Se i muri potessero raccontare – di Maurilio Riva

A parlare sono i capannoni di una grande fabbrica ormai ridotti ad uno scheletro, dopo aver ospitato 5 mila lavoratori.

Quello che desidero, prima che di me non resti più traccia, è che le storie di donne e di uomini che hanno vissuto le loro vite qui dentro - vite intense, tristi, arrese, furiose, normali, straordinarie, vili e coraggiose - vengano lette dalla gente comune, dai lavoratori, tecnici e operai che siano, di ieri e di oggi, precari, disoccupati, esodati o cassaintegrati, affinché possano comprendere i motivi della solitudine e le ragioni della sconfitta, affinché riescano ad apprendere qualcosa perfino dalle disfatte e a considerare che «c’è una tristezza operaia dalla quale non si guarisce che con la partecipazione politica».

La storia della Siemens di Castelletto di Settimo Milanese è la storia del fallimento di una industria pubblica che complessivamente arrivò a 30 mila dipendenti distribuiti tra Milano, Terni, Santa Maria Capua Vetere, L'Aquila e Palermo. L'azienda è morta di mal di monopolio e di mancato rinnovamento.

Tra gli anni 70 e gli anni 90 del novecento, mentre si apriva il mondo della elettronica digitale, di Internet e poi degli smartphone, alla Siemens di Castelleto si costruiva tutto l'occorrente per le centrali telefoniche elettromeccaniche e la produzione veniva adeguata alle richieste della teleselezione, all'essere detentori in regime di monopolio dei prodotti necessari al cablaggio dell'Italia.

Ci fu anche un tentativo, attraverso alleanze e fusioni (Italtel e Telettra) di riconvertirsi alle nuove tecnologie, ma tra errori politici ed errori di gestione la cosa non è mai decollata e sono rimasti i muri scheletriti.


quando fu presa la decisione del passaggio tecnologico, una centrale telefonica per connettere 10.000 utenti in tecnica elettromeccanica abbisognava di uno spazio di 50 metri per 20 metri, quindi di almeno 1000-1500 metri quadrati, mentre per connettere lo stesso numero di utenti con una centrale di commutazione costruita in tecnica elettronica era sufficiente un armadio metallico 1,50x2x0,80 (tutto in metri). Senza contare tutto il resto del processo coinvolto. Questo doveva essere alimentato con enormi quantità di matasse di rame e cavi a diverse dimensioni e trafilati metallici di ogni tipo che entravano in continuazione dai passi carrai dell’azienda.


La cosa che impressiona uno come me, con trascorsi politici simili a quelli dell'autore, ma con una esperienza lavorativa svolta nel pubblico e in particolare nella scuola, è il carattere elefantiaco della impresa: un grande elefante che cresce sapendo che presto dovrà morire e che funziona come una grande organizzazione che può permettersi di tutto: lo spreco, la lotta sindacale aspra, la parcellizzazione del sapere, la non valoirizzazione di chi potrebbe suggerire un miglioramento. C'è la lotta di classe, ci sono i capi e sopra di loro gli ingegneri quelli che sanno il perché delle cose, ma non lo dicono.

Il mostro va incontro al suo destino con i suoi torni a revolver, le sue trance, i suoi cavi. Si parte dal ferro e dal rame e si costruisce tutto; ci si allarga con la domanda e ci si restringe sino a morire quando il mondo diventa quello delle telecomunicazioni, delle reti e dal rame e dal ferro si passa al silicio.

Maurilio Riva è Moreno Senzamacchia (e senza paura) ed entra alla Siemens a 23 anni nel settembre del 1970. Ci sarebbe rimasto per 30 anni prima a lavorare sul torni a revolver al Prefa, poi spostandosi lentamente verso l'informatica man mano che oltre alla militanza politica, a quella sindacale, a quella di leader del movimento milanese dei lavoratori studenti, crescono anche le sue competenze professionali.

Moreno vive la fase alta della lotta di classe, quella dei Consigli di Fabbrica e dei CUB che gli fanno da stimolo; è un militante politico ma è prima di tutto un delegato, un bel delegato che, quando manovra il suo tornio ancheggiando con la cinghia di cuoio che consente di manovrare il portautensili, piace alle operaie addette ai torni, ai trapani e alle frese: gli piaceva osservare ma si sentiva anche osservato: alle sue spalle c’era una lunga fila di operaie ai trapani che squadravano ogni mossa del suo corpo e, quando gliene veniva voglia, gli fischiavano dietro come dei ragazzacci alle belle ragazze a spasso per la strada.

