulla memoria degli uomini. Se avessero accettato di affidare i loro ricordi e le loro conoscenze a un supporto esterno, le persone non avrebbero più avuto bisogno di imparare e di ricordare nulla, e la loro cultura ne avrebbe inevitabilmente risentito.

Una polemica che ricorda quasi alla lettera gli argomenti di chi, oggi, sostiene che Google ci renda stupidi e ignoranti. Anche durante le ultime elezioni americane è esplosa la polemica sul ruolo dei social network nel propagare informazioni false. È vero che alcuni dati fanno oggettivamente riflettere. La notizia più condivisa negli Usa della campagna 2016 per la Casa Bianca era un falso: il presunto appoggio di papa Francesco a Donald Trump. E se si mettono in fila le dieci notizie false più condivise in rete durante la campagna elettorale, si vede che sono state molto più diffuse delle dieci notizie vere più condivise.

Generatori di falsi, fabbricatori di odio sono peraltro presenti anche in Italia, con una potenza di fuoco non banale. Eppure continua a non convincermi – e non mi convincerà mai, credo – l’ardita tesi secondo cui i social media siano la tomba della democrazia. Dobbiamo separare il segnale dal rumore, secondo le tesi di Nate Silver, e non considerare una minaccia per i diritti dell’uomo uno strumento che dà la possibilità a tutti di esprimersi con molta più facilità e rapidità rispetto al passato. Pensandoci bene, i media e la politica sono sempre stati “social”.

In un libro straordinario – la cui lettura mi è stata suggerita da Giuliano da Empoli, una delle personalità più brillanti che accompagna da anni il mio lavoro – che si intitola I tweet di Cicerone, Tom Standage ha

ricostruito i primi duemila anni di storia dei social media. Partendo dall’intreccio di letture, discorsi pubblici e voci di corridoio che costituivano l’ecosistema informativo nel quale si muovevano Cicerone e gli altri protagonisti della politica nell’antica Roma. I mezzi di comunicazione, dice Standage, sono sempre stati sociali ed è solo a partire dalla metà del Diciannovesimo secolo che è comparsa la categoria dei mass media i quali, anziché essere basati sulla diffusione orizzontale, trasmettono il loro messaggio dall’alto albasso. L’avvento dei mass media ha segnato un progresso decisivo in termini di diffusione dell’informazione e della cultura, ma ha anche permesso l’affermazione dei regimi totalitari del Ventesimo secolo: il fascismo, il nazismo e il comunismo.

Ecco perché ci andrei piano con le accuse ai social media di rappresentare una minaccia per l’umanità. La verità è che ci troviamo davanti a un ecosistema nuovo, molto complesso, nel quale dobbiamo imparare a muoverci se vogliamo essere in grado di difendere i nostri valori e le nostre idee. In questo mondo scegliamo di stare dalla parte del buon senso e della riflessione pacata, senza rincorrere i like. Senza trasformare le pagine di Facebook in una sorta di curva sud delle emozioni dove vince – ovviamente – chi la spara più grossa


Nelle diverse pagine del libro Matteo Renzi cerca di rispondere alle domande che lo scrittore Alessandro Baricco gli pose in diverse occasioni: “Ma mi spieghi perché vuoi continuare a giocare in quello stadio lì? … Tu sei una squadra che vince in casa, sempre. In trasferta, quasi dappertutto. C’è un unico stadio in cui la tua squadra perde. È lo stadio del Pd. Mi spieghi perché ti incaponisci a giocare sempre lì?”.

Le argomentazioni sono quelle della lealtà, della fiducia nel popolo delle primarie, una specie di tormentone che salta fuori nei momenti di crisi, ma la domanda è legittima: siamo sicuri che non sia opportuno passare la mano, prepararsi ad una fase di opposizione che sia anche di costruzione di una cosa nuova. Se ne è discusso dopo l'esito del referendum, poi è prevalsa un'altra cosa, la stessa pur se con nomi e forme diverse: la continuità di governo con Gentiloni, il senso di responsabilità, la continuità di una storia, … Fatta la scelta è inevitabile andare all'appuntamento con le elezioni della primavera 2018, quelle alla scadenza naturale della legislatura.

Nell'ultimo capitolo, domani, Renzi ci parla del dopo congresso, della scelta di riprovarci in nome dell'Italia:


Uscire da un luogo di potere senza nulla: è un’esperienza che un uomo dovrebbe provare almeno una volta nella vita. Niente indennità, niente immunità, niente vitalizio. Uscire dal palazzo riconoscenti per ciò che è stato, perché noi siamo della corrente di quelli che dicono grazie quando se ne vanno, non di quelli che mettono il broncio perché hanno un comodo capro espiatorio da individuare. Tornare tra la gente accompagnati dal coraggio e dalla voglia di non abbandonare l’Italia alla rassegnazione. Dal desiderio di rimettersi in marcia, in cammino, come se fosse il giorno uno, con la stessa fame di sempre.

Sono esperienze che andrebbero provate, ma non credete a chi vi dice che sono facili. In tanti ti vedono vulnerabile, ferito, senza difese. Gli avversari sentono l’odore del sangue e si buttano a capofitto. Giustamente, direi. È il loro mestiere, sono i tuoi avversari: “Approfittiamone,” è il loro messaggio, “poi se quello torna lo conosci come è fatto”. Ma se dagli avversari questo te lo aspetti, sono gli amici a volte a sorprenderti. Quante volte nei capannelli in Transatlantico parlamentari e cronisti ti danno per bollito, finito, politicamente morto. Quante volte persino qualche deputato a te vicino sussurra dubbi, diffonde pessimismo, esprime sconforto.

