Cara Fedeli ti scrivo – 1 (il prosciutto crudo e l’insalata russa)
Caro Ministro dell’Istruzione,
appartengo alla generazione che cominciava la scuola il primo di ottobre. Non varrebbe la pena di parlarne, se non per il fatto che il giorno precedente, un anonimo trenta settembre, era di impagabile e inebriante emozione.
Nell’ultimo giorno di settembre, infatti, si svolgeva la tradizionale visita pediatrica per noi quattro figli che avremmo cominciato le scuole il giorno successivo e a conclusione di quell’interminabile impegno medico ci sarebbe stata una cena speciale. Per certi aspetti sembrava un sabato, il giorno in cui i genitori erano più generosi di attenzioni e allegria, per altri era come capodanno, perché avremmo salutato i diritti per tuffarci nei doveri e avremmo cambiato gli abiti in grembiuli.
Durante il rientro a casa, nella rituale sosta a uno dei primi supermercati, si acquistavano prelibatezze concesse raramente, come il prosciutto crudo o l’insalata russa, cibi ammessi solo in occasioni di festa o per accelerare le pratiche della cena, come giusto in quel caso. Si mangiava vociando, elettrizzati per la quantità degli acquisti, spesso rubando dai piatti del vicino i bocconi che sembravano più appetitosi. Era quasi tutto permesso e senza rimproveri, in quella festa di addio e di benvenuto insieme.
Come sempre, poi, in un certo, ben preciso momento, inesorabile arrivava l’appuntamento tanto atteso. Mia madre imponeva il silenzio delle forchette e non solo: la voce composta del Presidente della Repubblica cominciava il suo discorso augurale per il nuovo anno scolastico.
Non che si capisse molto, noi quattro, ma i genitori erano chiari ed esigenti su questo punto: le Istituzioni si rispettano sempre, anche quando arrivano dall’etere.
Mi capita ancora di vedermi seduta in cucina, mentre il discorso del Capo dello Stato si districava tra un augurio e una sollecitazione e noi ascoltavamo rapiti quel signore così importante che si occupava di noi, proprio di noi e delle nostre amatissime maestre, che evidentemente eravamo tutti piuttosto importanti, se ci dedicava così tante attenzioni. E rivedo bene tutti noi bambini, con i grissini in mano e l’emozione nel cuore verso quell’attesa che si andava scartando minuto dopo minuto e sarebbe diventata gioco reale il giorno successivo.
Forse è per questo. Che ho fatto l’insegnante, intendo. Per il brivido di quel privato così abbracciato dallo Stato, per quella cura dei miei genitori che non si stancavano di ripeterci quanto fosse importante in democrazia il rispetto fattivo di tutti e quanto questo fosse visibile proprio lì, in quel momento. Per l’emozione di un prosciutto sospeso per una più nobile causa, verrebbe da dire.
Da allora, in effetti, ogni avvio d’anno è un po’ come allora, per me. E quando mi sono allontanata da scuola, ci sono sempre tornata con in testa l’idea che solo lei e lei sola aiuta a immaginare e a credere che ogni domani sarà una giornata destinata a renderci migliori.
La storia trascorsa dai quei lontani trenta settembre, però, dovrebbe aiutarmi finalmente a dire la verità. In un’epoca di così forte tensione morale, è giusto uscire dall’ombra e condividere le negligenze di quel sistema universalmente considerato “ammortizzatore sociale”, che porta danno economico alle finanze italiane e impedisce ai giovani di crescere in sapienza, virtù e bellezza.
Mi sento dunque di confessare:
- di avere sognato qualche domenica in famiglia libera dai compiti da correggere, senza capire quanto anche la correzione sia un forte momento di autoaggiornamento;
- di avere interrotto più di una volta la preparazione delle lezioni per preparare la cena;
- di essermi presa delle pause pranzo di dieci minuti, quando in effetti per mangiare una mela ne basterebbero la metà;
- di avere concesso possibilità di colloquio a studenti e genitori ogni volta che l’abbiano richiesto e non nella sola ora settimanale convenuta (aggirando così i regolamenti interni);
- di aver accompagnato a mie spese gli studenti a teatri e musei, a conferma del carattere part-time del mio lavoro che mi permette di assistere a spettacoli di pomeriggio, quando gli adulti sono impegnati a lavorare seriamente;
- di avere raccontato favole alla mia bambina la sera tardi, quando avrei dovuto approfittare per studiare e migliorare la qualità del mio insegnamento;
- di non avere detto mai il numero effettivo delle mie ore di lavoro, per non mettere in difficoltà lo Stato, quanto a retribuzione e reputazione;
- di avere dissentito, purtroppo, da chi sosteneva che gli insegnanti non sono lavoratori che meritino ore di straordinario (e in effetti siamo tutti molto ordinari);
- di avere avuto fiducia nelle riforme e di avere disturbato molto i pomeriggi degli studenti e le aspettative dei genitori, per esempio, per la realizzazione del progetto di Alternanza Scuola Lavoro;
- di avere desiderato le vacanze (tutte, ma proprio tutte, natalizie, pasquali, estive).
Caro Ministro, questo breve, simbolico elenco di mancanze, privo di altre forse non più gravi, ma certo altrettanto compromettenti, disegna bene i miei trent’anni di scuola e resta avvolto sul grissino della fiducia tradita.