Per chi non ha vissuto gli anni 70 e 80 il romanzo-racconto ci fa fare un bel bagno nella esperienza dei primi contratti dei metalmeccanici, del diritto allo studio, della resistenza solidaristica alle ristrutturazioni (come il fondo autogestito di solidarietà con i lavoratori in cassa integrazione), della conquista delle assemblee e della costruzione di quelle di reparto, degli scioperi di reparto, delle lotte contro lo smantellamento degli impianti, di quelle contro la imbecillità della megastruttura che non vuol riconoscere le sue responsabilità anche quando ha torto marcio.


Il fondo di solidarietà. Preso un mese a caso vennero raccolti a Castelletto € 30.996,00. Gli aderenti furono 813, i donatori 636, i beneficiari 139. A ognuno dei beneficiari vennero dati € 250,13.
Non si è trattato perciò di nient’altro che di un “mutuo soccorso”, una forma di resistenza e di reciproca solidarietà


Figure memorabili come Moreno Senzamacchia, il delegato di reparto che un giorno - cascasse il mondo - seppe uscire in sciopero da solo dal suo reparto. Gli altri chinavano gli occhi quasi a chiedere scusa ma dal tornio, dal trapano, dalla trancia, dalla taglierina, dalla saldatrice a punto o dalla fresa non si levavano. Era una specie di “prete operaio”. Non prometteva l’eternità ma, attraverso l’educazione e l’esempio, predicava la necessità di un radicale cambiamento. Ognuno doveva riprendere il destino nelle proprie mani.


L'assemblea di reparto. «Buongiorno a tutti. Probabilmente non è indice di buona educazione entrare in questo modo nel vostro ufficio e, senza chiedervene la facoltà, mettersi a parlarvi come sto facendo io. Perdonate la mia zoticaggine ma il Consiglio di Fabbrica ha convocato queste assemblee retribuite e dal momento che buona parte di voi di solito non accorre giuliva nei luoghi che il sindacato propone per potervi parlare, questa volta ha deciso di venire lui da voi. Un po’ come Maometto e la montagna, ma questa è un’altra storia… Avevamo troppo bisogno di comunicare con voi, di informarvi su ciò che succede nel nostro paese a danno del mondo del lavoro, un mondo al quale - volenti o nolenti - appartenete anche voi. Del resto, voi potete continuare a occuparvi della commessa su cui state lavorando con grande condivisione ed è giusto che sia così. A me basta che le mie parole arrivino alle vostre orecchie e che mi guardiate o meno poco importa. Consideratemi come una radio, come il gazzettino padano, come un servizio poiché il sindacato è null’altro che questo».


Leader naturali

Trentamila persone messe in uno spazio ristretto non sono formiche e ci sono i leader naturali.

Poco prima dell'ingresso in fabbrica di Riva viene licenziato Egidio Bonfanti accusato di violenza nei confronti di tre operaie che non volevano scioperare. Le accuse si rivelano infondate e si susseguono una serie di processi in cui l'azienda è condannata alla riassunzione. Ma Bonfanti, a cui si paga lo stipendio, non rientrerà più al suo posto e alla fine, nel giro delle imprese pubbliche verrà dirottato sulla AEM (l'azienda elettrica municipale).

Rimane nella storia il suo intervento alla assemblea del PREFA cui riesce a partecipare a forza: Bonfanti prese la parola. Fu commovente, un grande oratore, un grande cuore. A chi gli chiese perché mai non avesse controdenunciato le operaie che avevano sostenuto il falso, disse: «Mai. Non l’avrei mai fatto perché un comunista non infierisce mai contro un lavoratore, nemmeno quando sbaglia».

Veniero Vavò era un socialista unitario, delegato UILM che tutti i giorni si beccava un lungo viaggio dalla Bassa: corriera, pullman e metrò. Un giorno al gabinetto coglie un discorso tra due esponenti delle nascenti BR che stanno preparando la gambizzazione di un direttore di produzione (fare il servizio a quel bastardo) e interviene con l'interessato salvandolo dall'attentato. Il dirigente ci metterà molti mesi a riaversi dallo scampato pericolo.


Affrontava le più ostiche assemblee con il suo modo singolare di usare accenti e scandire parole. Non prendeva di petto le faccende, non aveva una voce tonante, non si accendeva in furori effimeri. Si calava nei panni di chi lo stava ascoltando e azzeccava sempre cosa piaceva loro sentirsi dire.
Veniero scriveva delle poesie molto belle che recitava a menadito. Vavò declamava a memoria tutta “la Divina Commedia” di cui portava sempre con sé una edizione tascabile.