Dopo il referendum e la decisione di dimettermi dalla guida del governo e del partito, però, ho passato mesi che non auguro nemmeno agli avversari più accaniti. Uno straordinario stress test per il carattere.

Una caccia all’uomo senza esclusione di colpi sul fronte politico, giudiziario, mediatico e personale si abbatte su di me, e ancor prima di riuscire a domandarmi se davvero merito tutto quest’odio devo reagire, riprendermi, ripartire. Sul fronte politico, si consuma una scissione costruita a mente fredda con l’unico obiettivo di farmi fuori. Chiedo il congresso e rilanciano con una conferenza programmatica. Offro la conferenza programmatica e vogliono le primarie. Vado alle primarie e loro fanno la scissione. E quando vinco le primarie, comunque dal giorno dopo riparte il film di chi vorrebbe ignorare il giudizio espresso da due milioni di cittadini.

Sul fronte giudiziario, pezzi dell’apparato statale vengono accusati di costruire prove false con l’unico obiettivo di coinvolgermi in un presunto scandalo e di arrestare mio padre, che nel frattempo viene pedinato come un camorrista mentre va agli incontri di lavoro. Temo che non sia ancora sufficientemente chiara la gravità dello scandalo: rappresentanti delle istituzioni che lavorano per manipolare prove contro di te e la tua famiglia. E lo fanno mentre sei alla guida del governo della Repubblica! Qualcuno prima o poi chiamerà questa cosa con il suo nome: atto eversivo. Mi sembra importante che resti agli atti lo stupore prima ancora che l’amarezza, perché la gravità di questi fatti non può scorrere via nell’indifferenza.

Sul fronte della comunicazione, si scatena un assalto alla diligenza finalizzato a mettere in discussione i risultati ottenuti nei mille giorni del mio governo. Subito dopo le dimissioni, parte il ritornello nauseante del “bisogna mettere in sicurezza i conti”, salvo poi scoprire che le cose vanno molto meglio di come sono state raccontate, e che abbiamo lasciato un gruzzolo di denaro da investire e decine di riforme che producono nel paese crescita e fiducia. Nei mesi scorsi ho letto e sentito dire che, per colpa dei nostri debiti, il governo Gentiloni avrebbe dovuto aumentare l’Iva e il prezzo della benzina e introdurre una tassa sullo zucchero. Alla fine si è scoperto che non solo non c’erano buchi di bilancio, ma addirittura era a disposizione un tesoretto, parola orrenda ma chiara, di 47 miliardi di euro da spendere in investimenti.

...

Quello che tra gli addetti ai lavori ancora in tanti, troppi, non hanno colto è che io non vivo affatto ossessionato dall’idea di tornare a Palazzo Chigi. Tornerò? Non tornerò? Fra un anno? Fra tre? Chi lo sa. A quarantadue anni, questo è l’ultimo dei miei pensieri. E comunque lo decideranno gli elettori, non gli editorialisti. I voti degli italiani, non i veti dei partitini. Ciò che davvero mi assilla è che c’è ancora un futuro da scrivere, una pagina bianca di idee per l’Italia tutta da completare, e vorrei che questa fosse considerata la priorità per il paese. Il problema non è cosa farò io da grande, ma cosa farà l’Italia.

...

La politica è bellissima. Ma se sei un uomo pubblico devi rendere conto di tutto quello che fai, non hai il diritto di trascurare nessuno, non puoi dirti: ok, adesso stacco per un po’. Volevo solo vivere, fuori, per i fatti miei, dopo mille giorni intensi a Palazzo Chigi e dopo dieci anni di servizio a Firenze. E volevo un po’ di tranquillità, prendermi qualche weekend per leggere dei libri, tornare al cinema, o più semplicemente preparare il triathlon. Cosa che comunque – costi quel che costi – prima o poi farò.

E allora diciamolo, chi ce l’ha fatto fare. Una impressionante mobilitazione delle ore post-referendarie. È uno tsunami di affetto inatteso nei toni e nelle quantità. La gente ci ferma a scuola, in strada, al supermercato, fuori dalla chiesa. Oltre ventimila email il cui succo è: “Tu non hai il diritto di decidere da solo di mollare. Perché, che tu ne sia o meno consapevole, ormai rappresenti anche noi. I desideri che abbiamo per i nostri figli. Non puoi decidere il tuo futuro da solo”.


Non so se ce la farà, inizio a pensare che servirà un altro scossone e che che quelli che scendono e risalgono sull'autobus perché sono interessati alla politica che ti fa campare di politica sarebbe opportuno non farli risalire. I conti economici e quelli sociali iniziano a promettere bene ma se non si fa una seria scelta, di tipo maggioritario nel paese (intendo un patto per la democrazia tra l'area del PD e le forze politiche del centro destra moderato), per mettere all'angolo il populismo non se ne esce. Restano alcuni mesi e vediamo ciò che succede ma lascitemi concludere con quella che per qualcuno sarà una bestemmia mentre, per me, è una constatazione positiva è dai tempi del Craxi statista che l'Italia non aveva più un leader politico all'altezza del suo rilancio interno e internazionale. E io sono dalla sua parte.

Naturalmente si parla di tanto altro: dei migranti, degli 80 euro, della legislazione sul lavoro, dei giovani, della scuola … comprate il libro e leggete.


Matteo Renzi

Avanti – Perché l'Italia non si ferma

Feltrinelli, 2017 240 pag, 16 € disponibile anche in ebook