caro Fantocci – tra i glicini e il sambuco il re si dileguò
E' morto, ha vissuto più di 80 anni ed è morto a causa di un diabete trascurato. Ne conosco e ne ho conosciuti.
Ne stanno parllando molto e il clamore della sua morte ce lo consegna come un grande del nostro cinema‚ più ancora del nostro costume; gli accade, ma questa volta subito, ciò che accadde a Totò.
Hanno già scritto tante cose sul fatto che ha cambiato il nostro linguagggio, sull'averci raccontato tante verità sulle aziende, sulla organizzazione interna, sugli aspetti autocontraddittori del proletariato e della lotta di classe, sull'aver descritto il leone e il codardo che sono in noi.
In questi giorni sto rilegggendo il libro autobiografico di Maurilio Riva (se i muri potessero parlare) in cui si racccontano gli oltre 30 anni alla Siemens di Castelletto e in alcuni passagggi (le donne‚ gli ingegneri‚ la pausa caffè‚ gli amori) mi è tornato in mente l'Ugo nazionale.
A metà degli anni 80 ci fu il problema del figlio devastato dall'eroina, me ne ricordo perchè in quel frangente il ragionier Fantozzi‚ già famosissimo‚ si presentò alle elezioni con Democrazia Proletaria a marcare la soitudine di chi in questa società si ritrova con un problema. Oggi quel figlio mi è apparso un po ingeneroso nelle dichiarazioni a cadavere caldo (un padre difficile‚ un padre assente‚ …).
Sul piano emozionale la sua morte mi ha colpito di più di quella di Dario Fo: più defilato e più coerente. Con balzo da leone in sella si lanciò (testo di Paolo Villaggio – musica di Fabrizio De André 1962)
Re Carlo tornava dalla guerra
lo accoglie la sua terra cingendolo d'allor.
Al sol della calda primavera
lampeggia l'armatura del Sire vincitor.
Il sangue del Principe e del Moro
arrossano il cimiero d'identico color
ma più che del corpo le ferite
da Carlo son sentite le bramosie d'amor.
"Se ansia di gloria, sete d'onore
spegne la guerra al vincitore
non ti concede un momento per fare all'amore.
Chi poi impone alla sposa soave
di castità la cintura, ahimé, è grave
in battaglia può correre il rischio di perder la chiave".
Così si lamenta il re cristano
s'inchina intorno il grano, gli son corona i fior.
Lo specchio di chiara fontanella
riflette fiero in sella dei Mori il vincitor.
Quand'ecco nell'acqua si compone
mirabile visione il simbolo d'amor
nel folto di lunghe trecce bionde
il seno si confonde ignudo in pieno sol.
"Mai non fu vista cosa più bella
mai io non colsi siffatta pulzella"
disse re carlo scendendo veloce di sella;
"Deh, cavaliere, non v'accostate
già d'altri è gaudio quel che cercate
ad altra più facile fonte la sete calmate".
Sorpreso da un dire sì deciso
sentendosi deriso re Carlo s'arrestò;
ma più dell'onor poté il digiuno,
fremente l'elmo bruno il sire si levò.
Codesta era l'arma sua segreta
da Carlo spesso usata in gran difficoltà
alla donna apparve un gran nasone
un volto da caprone, ma era Sua Maestà.
"Se voi non foste il mio sovrano"
-Carlo si sfila il pesante spadone-
"non celerei il disio di fuggirvi lontano;
ma poiché siete il mio signore"
-Carlo si toglie l'intero gabbione-
"debbo concedermi spoglia d'ogni pudore".
Cavaliere egli era assai valente
ed anche in quel frangente d'onor si ricoprì;
e giunto alla fin della tenzone
incerto sull'arcione tentò di risalir.
Veloce lo arpiona la pulzella
repente una parcella presenta al suo signor:
"Deh, proprio perché voi siete il sire
fan cinquemila lire, è un prezzo di favor".
"E' mai possibile, porco d'un cane,
che le avventure in codesto reame
debban risolversi tutte con grandi puttane!
Anche sul prezzo c'è poi da ridire
ben mi ricordo che pria di partire
v'eran tariffe inferiori alle tremila lire".
Ciò detto, agì da gran cialtrone
con balzo da leone in sella si lanciò;
frustando il cavallo come un ciuco
tra i glicini e il sambuco il re si dileguò.
Re Carlo tornava dalla guerra
lo accoglie la sua terra cingendolo d'allor.
Al sol della calda primavera
lampeggia l'armatura del sire vincitor.