Le donne

Nel libro ci sono un  sacco di figure maschili significative per Moreno, Ultimo, il Lippa, il barzellettiere, il Martello, Celso Salamboschi (La sua divisa era il completo grigio, un maglione e sopra un eskimo verde. Era la voce del Pci nelle assemblee generali. Interveniva su ogni questione, con calma e scaltrezza. Non era un arruffapopoli e nemmeno un becero picista. Né aveva l’aurea del grigio burocrate. Commentava il fatto quotidiano con competenza e ragionevolezza), Solone dell'Esecutivo del CdF, …

Ma ho scelto di fare una carellata sulle donne, quelle che lo colpivano o con cui c'è magari il rimpianto di non averci costruito una storia sentimentale. Riva parla di molte di loro ed è singolare che, tranne per poche eccezioni, le donne vengono associate, nel soprannome o nella descrizione a figure di donne famose, star della TV ma anche militanti nelle lotte di liberazione ed emancipazione. Le donne sono quasi sempre vittime di compagni o mariti che non le capiscono e che soprattutto sembrano non accettare la loro militanza politico sindacale.

Ramona era una bella ragazzona della Fgci … Ramona si sposò molto giovane, ebbe un figlio ma il matrimonio per qualche ragione non funzionò e finì a rotoli. La sua appassionante giovinezza avvizzì di colpo. Ma Ramona è tosta, ama viaggiare, scrive poesie, prepara manifestri in cui descrive le criticità di ogni fase di lavorazione. Subisce rappresaglie antisindacali, forme di mobbing, ma non cede.  Rispetto all’antico adagio: «Chi è rivoluzionario da giovane sarà conservatore da vecchio» era orgogliosa di affermare che a lei era accaduto il contrario.

L’operaia di cui parliamo le rassomigliava: era una Lola Falana dalla bianca carnagione con una nuvola di capelli afro alla Angela Davis. Di non alta statura, indossava dei lunghi pantaloni che provvedevano ad occultare gli alti tacchi che le donavano slan cio. Un nasino camuso consolidava la sancita affinità con la star afroamericana. Aveva iniziato a lavorare in filanda facendo la piscinina la ragazzina che riforniva le operaie delle macchine da cucire di filo, tessuto e così via.

Arriva alla Siemens con la lettera del prete ed è felice perché ora prende una paga vera e finalmente, se vuole, può scioperare: Di orientamento religioso le sue radici formative. Palese l’impronta cattolica che illuminava la sua condotta pulita e disinteressata. Si avvicina e aderisce a movimenti di sinistra radicale, come a molti, a lei simili, è accaduto in quella stagione: nell’ordine, Avanguardia Operaia, Democrazia Proletaria e Rifondazione Comunista. Non accettava che le persone fossero cattive o nemiche, di per sé. Per cui si metteva a questionare con chiunque e non è dato sapere quante volte ritornasse sui suoi passi delusa e amareggiata. 

E' lei che trasforma Maledetta primavera  di Loretta Goggi nell'inno della lotta contro la cassa integrazione. E' ancora lei, che conosce il linguaggio dei sordomuti ad occuparsi di Giuseppino, il manovale sordomuto

Poi ci sono Mascia delle Frattocchie, che molla il marito maschilista e alla fine si mette con un operaio dell'Alfa, fa un figlio e, da delegata vive il contrasto del poter non fare i turni quasi come un tradimento di sè, Nori era nell’esecutivo del CdF. Era un bel tipo con una nuvola di capelli ricci come andava di moda a quei tempi, una magnifica ortensia dalle rossicce tonalità … Nori era una persona dolce e sensibile. C’erano fiori appassionanti nel suo giardino che però lei destinava puntuale agli uomini sbagliati,

Un profluvio dai capelli rossi

Senzamacchia ne parla con un po' di rimpianto come di una occasione perduta, non l'occasione di una scopata. Comparve all’improvviso nel suo ufficio, accompagnata da una comune amica. Ci teneva a conoscerlo sebbene sostenesse che fosse troppo spocchioso, perennemente sulle sue. Andarono a bere un caffè insieme e da lì iniziò una bella ma non durevole amicizia. Placida aveva questo nome poiché da infante era una paciarotta: dormiva sempre, meno che per il tempo delle voraci poppate…

Placida ha delle storie sentimentali complicate, c'è sempre un uomo che le molla dopo averci fatto un figlio, Era una donna luminosa con un profluvio di capelli rossi, le efelidi al viso e una voce roca e sensuale. Sembrava tenesse a imbastire una relazione con lui, forse solo per il sesso. Lei non aveva nulla che non lo attraesse, eppure non lo si crederà ma i due non andarono al di là di qualche incontro alla macchinetta del caffè e qualche scambio di confidenze. Questo dono inaspettato gli arrivò nella congiuntura sbagliata dal momento che il cuore del nostro Moreno, la sua testa erano presi per intero da una passione priva di futuro. Lui glielo confidò e lei si rese conto che non avrebbero mai utilizzato la casa di un’amica compiacente.

Qualche episodio sulla insensatezza della megastruttura

Quando ho finito la prima lettura mi è rimasto in bocca il sapore amaro della intera vicenda, di una megastruttura che non si rinnova, si adegua al tran tran mentre gli operai, anche le figure più significative, alla fine sono comparse dentro il Moloch tritasassi e tritavite.Riva ci racconta un paio di episodi molto significativi per capire come si viveva e si lottava lì dentro.

Il primo ha a che fare con l'arrivo in azienda dell'ingegner sistemotuttoio. Lo trovate a pagina 147 e seguenti. E poi c’erano gli ingegneri e i capi reparto che non distinguevano la fabbrica come luogo della produzione da un regime di libertà vigilata, lavoratrici e lavoratori come agenti essenziali del processo produttivo da subalterni da trattare con il frustino, il proprio ruolo di tecnici e di coordinatori con quello di sorveglianti e punitori  Sembra una critica troppo dura? Ne ho conosciuti per l’appunto 99 su 100 che ragionavano in questa maniera.

Così Moreno ci racconta del tugnitt. Sui 35 anni, ingegnere, svolse per un certo numero di anni i compiti di caposezione di un gruppo di sale di lavorazione nel grande capannone della prefabbricazione. Cresciuto a latte intero e ferrea disciplina era per diritto na- turale iscritto alla specie di persone votate ai posti di comandi. Educato a pensare che nella cassetta degli attrezzi del buon ingegnere dovessero esserci non tanto le competenze tecniche e l’attitudine a coordinare bensì la propensione a controllare e reprimere i sottoposti gerarchici. Arrivò animato dall’intenzione di sistemare i lavativi, insignito del sacro ruolo di moralizzatore.

Il tugnitt ne combina di ogni fino a farla grossa, così grossa da far intervenire l'esecutivo del CdF e la direzione che lo sconfessa. E così salta fuori che il castigamatti aveva anche qualche interesse in proprio: Avrebbe voluto drizzare le schiene agli scansafatiche. Le groppe di vetro dei mangiastipendi a ufo. Sano proposito. Peccato che da buon rovistatore dei dedali dell’umana farabuttaggine, appartenesse alla genìa dei castigatori che predicavano male e razzolavano peggio. L’impresa paterna di minuterie metalliche risultò infatti essere una delle affezionate subfornitrici dell’azienda e le tipiche produzioni dei reparti diretti dal “Tedesco tutto d’un pezzo” venivano rimpiazzate, per combinazione, con lotti di opinabile qualità acquistati all’esterno.

Il secondo episodio ha a che fare con la gestione della produzione che quando inizia ad essere eccessiva, in mancanza di adeguati magazzini di stoccaggio provvisorio viene accumulata all'interno dei capannoni riducendo gli spazi di passaggio e di manovra sino a che un addetto ad un carro-ponte, ne urta una catasta determinando il crollo. La reazione dell'azienda è quella di contestare all'operaio un comportamento pericoloso e ne nasce una bella lotta. La trovate a pagina 157 per la serie meno male che ogni tanto ci si mettono i lavoratori.

Rispetto a quel che è stata la Siemens per le BR (Mario Moretti, Corrado Alunni) mi sarei aspettato di trovare qualche elemento in più di tipo diretto sulla storia del terrorismo. Invece ho trovato solo alcune figure minori, gli sfigati, reclutati in maniera occulta dai maitre a penser che lavoravanoi nell'ombra.

In conclusione Maurilio Riva ha fatto un buon lavoro, ci ha raccontato come eravamo, ha sciolto un debito di riconoscenza nei confronti di persone a cui ha voluto bene, con cui ha lottato, per cui ha vissuto; ma secondo me questo romanzo avrebbe dovuto essere il primo della trilogia della sua vita quello in cui i ricordi hanno la precedenza sulla costruzione del romanzo. Secondo me c'è troppa roba a scapito del racconto vero e proprio che decolla bene quando il ricordo si trasforma in una storia come negli ultimi due episodi che ho citato.

Qualche suggerimento da lettore e non certamente da critico letterario quale non sono: ridurre le note e i riferimenti colti, lavorare di più sul racconto senza la pretesa di dettagliare come è andata per davvero, mettiamoci un po' di fiction.

Le altre due recensioni le trovate qui: Partita doppia e 2022 destinazione Corno d'Africa.


Maurilio Riva

Se i muri potessero raccontare – Memorie operaie in cemento armato

Editore Unicopli 221 pagine 15 €